Storia della Bocconi

1902-1915. Gli esordi

Nascita di una libera università


Parole chiave: Milano, Bocconi Ferdinando, Bocconi Luigi, Presidente Sabbatini Leopoldo, Famiglia Bocconi

Quando l’Università Bocconi aprì i suoi corsi, il 10 novembre 1902 – novant’anni fa compiuti –, presidente del Consiglio era l’unico lombardo che abbia guidato un governo nell’intero arco del post-Risorgimento, nell’età della prosa succeduta alla breve stagione della poesia: il bresciano Giuseppe Zanardelli, interprete di una sinistra liberale bonaria, cordiale, indulgente, tutt’altro che chiusa nelle barriere di qualunque pregiudizialismo.

E ministro dell’Interno – una volta tanto svincolato dal capo del governo perché predestinato a succedergli – era l’unico statista dell’Italia unitaria cui si possa applicare per intero e senza pentimenti l’insegna «liberale», per avere seguito ed assecondato il moto europeo della patria, sottraendolo all’urto fra catastrofismo reazionario e catastrofismo rivoluzionario, intendo dire Giovanni Giolitti.

L’Italia nuova, travagliata da mille problemi, da mille ingiustizie e da mille squilibri, è uscita dalla fase dell’infanzia collerica, irascibile e dispettosa, che è culminata nel disastro di Adua. Comincia, nei primi anni del secolo, e dopo la svolta ammonitrice dell’ostruzionismo parlamentare e poi del regicidio, dissipati i fantasmi di una svolta liberticida, l’Italia adolescente: con tutti i turbamenti e gli scompensi dell’adolescenza (basti pensare al dannunzianesimo, il prezzo che l’Italia civile e casalinga dovrà pagare all’irrazionalismo dilagante), ma anche con i sintomi e i presagi di un’imminente maturità, i segnali di nuovi progressi compiuti, di nuovi traguardi raggiunti, soprattutto nel settore degli equilibri e degli avanzamenti sociali.

L’Università Bocconi, che nasce in questo clima turbato e lacerato della Milano fra il 1896 e il 1901, nell’urto fra moderati e progressisti, composto poi nella solennità della scienza, è il primo istituto superiore di Scienze Commerciali (commerciali nel senso antico, quasi rinascimentale del termine) che rinunci ad essere soltanto scuola professionale, che metta l’approfondimento delle scienze economiche – in via di costante modernizzazione in quella stagione conclusiva del positivismo – alla base di qualunque attività che all’economia comunque si richiami.

Usciamo dalla bottega ed entriamo nella fabbrica. L’artigianato risorgimentale cede il posto all’industria manifatturiera; e Milano chiede alla scienza il perché dei suoi stessi successi.

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La fondazione della libera università costituisce l’approdo di un’impresa artigianale trasformatasi già, per virtù propria e con propri mezzi, in una struttura imprenditoriale. 

Se Piero Gobetti avesse conosciuto a fondo, lui torinese e incantato dal modello della Fiat, la parabola intera di Ferdinando Bocconi, un vero protagonista della Milano post-unitaria, non avrebbe esitato a comprenderlo fra i «solitari eroi del capitalismo», in cui aveva collocato Giovanni Agnelli, con una scelta sostanzialmente condivisa da Gramsci. E in effetti la vita di Ferdinando Bocconi come creatore di ricchezza è straordinaria ed emerge, con lineamenti peculiari e inconfondibili, dal paesaggio di quell’Italia arretrata e tormentata che fu l’Italia fra il 1870 e il 1900, prima ancora che spiccasse il volo il capitalismo, direi esordiente, del primo Giovanni Agnelli, il futuro senatore.

Un uomo di umili origini, oscillanti fra la Milano austriaca del 1836 – l’anno della sua nascita – e la Lodi dei primi anni della scuola elementare: quella Lodi dove iniziò a lavorare come venditore ambulante di stoffe.

Attraverso lo straordinario esercizio di ambulante – di cui ancora negli anni ’30 di questo secolo sopravviveva il ricordo nelle campagne toscane e non solo toscane – Ferdinando Bocconi si preparò a realizzare il grande magazzino per la vendita di ogni genere di stoffe e di altri materiali di abbigliamento e, intorno alla metà degli anni ’70, si collocò nel centro di Milano, sviluppandosi con un ritmo prodigioso.


Una crescita che, anche nelle etichette, ripercorse la storia dell’Italia fanciulla. All’inizio, come eco della cultura francese predominante, «Aux villes d’Italie»; successivamente intorno al 1880, dopo i primi brividi di un nazionalismo e colonialismo che escludeva le ingerenze straniere, l’italianizzazione del nome, la scelta di «Alle città d’Italia». E quelle città d’Italia accompagneranno la formazione di uno straordinario patrimonio, che culminerà nel termine dannunziano «La Rinascente», quasi in limine mortis dell’uscita della famiglia dai grandi magazzini, già scomparso da dieci anni il fondatore della fortuna, Ferdinando, nominato senatore nel 1906.

Poche cifre danno il senso di una storia. Intorno al 1880 la casa Bocconi occupava nella sede centrale circa trecento impiegati ripartiti in trentuno sezioni, quante erano le categorie di merci vendute. E dava lavoro a circa duemila persone in Milano, oltre a quelle delle succursali nelle città di Torino, di Genova, di Trieste e di Roma.

Dieci anni più tardi, intorno al 1889, quando si inaugurò la nuova sede costruita appositamente in piazza Duomo e che era costata cinque milioni e cinquecentomila lire, i magazzini Bocconi occupavano 1432 persone e avevano un’esposizione interna di merci per circa 2300 metri: i reparti più importanti erano le vendite di stoffe, di abiti confezionati, di biancheria, di merceria, di giocattoli, di arredamento e mobili, di profumeria.

E sullo sfondo dell’apoteosi di Ferdinando Bocconi, l’apoteosi, contemporanea e malinconica, dell’Italia crispina. Il futuro senatore si distingue dai moderati lombardi, anticolonialisti e fautori del «piede di casa», per una certa, anche se mai incondizionata, simpatia verso «l’energia» dell’antico compagno di Garibaldi, verso la politica antisocialista del pugno di ferro incarnata da Crispi e culminata nella repressione, così severa e sanguinosa, dei moti di Lunigiana e di Sicilia.

Un rapporto sofferto e tormentato: che culminerà nella tragedia del figlio Luigi, cui l’Università Bocconi deve la sua nascita, e la sua conquistata e ben meritata fortuna. Il figlio primogenito partirà per l’Africa nel 1896 come inviato della «Riforma», il quotidiano crispino per eccellenza. Un po’ giornalista e un po’ combattente, inseguendo gli stessi sogni di evasione e di grandezza che percorrevano allora i romanzi di Salgari. E sarà ucciso ad Adua, in quella battaglia di Abbà Garimà del 1° marzo 1896, che travolgerà le speranze e i fantasmi dell’Italia post-risorgimentale.

La libera università fu l’approdo del suo umanesimo imprenditoriale. Al termine della sua lunga e operosa giornata, fiaccato dal dolore della scomparsa del figlio primogenito nelle lande africane, volle legare i suoi beni e il nome della sua famiglia a una prestigiosa istituzione: «nata per iniziativa privata, per un atto di amore, a motivo di un dolore», fra le più severe ed esclusive d’Italia nel campo di quegli studi economici che egli continuava a chiamare, come i vecchi ambulanti da cui era partito, «commerciale», la Bocconi, appunto.

L’Università «Bocconi», la «sua» università, ha laureato negli scorsi decenni tanta parte dell’élite del mondo economico, finanziario ed imprenditoriale italiano. Ed è tuttora una garanzia e un vanto la qualifica di bocconiano, non incrinata dal generale scadimento che ha scosso in tempi lontani e recenti tante università del nostro paese.

Già Leopoldo Sabbatini, che dell’ateneo fu il primo presidente e rettore, ci ricordò che il merito principale di Bocconi, nell’impostare il suo programma di studi universitari, non fu solo quello di aver voluto ricondurre «l’armonia fra la scuola e la vita», ma soprattutto quello di avere intuito il ruolo preminente della cultura e della scienza quale fondamento della crescita economica e morale della nazione.

È un’alba, quella della Bocconi nella Milano del 1902, che coincide con l’alba della nazione appena appena moderna, uscita dal guscio della sua povertà, dalle sue sofferenze, dai suoi infiniti e perduranti dislivelli sociali. Un miracolo che si affianca, anche fisicamente, a quello del «Corriere della Sera» albertiniano. La prima sede della Bocconi, quella che ha retto fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, era infatti vicinissima al palazzo che Luigi Albertini costruì sul modello inglese del «Times» e che ancora oggi ospita il più grande giornale italiano.

Leggiamo la testimonianza di uno dei più illustri allievi della Bocconi oggi Presidente e animatore dell’Associazione «Amici della Bocconi», Libero Lenti: «La vecchia sede della Bocconi: un edificio a ferro di cavallo costruito su tre piani sul principio del secolo. S’affacciava su uno slargo, piazza Statuto, e si snodava su due vie laterali, via Statuto e via Palermo. Due nomi che, assieme a molti altri di strade vicine e meno vicine, evocavano battaglie regie e garibaldine».

Quando ebbi l’onore di conoscere, fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50, Luigi Einaudi che alla «Bocconi» aveva sempre insegnato come incaricato (essendo ordinario di Scienza delle finanze a Torino) facendo la spola fra le due città, egli mi raccontava che ogni volta che usciva dall’università, dalla sede di via dello Statuto, attraversando la strada si recava a trovare Luigi Albertini, il leggendario e inattingibile direttore del «Corriere», che entrava sempre da una porta separata da quella dei redattori e non ne conosceva quasi nessuno (tanto è vero che Corrado Alvaro, redattore del «Corriere» negli anni ’20-25, andava in Galleria a vedere il volto del suo direttore riprodotto fra le fotografie dei personaggi celebri della Milano del tempo: fotografie già colpite dagli insulti squadristi).

Einaudi era fra i pochissimi che davano del «tu» ad Albertini. E al «Corriere», terminata la lezione alla Bocconi, portava il suo articolo, un limpidissimo commento di politica economica che creava un genere, si potrebbe dire, quasi letterario.

Pensando ad Albertini e a Einaudi possiamo dire che il motto dell’azienda commerciale fondata da Ferdinando Bocconi – «Fervet opus» – riflette quel mondo, si addice ancora, a tanti decenni di distanza, a tutti quegli studiosi, ricercatori e laureati nelle discipline aziendali ed economiche dell’Università Bocconi, in pieno fervore di iniziative e in crescente sviluppo.

È un motto che ci dice ancora qualcosa: come testimonianza di una generazione di uomini forti che seppero avviare la trasformazione dell’Italia – un paese georgico e arcadico, arretrato e provinciale – in una nazione industriale e moderna. Quella che sarebbe giunta alla posizione di quinta potenza mondiale del mondo, nonostante tutti gli errori e le insufficienze della classe dirigente di questi anni e decenni.

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La grande opera storica che alla «Bocconi» è dedicata e di cui esce il primo volume, sotto la cura vigile e sagace di Aldo De Maddalena, maestro a più generazioni di allievi, e con i contributi originali e ben coordinati di Enrico Decleva, di Marzio A. Romani e di Marco Cattini, costituisce il giusto omaggio che tutti noi della «Bocconi» dobbiamo all’opera di coloro che ci hanno preceduto nel potenziamento di questo tempio del sapere libero e laico in fervida e costante emulazione con le altre università, e sullo sfondo del pluralismo unico ed inimitabile di Milano che vede fiorire insieme l’Università Bocconi e, due decenni più tardi, l’Università Cattolica sullo sfondo de El noster Politeknik come diceva Carlo Emilio Gadda, e solo con l’arrivo pressoché conclusivo, dell’Università Statale.

Un omaggio in primo luogo ai presidenti che mi hanno preceduto. A Leopoldo Sabbatini, che unì le cariche di presidente e di rettore dal 1902 al 1914; a Ettore Bocconi (1914-1932); a Javotte Bocconi Manca di Villahermosa (1932-1957); a Furio Cicogna (1957-1975). E ripercorriamo pure l’albero dei rettori, come si faceva una volta nelle vecchie famiglie.

E voglio ricordare i maggiori docenti dell’ateneo, gli uomini che hanno lasciato tracce durature della loro presenza, da Luigi Einaudi a Gustavo del Vecchio, da Maffeo Pantaleoni a Giorgio Mortara, da Gino Zappa ad Armando Sapori, da Ferdinando Di Fenizio a Ugo Caprara, da Giovanni Demaria a Libero Lenti, a tutti coloro che dalla «Bocconi» – tempio di libertà e di autonomia anche negli anni fascistici – hanno spiccato il volo, a cominciare da Riccardo Bauer e da Carlo Rosselli. E tre grandi nomi per il diritto: Francesco Carnelutti, Gaetano Mosca, Santi Romano. E altri cinque grandi nomi per la facoltà di lingue: Francesco Flora, Mario Fubini, Carlo Bo, Nino Valeri, Antonio Banfi.  

Mi sia consentita una riflessione finale.

Quando assunsi la presidenza della Università Commerciale Luigi Bocconi, a metà degli anni settanta, il mecenatismo privato costituiva il maggiore gettito del libero Ateneo, che era sempre vissuto, nelle sue migliori stagioni, sui contributi degli studenti.

Le cosiddette «tasse scolastiche» coprivano appena il 17 per cento dei costi, rispetto al 60-65, che era la regola della vecchia Bocconi. Un fenomeno allarmante: perché dietro il mecenatismo privato – un termine più adatto al Rinascimento che ad oggi – si annidano spesso interessi che possono essere alla lunga corruttori e inquinanti.

Il primo obiettivo che mi posi come Presidente – coadiuvato dall’intelligente collaborazione dell’amico Guatri, fedelissimo allo spirito e alle tradizioni della Bocconi – fu quello di ridurre costantemente la percentuale del mecenatismo e di affrontare con determinazione e, devo dire, in rapporto ai tempi, con coraggio, la revisione dei contributi accademici, come si chiamano alla Bocconi.

Debbo ricordare con commossa gratitudine la cooperazione che a tal fine mi dette il Rettore del tempo, il compianto amico Gasparini, che con la sua instancabile diplomazia affrontò i contatti necessari con le rappresentanze studentesche per persuaderle della necessità che la Bocconi ritrovasse la sua autonomia economica, base della stessa libertà didattica prevista dalla costituzione.

Collaborazione che si è continuata nello stesso spirito con l’attuale Rettore Mario Monti, cui va il nostro grato pensiero.

E la revisione dei contributi accademici avvenne con un piano di gradualità e in stretta correlazione con i tassi di inflazione. Ma soprattutto tenendo presente l’articolo 34 della Costituzione, il quale è molto chiaro e perentorio: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Dove è evidente che tutti coloro che non dispongono di mezzi debbono frequentare gratuitamente l’università. Ma tutti coloro che di mezzi dispongono debbono dare un contributo pari alle loro possibilità.

La capacità e il merito erano giudicati dai Costituenti la condizione per raggiungere i gradi più alti dell’istruzione anche se privi di mezzi. E ricordo che alla Costituente una parte della sinistra, quella laica e riformatrice, tipo Calamandrei e Codignola, voleva aggiungere all’emendamento «solo i capaci e i meritevoli». Quel «solo» cadde per iniziativa dei maggiori partiti. Ma rimase lo spirito: l’omaggio al merito, a quella che venne chiamata negli anni della contestazione – ed in modo sprezzante – la meritocrazia. L’omaggio alla capacità di studiare che dispensava da ogni contributo accademico.

E così era la regola che dalla Costituzione derivai direttamente per la Bocconi, la quale esenta gli studenti poveri, o addirittura li assiste con propri ulteriori contributi, ed esige che coloro che possono, esponenti delle classi censitarie, corrispondano con tributi pari ai servizi che l’Università, accresciuta e potenziata in questi anni, è in grado di rendere e più potrà rendere nel futuro: quando sarà attuato il «Piano 2000» al quale si è lavorato con costante impegno in tutti questi anni e che consacra il ruolo non solo nazionale ma internazionale della Bocconi. Ruolo confermato in questi ultimi tempi anche dagli accordi con università non più soltanto dell’Ovest, ma dell’ Est: esemplare in questo senso è l’intesa con l’Università di San Pietroburgo per tutto il settore dell’economia aziendale e del marketing.

Le università libere obbediscono ad una loro filosofia: dalla Bocconi alla Cattolica. È una filosofia irrinunciabile. Debbono sopportare i rischi della libertà e non possono vivere di assistenzialismo né di problemi clientelari.

La Bocconi costituisce un faro in una situazione ancora abbastanza indeterminata e confusa degli atenei italiani, situazione che vede da troppe tribune lo spreco della parola «autonomia»: condizione per il progresso dell’intera università.

La Bocconi ha svolto come sempre la sua funzione di anticipazione sulla realtà prevedendo esperienze e scambi culturali non soltanto con gli atenei europei, ma anche con atenei americani e dell’estremo oriente.

Il ruolo che l’università ha nel processo di unificazione europea, di costruzione di una nuova comunità di europei, è di grande rilievo, è un ruolo in tutti i sensi essenziale, ed è necessario che l’università del futuro sia sempre protagonista nel processo di internazionalizzazione, di superamento proprio di quelle estreme eredità del tribalismo e del municipalismo che affiorano impetuose e talvolta sconvolgenti nel panorama del nostro continente, riproponendoci problemi o risollevando temi che ritenevamo superati per sempre.

La liberalizzazione del mercato del 1993 porterà da un lato ad estendere la validità dei titoli accademici al di là delle frontiere, ma farà nascere equamente una nuova competitività che esigerà cambiamenti delle nuove strutture didattiche, scientifiche e universitarie e che esigerà un nuovo modo di pensare europeo.

L’imminenza dell’appuntamento europeo impone al nostro paese un esame di coscienza molto più profondo di quello fino ad ora affrontato e una linea di rigore che non si è ancora tradotta in atti conseguenti. Si impone uno sforzo supremo che esige, anche in forme diverse, il concorso di tutte le forze sociali e politiche che hanno contribuito al varo del patto costituzionale. Patto che deve essere modificato, aggiornato, arricchito, ma non rovesciato.

Assolvendo la sua funzione europea, Milano compie il suo dovere, che è anche un dovere di tutela dell’unità nazionale, di difesa di quella certa idea dell’Italia che invano è stata aggredita in questi anni, che ha ricevuto minacce e insidie dalle quali noi abbiamo il dovere di ripararla, custodi di un patrimonio che riunisce le generazioni del passato, del presente e dell’avvenire.

Giovanni Spadolini