Storia della Bocconi

1902-1915. Gli esordi

I precedenti


Parole chiave: Milano, Politecnico, Camera di Commercio

Dell’opportunità di dar vita ad una Scuola superiore di Commercio o a strutture in qualche modo analoghe si cominciò a parlare a Milano nel corso degli anni ’80, anche in seguito all’entrata in funzione, alcuni anni dopo quella di Venezia, promossa nel 1868 da Luigi Luzzatti, delle Scuole superiori di Bari e di Genova[1].

Ricco e decisamente ben dotato in rapporto agli altri centri italiani quanto a istituti per l’istruzione elementare e secondaria, il capoluogo lombardo si presentava a quel tempo, come è ben noto, con una fisionomia affatto particolare per quel che concerneva la formazione universitaria e superiore. A differenza di Torino, ed analogamente invece a Venezia o a Firenze (per richiamare la situazione propria di altre tre capitali di stati regionali preunitari), Milano (o per dir meglio chi ne aveva a volta a volta amministrato le sorti) aveva in passato rinunciato ad assumere i compiti di sede universitaria, tradizionalmente svolti per l’area lombarda da Pavia, con gli inconvenienti di vario ordine, ma anche con i vantaggi e le particolari prerogative connesse con un tale ruolo. E anche dopo il 1860 i giovani milanesi avevano continuato a far capo per lo più all’ateneo ticinese per laurearsi in Giurisprudenza, Medicina, Scienze naturali. L’unica facoltà in senso proprio operante da quella data a Milano era quella di Lettere e filosofia, dipendente dall’Accademia scientifico-letteraria creata a seguito della legge Casati del novembre 1859.

Neppure negli anni del pieno monopolio accademico pavese, in età spagnola, austriaca o napoleonica, Milano aveva d’altra parte desistito dal dotarsi di specifiche strutture scientifiche e deputate all’alta cultura di livello o con caratteristiche parauniversitarie. Una indubbia soluzione di continuità era intervenuta sotto questo profilo solo con il ritorno dell’Austria nel 1815. Proprio negli anni della Restaurazione erano tuttavia maturati nella classe dirigente cittadina gli stimoli ed i fermenti destinati a dare frutti anche operativi tanto significativi in seguito. Un processo cui contribuirono sia elementi dinamici del vecchio patriziato sia esponenti della nuova borghesia interessata agli affari (con un determinante apporto di imprenditori e tecnici provenienti da oltralpe): gli uni e gli altri sensibili alla visione che del progresso, e dei modi per promuoverlo, eran venuti proponendo e proponevano gli scrittori del «Conciliatore», dell’«Eco della Borsa», del «Politecnico», del «Crepuscolo», accomunati nella convinzione che non esistessero alternative di fronte alla rivoluzione industriale in atto fuori dei confini se non quella di adattarvisi, inserendosi nel suo alveo, semmai allargando la sfera degli interventi innovatori agli altri settori vitali dell’agricoltura, del commercio, del credito.

E per superare il dislivello, per consentire a Milano e alla Lombardia di compiere l’aggancio con l’Europa avanzata, uno strumento essenziale veniva individuato precisamente nell’istruzione, intesa sia sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico sia sotto quello, non meno determinante e condizionante, del cambiamento d’attitudini e di mentalità. Come si legge in uno dei testi-chiave per la comprensione del suddetto processo, il rapporto annuale del 1842 alla Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri del presidente Enrico Mylius: «il miglior mezzo di favorire l’industria è quello di illuminarla coll’istruzione, di svincolarla dagli imbarazzi delle inveterate consuetudini e renderla capace di impiegare a suo vantaggio tutte le invenzioni del giorno»[2]. Una dichiarazione di principio in cui non è arbitrario vedere racchiuso un vero e proprio disegno strategico di ampio respiro e di lungo periodo, imperniato sulla stretta associazione tra «pratica» e «teorie» e che, come tale, collega i primi corsi di chimica applicata all’industria affidati l’anno successivo ad Antonio Kramer a tutto quanto verrà poi.

A maggior ragione dopo il 1859, a dimostrazione e a conferma del ruolo cui la città poteva legittimamente aspirare entro l’appena costituito stato unitario, si pose dunque l’esigenza, compatibilmente con i mezzi a disposizione, di potenziare le istituzioni sopravvissute e soprattutto di crearne di nuove e di adeguate ai tempi ed agli effettivi bisogni. La stessa Accademia scientifico-letteraria venne inizialmente concepita con ambizioni ben superiori, pensando di farne una sorta di equivalente del Collège de France, e ripiegando solo in un secondo tempo sulla sua destinazione a semplice facoltà letteraria e rivolta alla formazione di insegnanti. In origine, in tale incombenza, essa avrebbe dovuto sostituire quella operante a Pavia: le rimostranze di quest’ultima furono invece tali da far rientrare la decisione. Ma per allora quello rimase l’unico caso di sovrapposizione. L’idea di fondo, per il momento, era che Milano dovesse semmai dotarsi di istituti per l’istruzione superiore a carattere prevalentemente applicativo, estranei come tali agli schemi accademici tradizionali e specificamente funzionali invece a esigenze di professionalità non soddisfatte dall’ateneo pavese.

Il caso insieme emblematico e di più larga e diretta rilevanza fu naturalmente rappresentato dal R. Istituto tecnico superiore concesso dalla medesima legge Casati del 1859, propugnato e voluto da Francesco Brioschi sul modello dei politecnici svizzeri e germanici, cui inizialmente si poté accedere solo dopo aver frequentato per due anni una facoltà di Scienze (il biennio preparatorio, che rese l’istituto milanese autosufficiente, venne concesso solo nel 1875). Fu di poco successiva l’istituzione, dal 1870-71, della Scuola superiore di Agricoltura, sorta col decisivo contributo della Provincia e del Comune, mentre proseguiva la sua specifica e per certi versi parallela attività la Scuola superiore di Medicina veterinaria, operante sin dal 1791 e potenziata in età napoleonica.

Il quadro delle iscrizioni agli istituti appena citati, agli inizi degli anni ’80, dava già di per sé, in qualche modo, l’indicazione del loro diverso peso e della loro diversa incidenza sulla vita cittadina. Mentre gli allievi dell’Accademia scientifico-letteraria erano nel 1879-80 24, quelli della Scuola superiore di Veterinaria assommavano a 31; 44 erano quelli della Scuola superiore d’Agricoltura (che in 10 anni aveva sfornato 76 licenziati); 224 quelli dell’Istituto tecnico superiore (che nel frattempo, in 15 anni di attività, aveva rilasciato già 777 diplomi)[3]. Salvo lo spazio, modesto ma comunque non irrilevante anche sotto il profilo dei riflessi sulla vita cittadina, riservato agli studi umanistici, Milano si dimostrava dunque attrezzata sia ai fini delle esigenze di consolidamento e di «perfezionamento» delle sue zone agricole e della conseguente preparazione di elementi tecnicamente preparati da adibire alla loro gestione, sia, e tanto più, in vista della formazione dei quadri indispensabili all’affermazione delle sue via via emergenti energie manifatturiere o da adibire agli altri settori della sua vita economica e civile richiedenti a vario titolo competenze ingegneristiche e specializzazioni di tipo applicativo. L’orizzonte per più versi analogo entro cui operavano il Politecnico e la Scuola superiore di Agricoltura era d’altra parte confermato dalla comunanza di alcuni insegnamenti e di alcuni docenti.

Rivelazione e affermazione della vitalità e della già raggiunta consistenza della Milano industriale, l’Esposizione nazionale organizzata nella città ambrosiana nel 1881 si configurò anche come una consacrazione delle funzioni e dei metodi della scuola politecnica di Brioschi e di Colombo, dei suoi criteri didattici, della sua capacità di formare imprenditori, dirigenti e addetti sufficientemente duttili e in grado di adeguarsi alle diverse e molteplici esigenze di quella particolare fase dello sviluppo economico italiano. Nel notissimo saggio su Milano industriale compreso in una delle pubblicazioni comparse in quelle circostanze, Giuseppe Colombo mostrava d’altra parte come le funzioni esercitate dalla medesima scuola fossero inserite in una più larga e ben definita strategia dello sviluppo cittadino che non poneva in contrapposizione, ma anzi vedeva «intimamente collegati» commercio e industria, notando i benefici che al primo sarebbero venuti tanto dalla presenza «di un gruppo di grosse industrie esercitate in larga scala», quanto dalle «numerosissime e piccole manifatture» caratteristiche della fisionomia ambrosiana[4].

L’entità effettiva delle attività propriamente commerciali milanesi a quella data non era in realtà facilmente precisabile, considerata sia la lacunosità delle cifre disponibili sia l’oggettiva mescolanza, in molti casi, di attività di produzione e di vendita ad opera dei medesimi soggetti. Un prospetto statistico predisposto anch’esso in occasione dell’Esposizione del 1881 faceva in ogni modo ascendere a poco meno di 10 mila (esattamente 9892) le botteghe e gli esercizi commerciali (a fronte di 1663 fabbriche e 1581 stabilimenti, cui si aggiungevano 11.615 laboratori domestici)[5]. Su una popolazione complessiva residente di poco superiore alle 300 mila persone, si poteva insomma calcolare in varie diecine di migliaia il numero di quanti traevano il proprio sostentamento da attività di scambio. Tra loro gli addetti a imprese di piccole o piccolissime dimensioni continuavano ad essere i più numerosi. Ma erano già operanti anche ditte e agenzie che esercitavano il commercio all’ingrosso e imprese di spedizione e di trasporto di consistenti dimensioni collegate alle piazze estere, come quelle di Gondrand, Franzosini, Merzario, Mangili. Ed è appena il caso di ricordare in questa sede il significato innovatore per il commercio cittadino rappresentato dall’introduzione ad opera dei fratelli Bocconi del modello di origine francese del grande magazzino e del collegamento da loro instaurato fra industria della confezione e grande distribuzione. Al momento dell’inaugurazione nell’ottobre 1889 della nuova grande sede di fianco al Duomo («uno di quegli avvenimenti – si scrisse – che fanno epoca nella storia di una città», dando l’idea di dove si potesse «arrivare, dal nulla, coll’ingegno e coll’attività») l’impresa in questione occupava 200 persone adibite alla vendita, 300 impiegati, 100 tecnici addetti alle confezioni, 600 lavoranti occupati nei laboratori e 500 altri impegnati a domicilio[6].

I_05_editarchiv_cd011_grandiosi magazzini_web

In termini di qualificazione professionale e dei connessi riscontri sul piano della formazione scolastica, le esigenze complessive della Milano commerciale restavano peraltro, ai livelli più bassi (che erano anche i più diffusi), decisamente modeste. Per la gran massa degli addetti continuava a non essere richiesta alcuna particolare specializzazione preventiva oltre al saper leggere e al districarsi con le quattro operazioni aritmetiche elementari, bastando loro, per il resto, la pratica individuale e l’esperienza. Lo stesso poteva dirsi d’altronde anche per la gran parte dei conduttori degli esercizi a carattere familiare, che restavano la grande maggioranza, magari non autosufficienti per la tenuta della contabilità o in qualche particolare situazione, ma che per risolvere i loro problemi non avevano certo bisogno di grandi competenze esterne, e tantomeno di badar troppo al titolo di studio di chi veniva loro in soccorso.

Il sistema scolastico cittadino non era d’altra parte sfornito ai fini della formazione di personale di più elevata capacità e preparazione, eventualmente destinabile alle maggiori aziende commerciali, ovvero all’impiego in agenzie di assicurazione, in istituti bancari, in servizi e uffici vari. Era di per sé indicativa la buona frequenza di allievi di cui godeva, a differenza di quanto accadeva in altri luoghi, la sezione di commercio e di ragioneria (cui si accedeva dopo un anno comune) del locale Istituto tecnico (intitolato dal 1884 a Carlo Cattaneo). Con 1512 iscritti nel ventennio 1860-1880, rispetto ai 1075 di quella Fisico-matematica e ai 272 di quella d’Agrimensura, la sezione in questione risultava in effetti di gran lunga la preferita[7], a riprova, evidentemente, del conto che si poteva fare della relativa licenza per trovare occupazione. Ferme restando le prerogative e le funzioni dell’Istituto tecnico (con le sue eccellenti tradizioni di serietà e insieme di «spirito eminentemente progressivo»)[8], il problema era però di vedere se quest’ultimo potesse ancora considerarsi sufficiente e pienamente adeguato a fornire il tipo di preparazione che l’accresciuta complessità della vita economica unita ai processi di modernizzazione in atto rendevano necessari.

Nell’ambito di una delle categorie professionali più direttamente coinvolte, quella dei ragionieri, non mancava in effetti chi sosteneva per l’appunto il contrario. Dall’agosto 1880 gli elementi più qualificati e dinamici della suddetta categoria erano organizzati anche a Milano in una associazione che aveva non a caso assunto il titolo di «Collegio dei Ragionieri», rifacendosi esplicitamente alla struttura corporativa mantenuta in Lombardia dai «ragionati» fino al 1799 e caratteristica d’una fase di particolare fulgore della figura in questione, cui erano toccati, ad un tempo, compiti di misuratore catastale, di perito agrimensore, di «custode della fede e della rettitudine amministrativa delle aziende economiche»[9]. Successivamente a quella data, sciolta la struttura collegiale, la qualifica professionale era stata subordinata a partire dal 1805 ad una serie di norme e di verifiche, compreso un periodo di tirocinio ed un esame finale, con successivo giuramento davanti all’autorità: procedure che erano però venute meno a seguito delle disposizioni emanate dopo l’Unità, grazie alle quali la prerogativa di rilasciare il diploma era passata direttamente agli Istituti tecnici, senza altra formalità ai fini dell’esercizio professionale se non, appunto, la conclusione dei relativi corsi.

L’obiettivo di fondo dei promotori del restaurato Collegio era di reagire al declassamento progressivo di cui ci si sentiva vittime, dimostrando come al contrario la pratica della ragioneria (con le sue essenziali funzioni di riscontro o revisione amministrativo-contabile e di tutela e consulenza nelle gestioni patrimoniali private e pubbliche o attinenti ai corpi morali) dovesse considerarsi (secondo le parole di Giuseppe Sacchi, figura eminente e per un decennio presidente del sodalizio) «elemento e complemento indispensabile di qualsiasi estrinsecazione del civile consorzio»[10], equivalente come tale, per responsabilità e grado di importanza, alle professioni più accreditate di notaio, medico o avvocato. Proprio in analogia con l’avvocatura e il notariato, sarebbe stato preferibile secondo qualche rappresentante della categoria ristabilire semmai la pratica del tirocinio, subordinando il conseguimento del diploma all’esercizio della libera professione ad un successivo esame di stato[11]. Ma non mancavano i fautori di corsi di livello universitario con i quali completare ad uno stadio superiore la preparazione fornita dagli Istituti tecnici, creando le necessarie diversificazioni tra i due livelli.

Si trattava d’una questione che non interessava ovviamente i soli ragionieri milanesi. Ma era vanto di questi ultimi esser stati tra i primi e più attivi propugnatori anche in sede nazionale d’una iniziativa adeguata, a partire dal II Congresso della categoria svoltosi a Firenze nel 1881, durante il quale venne appunto per la prima volta presentata la proposta di istituire nelle università corsi superiori di amministrazione e di ragioneria cui ammettere senza esame i diplomati in ragioneria. Al successivo III Congresso, che si svolse a Milano nel settembre 1885, l’ipotesi assunse contorni più precisi e impegnativi. Forti di una relazione predisposta da Eugenio Banfi che trovò i necessari appoggi, i delegati milanesi riuscirono a far approvare, a maggioranza, un ordine del giorno che affermava «il principio fondamentale di confidare alle sole Università del regno il conferimento del diploma di Ragioniere»: e, questo, a conclusione della frequenza di uno specifico corso universitario, cui accedere dalle esistenti sezioni di commercio e di ragioneria degli Istituti tecnici, previo l’ottenimento presso queste ultime di una patente di «computista»[12]. Contro una simile ipotesi insorsero peraltro subito, com’era prevedibile, sentendosene declassati, i docenti di Ragioneria degli Istituti tecnici, compresi quelli milanesi[13]. Al successivo Congresso di Bologna del settembre 1888 il tentativo operato dalla maggioranza dei delegati milanesi, appoggiati da colleghi romani e genovesi, di confermare l’ordine del giorno favorevole all’insegnamento superiore obbligatorio non ebbe così esito. In sua vece venne infine votato a larga maggioranza un testo che, cercando di conciliare i due opposti punti di vista, non approdava nella sostanza ad alcuna soluzione. All’Istituto tecnico sarebbe dovuto rimanere il compito di conferire un grado di «licenziato in Ragioneria»; alle Scuole superiori e all’Università sarebbe invece toccato di attribuire quello di «laureato» nella medesima disciplina, «mercé un corso speciale coordinato colla facoltà di giurisprudenza o con quella di scienze politico-sociali». Al di là dell’espediente terminologico, restava irrisolto precisamente il punto di fondo, relativo alle concrete e distinte prerogative proprie dei due titoli[14].

Dell’esigenza di dotare la Milano commerciale, analogamente a quanto si era già fatto e si stava facendo per quella industriale, di strutture scolastiche e formative più adeguate, si era nel frattempo fatto interprete nel dicembre 1887 il Consiglio comunale cittadino, nel corso della discussione del bilancio preventivo per l’anno seguente. A sollevare il tema fu il consigliere Riccardo Folli (insegnante di latino al liceo Beccaria e buon conoscitore di sistemi scolastici stranieri)[15], il quale sostenne l’insufficienza allo scopo della apposita sezione dell’Istituto tecnico:

Se su 350 mila abitanti 109.848 sono addetti all’industria, altri 100 mila, se non più, sono tra noi addetti al commercio. Ora, perché non si potrebbe disporre che altri corsi, altre aule, altri insegnamenti opportuni si aggiungessero a quelli già prescritti nell’Istituto tecnico? Perché non si potrebbe, in tal modo, preparare le basi per corsi superiori pratici e teorici da aggiungere all’Istituto tecnico superiore, e in tal modo costituire una vera Scuola superiore di commercio simile a quella di Parigi, o meglio ancora ai Business Colleges e ai Commercial Colleges di Washington, di New York, ed altri Stati Uniti d’America?

Intervenne successivamente Giovanni Maglione, vice presidente del Collegio dei Ragionieri, eletto in Comune nel gennaio 1885 nella lista delle associazioni liberali e democratiche, attivo nella professione nonché titolare con Eugenio Rossi di una apprezzata scuola privata di commercio e di ragioneria derivata dall’Istituto Viglezzi, operante a Milano sin dal 1823 (e che in seguito alla morte dello stesso Maglione nel 1906 si fonderà con l’analogo istituto fondato da Carlo Cavalli e Emilio Conti). A Maglione, il quale caldeggiò la tesi dell’«impianto di una scuola superiore di commercio e ragioneria», replicò il direttore dell’Istituto tecnico Giuseppe Bardelli, consigliere comunale di parte moderata, il quale convenne bensì con lui in linea di principio, ma subito aggiungendo di credere «intempestivo il creare oggi una tale scuola, mentre quelle già istituite a Genova, Bari e Venezia non hanno finora dato i risultati che si attendevano». Almeno per il momento rispondeva insomma assai meglio ai bisogni l’esistente sezione del suo Istituto, semmai da rendere «vieppiù vantaggiosa» con l’aggiunta di un altro anno di corso complementare[16].

Sin da quella prima e ancora aurorale fase del dibattito si delineavano in realtà due ipotesi di massima: una favorevole alla costituzione di un istituto autonomo (nell’unica forma per il momento sperimentata in Italia delle Scuole superiori di commercio, cui aggiungere una sezione di ragioneria), l’altra nella prospettiva invece d’una aggregazione all’Istituto tecnico superiore, da trasformare in «un vero Politecnico di nome e di fatto», come chiedeva già da qualche anno (e tornava a ribadire nella circostanza) il consigliere liberal-progressista (e deputato di Sondrio, nonché vice-presidente della Banca Popolare di Milano) Napoleone Perelli, favorevole a che vi confluissero anche gli altri istituti scientifici superiori milanesi. Quanto ai mezzi, anche alla luce della cospicua donazione decisa da Carlo Erba l’anno prima per dotare l’Istituto tecnico superiore dell’Istituzione elettrotecnica intestata al suo nome, «lo spirito d’iniziativa, la laboriosità e l’interesse di Milano all’incremento intellettuale» rendevano fiduciosi che la questione sollevata non sarebbe caduta «per difetto d’appoggio». Di gettare acqua sul fuoco, ricordando l’entità degli impianti e degli impegni che avrebbe richiesto la realizzazione d’un progetto di tale entità, si preoccupò a quel punto proprio Giuseppe Colombo (egli pure all’epoca consigliere comunale), ma arrivando poi alla conclusione che valesse comunque la pena di «chiarirsi sulla via che si deve percorrere onde rendere possibile l’attuazione del grandioso concetto». Si pronunciò invece senza riserve a favore delle tesi di Perelli il suo compagno di partito Giuseppe Mussi, convinto che «un movimento in favore dell’istruzione superiore [andasse] accentuandosi» e che la città dovesse far di tutto per agevolarlo, rannodando e coordinando, per cominciare, le istituzioni già esistenti: «Non basta, egli dice, favorire l’istruzione primaria; gli studi superiori e gli studi applicati formano la fortuna e la grandezza delle grandi città, e Milano non deve venir meno ad una tradizione specialmente italiana». Quanto ai mezzi, dal momento che in materia il Consiglio comunale era tutto d’accordo, si sarebbe potuta creare una Commissione «la quale studiasse l’argomento e proponesse un progetto concreto».

Riprendendo la parola per replicare a Bardelli, Maglione precisò di saper bene come le Scuole superiori di commercio esistenti in Italia non fossero perfette, ma affermò anche di non credere nei vantaggi d’una aggregazione all’Istituto tecnico superiore, ribadendo la propria preferenza per una struttura autonoma. Dopo l’intervento dell’assessore all’Istruzione Ermes Visconti, che si dichiarò d’accordo «nel desiderare il coordinamento della scuola superiore di commercio e ragioneria col nostro Istituto tecnico», il sindaco Gaetano Negri ribadì l’impegno di principio di Milano per l’istruzione superiore, convenendo altresì con Mussi sull’opportunità di designare una commissione. Negri non nascose peraltro il proprio scetticismo, richiamandosi alle prudenti considerazioni di Colombo: «Quindi accontentiamoci, conclude, di avere quanto i nostri mezzi ci permettono, procuriamo di migliorare mano mano quanto abbiamo; non vagheggiamo imprese per le quali ci dovrà mancare la lena».

Decisamente più ottimista si dimostrò il successivo intervento dell’industriale Ernesto De Angeli, all’epoca presidente della Camera di Commercio, il quale dichiarò che entrambi i progetti, quello di creare un vero Istituto politecnico e di dar vita ad una Scuola superiore di commercio, erano vivamente sentiti in città. Per realizzarli non era d’altra parte necessario pensare ad un «Istituto gigantesco»: si poteva invece conferirgli «un’impronta adeguata ai mezzi e ricavarne pure grandi vantaggi». Quanto all’«iniziativa privata», il suo apporto non sarebbe di sicuro mancato, «se convenientemente suscitata»[17]. Un’idea avanzata da vari oratori fu che si potessero intanto devolvere al progetto le 22 mila lire che gli organizzatori della Esposizione per la macinazione e la panificazione, svoltasi con buon successo l’anno prima, ancora dovevano al municipio. A riprova di quanto tenesse al progetto, De Angeli preparò insieme con Giovani Battista Pirelli (altro nome eccellente dell’industrialismo milanese all’epoca presente a palazzo Marino) uno specifico ordine del giorno con cui dare mandato ad una commissione di otto consiglieri, presieduta dal sindaco, di formulare, «in concorso colle autorità e gli istituti cittadini che crederà del caso, un progetto per la creazione nella nostra città di un grande istituto politecnico e per gli studi superiori commerciali», provvedendo nel contempo, «previa approvazione del Consiglio», ad eccitare, «colla formazione d’un comitato di cittadini, il concorso dei privati alla costituzione del fondo necessario». I risultati avrebbero dovuto venir illustrati al Consiglio comunale entro il nuovo anno[18].

Per consentire una più larga convergenza, l’ordine del giorno De Angeli-Pirelli non venne messo subito ai voti e fu riassorbito il giorno successivo in un nuovo testo, letto da Mussi, e sottoscritto oltre che da De Angeli e Pirelli, anche da Colombo, Finzi, Perelli e Maglione, testo che venne infine votato con un solo astenuto. A differenza della precedente, tale mozione non puntava esclusivamente sui privati, ma prevedeva l’«efficace concorso del Governo», coll’«intervento e contributo del Consiglio Provinciale, coordinando e modificando, quando e come sarà del caso, le istituzioni scientifiche superiori milanesi già consorziate». Questo al fine di «istituire in Milano un Politecnico, nel quale troverà adatta sede anche una scuola superiore di commercio vivamente reclamata dallo sviluppo industriale della città». La «privata iniziativa» e le istituzioni locali avrebbero a loro volta potuto accordare il proprio patrocinio e il proprio sostegno all’erigenda istituzione. Secondo quanto già stabilito, una commissione di otto membri, presieduta dal sindaco, avrebbe dovuto studiare il relativo progetto «colle opportune proposte finanziarie», presentandolo al Consiglio comunale entro il 1888[19].

Si poteva avere l’impressione di un felice e promettente avvio. Il «Sole» dava per scontato che il progetto sarebbe stato fra quelli studiati con più attenzione dalla Camera di Commercio[20], mentre il «Commercio» dichiarava di sapere che «nelle alte sfere governative» c’era «molta buona disposizione» a favore dell’iniziativa[21]. In realtà era da vedere se non avesse piuttosto ragione qualche altro osservatore a dire che si erano «udite belle proposte, ma campate per aria ed assai dispendiose»[22]. Fra gli stessi presentatori dell’ordine del giorno appena approvato dal Consiglio comunale non c’era pieno accordo sulla linea da tenere. In una conferenza sull’argomento tenuta qualche giorno più tardi presso il Collegio dei Ragionieri, il già citato Maglione ribadì in particolare la propria sfiducia nella realizzabilità del «grande Politecnico», presentando come unica strada praticabile quella della attuazione anche a Milano di una Scuola superiore «di commercio e di ragioneria», dai costi a suo parere non proibitivi, contenibili entro le 50 mila lire (una cifra che al cronista del «Sole» appariva peraltro decisamente troppo bassa)[23].

Delle funzioni propriamente commerciali e finalizzate al commercio dell’istituenda Scuola gli esponenti del locale Collegio dei Ragionieri non mostravano in realtà di interessarsi affatto. L’essenziale per loro era addivenire quanto prima alla costituzione di una specifica sezione di Ragioneria in cui formare adeguatamente l’élite della propria professione, mettendo le relative reclute in condizione di esercitare le funzioni «delicatissime ed importantissime» che sarebbero loro toccate. A questa stregua, la stessa ipotesi di convivenza, pur accolta in linea di principio, con una sezione commerciale poteva apparire a qualche esponente più oltranzista del Collegio meritevole quantomeno di chiarimento: 

C’è troppa distanza tra il programma di una scuola che si prefigge di preparare dei commercianti istruiti e quella di un’altra che vuol dare alla società quella classe di professionisti che amministrano le sostanze dei possidenti, dei falliti, dei minorenni, dei defunti, riordinano aziende che già esistono, ne costituiscono di nuove, rivedono scritture, compongono arbitrati e compiono perizie giudiziarie. 

Semmai avrebbe dovuto essere la Ragioneria, «la scienza che studia l’ordinamento degli organismi aziendali», a fornire «la base, il nocciolo dell’insegnamento». In ogni caso era su un «programma spiegato di vera Ragioneria» che si sarebbero dovuti impostare i corsi[24].

Manifestava invece interesse per il ruolo propriamente commerciale dell’auspicata Scuola l’organo più direttamente rappresentativo dei locali ambienti industriali, l’«Industria», che aveva cominciato ad uscire nel gennaio 1887, retto da un Comitato direttivo composto dal già citato De Angeli (ch’era anche presidente del Consiglio d’amministrazione), da Pirelli, Borghi ed Amman. In un articolo dell’agosto 1888 il settimanale sostenne che il risveglio industriale in atto, pur «in mezzo a mille difficoltà», esigeva il parallelo dispiegarsi di «una corrispondente organizzazione commerciale, la quale, colla conoscenza esatta delle generali condizioni dei traffici internazionali e delle leggi che li governano, venga a render possibile l’espansione di quei commerci pei quali fosse già costituita la fibra industriale». In simile prospettiva non aveva senso discutere se fosse più urgente sviluppare l’insegnamento superiore ovvero coordinar meglio quello offerto a livello secondario. Entrambi erano necessari: tenuto conto della situazione effettiva appariva peraltro prioritario creare le condizioni perché «davvero si formino, per così dire, i capitani del nostro movimento commerciale». L’Italia avvertiva cioè «assai più la deficienza di elementi atti a dirigere convenientemente i commerci, che non di quelli capaci a riceverne l’indirizzo». Beninteso, neppure di questi ultimi si aveva «abbondanza», sicché anche gli Istituti tecnici avrebbero dovuto venir migliorati «in guisa da offrire in più larga e completa misura anche questo elemento alla nostra vita commerciale». Ma il fabbisogno più acuto ed urgente riguardava i «buoni condottieri» e la loro formazione:

Chi asserisce che in Italia manca ancora l’ambiente che possa dar vita vigorosa a un Istituto come quello che ora si tratta di fondare a Milano, può forse essere in parte nel vero se intende con ciò di constatare la condizione attuale delle cose; ma se per ciò crede poter negare l’opportunità del nuovo istituto, allora mostrerebbe di dimenticare come realmente si svolgono i fenomeni economici.

(…) Non basta seguire il movimento dei commerci, bisogna provocarlo, indirizzarlo, aiutarlo. E le condizioni si modificano, l’ambiente si viene formando; e quello che ieri era un desiderio, oggi tende a divenire un fatto[25].

Per quanto degna di nota e indicativa d’una linea di tendenza destinata a non esaurirsi, si trattava in ogni caso d’una presa di posizione che non andava per il momento oltre la semplice affermazione di principio. Più in generale la pubblicistica cittadina non si mostrava particolarmente attenta al tema. Era di per sé significativo che per tutto il 1888 non ne facesse assolutamente cenno il «Commercio», il quotidiano fondato e diretto da Giuseppe Sormani che pure si vantava d’essere «il più battagliero e diffuso giornale esclusivamente commerciale che si pubblichi in Italia». Nel programma della nuova Federazione degli esercenti, costituitasi in quel medesimo periodo, figuravano bensì obiettivi di «vantaggio generale e singolo», quali l’impianto d’uno specifico istituto di credito o d’un ufficio di consulenza legale, ma niente che avesse a che vedere con una struttura per l’insegnamento commerciale ai livelli superiori[26]. Dalla Camera di Commercio, entrata in una fase di crescente conflittualità interna e dove De Angeli, imputato di eccessi protezionistici, aveva dovuto lasciare la presidenza, non vennero indicazioni di sorta. Quanto alla Commissione istituita dal Consiglio comunale per studiare il progetto di Politecnico, essa si riunì una sola volta, senza dar luogo a ulteriori sviluppi, proprio come i più scettici avevano previsto. Il «Commercio» tornò ad occuparsi di insegnamento commerciale superiore nel marzo-aprile 1889, ma solo per sottolineare l’inadeguata normativa vigente e il cattivo trattamento riservato ai docenti delle scuole esistenti, in teoria equiparati agli universitari, ma in realtà pagati meno, senza propine d’esami e ribassi ferroviari, senza diritto a pensione. L’altro punto sul quale si richiamava l’attenzione era che il diploma che si conseguiva alle Scuole superiori di commercio era senza efficacia ai fini dell’insegnamento secondario. Di richiami più specifici a quanto s’era espresso l’intenzione di realizzare a Milano neppur l’ombra[27]. Né intervennero novità sotto questo profilo dopo le elezioni amministrative del novembre 1889 e il ritorno quale sindaco (provato dagli anni e ormai con mere funzioni di mediatore tra maggioranza moderata e minoranza radicale) di Giulio Belinzaghi, che aveva già ricoperto a lungo quella carica dal 1867 al 1884.

Toccò così ancora al Collegio dei Ragionieri (alla cui presidenza era stato nel frattempo chiamato il già ricordato Maglione, alla testa anche della Associazione generale fra gli impiegati civili)[28] riprendere l’iniziativa e ribadire la necessità di provvedere: e ovviamente nell’ottica cara a tale categoria professionale, come parte cioè d’una più ampia strategia tendente ad allargare e ad ulteriormente qualificare la sfera delle proprie attività e competenze, col corrispondente riscontro di un titolo di studio più adeguato e meglio rispondente alle funzioni ed alle responsabilità di chi avrebbe dovuto servirsene. Il Consiglio direttivo del sodalizio tornò ad esprimersi in materia alla fine del 1890[29], predisponendo nelle settimane successive una specifica relazione, a firma del presidente Maglione, del vicepresidente Eugenio Banfi (particolarmente attivo in quegli anni nel propugnare la causa della riqualificazione della preparazione scolastica dei ragionieri) e di Arturo Stabilini. La richiesta di affiancare al corso commerciale un corso di ragioneria cui destinare i licenziati dagli Istituti tecnici restava naturalmente centrale. Essa si inseriva però questa volta in una più organica affermazione del bisogno di «solida cultura scientifica» da parte dell’intero «mondo degli affari». Gli argomenti erano quelli di norma evocati dai fautori delle Scuole superiori di commercio:

La facilità delle comunicazioni portando lo sviluppo degli affari su mercati che ai nostri padri erano sconosciuti, il contatto frequente di popoli dei quali è necessario conoscere la lingua, i costumi, la legislazione, lo stesso procedere della produzione la quale va creando aziende vaste e complicate, entro cui la divisione del lavoro rendendo più facili e meccaniche le attribuzione di una parte del personale, esige però nell’altra un’abilità pari all’accresciuta responsabilità, tutto ciò concorre a richiedere pel nostro commercio un ordine di studii di cui nella sezione di Ragioneria degli istituti tecnici troviamo soltanto la traccia.

Era un altro punto fermo. Gli Istituti tecnici erano in grado di fornire alle industrie «dei semplici contabili», che delle lingue estere conoscevano solo il francese e che del diritto sapevano solo quel poco che si poteva apprendere «in un anno con tre ore di insegnamento alla settimana». Non solo:

Escono i licenziati dall’istituto troppo giovani, o per meglio dire adolescenti, in un’età in cui le dottrine giuridiche e amministrative fanno presa nel cervello più nella parte, diremo così, armonica di esercizio di memoria, che per quella sostanziale della loro vera utilità.

Il rimedio, anche per Milano, non poteva essere che quello già sperimentato con successo nei paesi come la Francia, il Belgio e la Germania, dove le Scuole superiori di commercio erano attive da anni. Con l’ulteriore specificità, rispetto alle tre Scuole già operanti in Italia, di preparare altresì i giovani alla professione di ragioniere:

Nello stesso modo che la scuola di commercio, in un centro d’affari come la città nostra troverebbe presto fautori e alunni, egli è certo che molti ne troverebbe pure la sezione di Ragioneria in un ambiente che dei Ragionieri è ritenuto la terra classica, e che non potrà a meno di assicurare alla scuola un più largo concorso senza essere di molto aggravio alle finanze, stante la comunanza fra le due sezioni di non pochi rami d’insegnamento.

Del nuovo istituto non si prevedeva nella circostanza solo il nome (Scuola superiore di Commercio e di Ragioneria), ma anche il programma e l’ordinamento delle discipline, peraltro ricalcato, per la sezione commerciale, su quello applicato da ultimo e più recentemente a Genova, con la tripartizione in tre classi di materie: tecnologia commerciale, scienze economiche e giuridiche, cultura letteraria e filologica:

La prima classe contiene le matematiche applicate al commercio, la ragioneria e il banco modello. Naturalmente la ragioneria intesa come studio dell’ordinamento delle aziende comprenderà non solo la contabilità propriamente detta, ma l’esame di tutto il meccanismo di esecuzione e di controllo per cui si esplica la vita delle grandi aziende industriali commerciali e bancarie.

Il banco modello sarà della ragioneria una pratica applicazione, riproducendo nella scuola tutti i documenti delle principali operazioni del commercio e simulando fra gli studenti stessi delle aziende fra loro in relazioni d’affari.

La merceologia inizierà gli allievi alla conoscenza dei prodotti che sono oggetto delle principali industrie e delle transazioni della nostra regione.

Il gruppo delle scienze economiche e giuridiche comprenderà l’economia industriale e commerciale, la statistica, la scienza delle finanze, il diritto commerciale, la legislazione doganale, i trattati di commercio, e infine la geografia commerciale studiata principalmente sotto l’aspetto del costo delle vie di comunicazione e di mezzi di trasporto in ragione di tempo e di spesa. Infine la coltura letteraria e filologica dedicherà ancora poche ore allo studio della lingua italiana, alcune a quella del francese, e molte a quelle del tedesco e dell’inglese, per le quali il nostro commercio è obbligato a servirsi di corrispondenti stranieri.

Quanto alla sezione che si voleva aggregare di ragioneria, essa avrebbe dovuto avere in comune con l’altra vari insegnamenti, specie delle due prime classi, facendo invece a meno del tedesco, dell’inglese e della geografia commerciale. In più essa avrebbe dovuto invece dotarsi della «ragioneria nelle aziende pubbliche, della legge e della procedura nei fallimenti, liquidazioni, concordati stragiudiziali, perizie, ecc., ecc.». I criteri di ammissione avrebbero dovuto restare quelli già in vigore: di diritto per i licenziati della sezione commerciale e di ragioneria degli Istituti tecnici, previo esame per chi proveniva dai licei o da scuole di pari grado. Una possibilità quest’ultima che non andava però prevista per l’accesso alla sezione di ragioneria, da consentire esclusivamente ai licenziati dalla sezione dell’Istituto tecnico: a Milano comunque tanto numerosi (si sosteneva) da «promettere alla sezione superiore un largo concorso di aspiranti».

Per quel che riguardava i costi, ci si rifaceva prevalentemente a quelli della Scuola di Genova, con la quale si riscontravano le maggiori analogie, e che godeva di una rendita di 86 mila lire, 26 mila delle quali fornite dalla Stato, le rimanenti, in parti uguali, dalla Provincia, dal Comune e dalla Camera di Commercio. Per Milano si poteva ritenere che sarebbero occorse dalle 60 alle 80 mila lire: una cifra «al certo ragguardevole», ma non irraggiungibile «quando si pensi allo scopo altamente utile cui è destinata, e all’esempio di altre città cui Milano non è seconda, e che quello scopo hanno già da un pezzo raggiunto»[30].

Per dar corso al progetto, il Consiglio direttivo del Collegio dei Ragionieri nominò una speciale Commissione, presieduta da Maglione e composta, fra gli altri, oltre che da vari consoci, da De Angeli (attivo dunque anche in questa fase), da Luigi Bocconi (il fratello, minore di tre anni, di Ferdinando, e suo principale collaboratore nell’azienda, all’epoca consigliere della Camera di Commercio e consigliere comunale, eletto nella lista democratica), dal provveditore agli studi Anselmo Ronchetti, dal preside dell’Istituto tecnico Bardelli, da alcuni insegnanti dello stesso Istituto (quelli di Ragioneria, Clitofonte Bellini e Vincenzo Carrera, e quello di Storia, Gaetano Sangiorgio), da Alberto Weill-Schott (titolare con i fratelli, giunti anni prima dal natio Baden, di una affermata casa bancaria), dal direttore della sede di Milano della Banca Generale Enrico Rava e da quello della Banca Nazionale Pio Cozzi.

I_09_1900_cd114_10_08_34_web

Il risultato più rilevante, reso noto nel luglio 1891, fu l’impegno del citato Weill-Schott, «soddisfatto degli studi avviati», di mettere a disposizione 60 mila lire per la realizzazione del progetto[31]. L’auspicio era naturalmente che quest’ultimo, su quell’abbrivo, venisse «favorito da altre generose ed autorevoli iniziative»[32]. A Milano – si premurava di scrivere alla liberal-progressista «Lombardia» un altro dei componenti la Commissione, Ernesto Nosotti – non mancavano di certo le «persone pronte ad ogni occasione ad incoraggiare opere egregie», le quali avrebbero dovuto non «dimenticare lo scopo scientifico e ad un tempo pratico e utile» dell’istituzione cui si voleva dar avvio. Comune e Camera di Commercio, che in altre occasioni avevano «accademicamente studiato l’argomento», non dovevano a loro volta rifiutare il proprio appoggio. Quanto ai deputati cittadini, a loro spettava «in special modo l’obbligo morale di dare una spinta per la buona riuscita», mentre era lecito attendersi che non si tirassero indietro i principali istituti di credito e di beneficenza, e la Cassa di Risparmio (e il suo presidente Ambrogio Annoni, chiamato personalmente in causa) in primo luogo. Molte difficoltà erano state superate (riferiva sempre Nosotti); erano «svanite le antipatie piuttosto personali fra uomini valenti e autorevoli», e anche le difficoltà relative alla sede in linea di principio potevano dirsi risolte, essendosi ventilata l’ipotesi di ricorrere a quella della Scuola superiore d’Agricoltura, anche indipendentemente da una eventuale fusione dei due istituti, fusione peraltro non esclusa in quella fase della discussione preliminare. L’essenziale era che la città rispondesse adeguatamente: «Rammentiamoci (…) che nelle condizioni attuali del Bilancio dello Stato sarebbe opera vana l’invocare un sussidio dal Governo, e d’altra parte è bene che Milano dia un’altra prova della sua potenzialità economica e della sua forza morale, facendo anche questa volta da sé»[33].

Non si poteva tuttavia considerare un indizio particolarmente incoraggiante l’accoglienza che, al di là degli elogi d’obbligo, la stampa cittadina in genere riservava alla notizia della elargizione Weill-Schott. Il «Corriere della sera» e la «Perseveranza» la confinavano in poche righe di cronaca[34]. Il «Secolo» le dava un po’ più di spazio, facendo voti «che il progetto trovi altre autorevoli e generose iniziative che a Milano non mancano e che sempre rispondono all’appello, specialmente quando si tratta di causa così degna»[35]. Ma era tutto. Il «Sole», organo ufficiale della Camera di Commercio, addirittura l’ignorò, almeno in quella fase.

Si andò avanti ugualmente, nel tentativo di raccogliere appoggi e sostegni finanziari e di risolvere i nodi ancora sul tappeto. In settembre la presidenza del Collegio dei Ragionieri venne ricevuta da quella della Camera di Commercio, la quale dichiarò di «ritenere per fermo che a tempo opportuno il Consiglio comunale avrebbe vivamente aiutato» l’iniziativa «perché l’istituzione di una scuola superiore di commercio in Milano risponda alle esigenze del primo centro industriale del paese»[36]. Ma si restava ancora allo stadio dei riconoscimenti platonici e invano, dando notizia ai primi di febbraio dell’anno dopo, di una prossima nuova riunione fra De Angeli, Weill-Schott, Maglione, Nosotti, il provveditore agli studi e i professori Bellini e Sangiorgio, diretta a stendere «il primo Progetto positivo della tanto desiderata Scuola superiore pratica di Commercio qui in Milano», il «Sole» si augurava che si approdasse finalmente «a un risultato concreto»[37]. La raccolta dei fondi non procedeva, mentre appariva per contro sempre più chiaro che per far fronte alle esigenze complessive d’una nuova istituzione delle dimensioni di quella vagheggiata sarebbe occorso almeno un milione di capitale. Il rischio più immediato, non riuscendo a far nulla, era dunque che si perdessero anche le uniche 60 mila lire per allora promesse e vincolate come tali ad uno scopo. Vista la situazione, nel marzo 1893 il già citato Nosotti suggerì di chiedere a Weill-Schott di destinare ugualmente la somma al Collegio dei Ragionieri, in modo da istituirlo in corpo morale, col parallelo impegno ad avviare nel suo ambito, con gli interessi della donazione, due corsi complementari di Ragioneria e di Diritto. L’impegno dimostrato avrebbe conferito sufficiente autorità per ottenere un sussidio dal ministero «o quanto meno dalla Autorità e dagli Istituti locali (…), senza contare che nel frattempo non sarebbe esclusa la probabilità di altre donazioni». Ove la suddetta ipotesi si fosse dimostrata impraticabile, si sarebbe potuto cercar d’«ottenere che nell’annunciato riordinamento del nostro Politecnico, inteso a dargli carattere più lato a guisa del Politecnico di Zurigo, gli fossero aggiunti due o tre Corsi di Ragioneria e Commercio, concorrendo il Collegio con una somma annua»[38]. Lo stacco rispetto all’ipotesi di massima era ovviamente evidente: ma non sembrava, per il momento, che si potesse sperare in molto di più.

Quanto alla elargizione di Weill-Schott, ci si accordò in effetti con quest’ultimo per l’utilizzazione frattanto dei relativi interessi, con cui finanziare un concorso ad «un assegno graduale per un triennio: di L. 1.800 per il primo anno; di L. 2.000 per il secondo; di L. 3.000 per il terzo; da conferirsi ad un giovane, il quale, avendo conseguito il diploma di ragioniere nel R. Istituto tecnico di Milano, intenda perfezionarsi negli studi per il primo anno nella Scuola superiore di Genova, per il secondo anno in un Istituto superiore di Parigi, e per il terzo in quell’Istituto commerciale dell’Inghilterra o della Germania, che gli sarà, a suo tempo indicato». Oltre ad aver conseguito il diploma di ragioniere con votazioni di almeno otto decimi in tutte le materie, i concorrenti avrebbero dovuto superare un severo esame. Tra tutti gli aspiranti sarebbe stato scelto l’unico vincitore, tenuto, per la riconferma, a presentare gli attestati degli studi fatti, unitamente ad una memoria su un argomento «d’importanza economica», scritto «nella lingua del paese dov’egli in quell’anno avrà frequentato i corsi»[39].

Al di là dei vantaggi che poté ricavarne il «distinto giovane» prescelto, si trattava evidentemente d’una iniziativa di modesto risalto. Del progetto maggiore di Scuola superiore si continuava periodicamente a parlare: ma, sempre più, come d’un «pio desiderio»[40], subordinato a difficoltà finanziarie al momento insormontabili[41]. Un’apposita nuova Commissione incaricata di occuparsene venne nominata nel giugno 1893. Oltre a Maglione, Banfi, Gambusera, Nosotti, Bosetti e Cazzaniga in rappresentanza del Collegio, vennero chiamati a farne parte anche Weill-Schott, De Angeli e il provveditore agli studi Ronchetti[42]: ma non risultano tracce d’una sua particolare attività.

Concluso, o in via di conclusione il triennio di utilizzo con le modalità appena descritte della rendita Weill-Schott, si poneva d’altra parte il problema di cosa farne per il seguito. L’argomento tornò così in discussione nel maggio 1895, nel corso d’una seduta della Commissione per la parte scientifica, studii e incremento biblioteca del Collegio dei Ragionieri. Il vice-presidente Enrico Gambusera si dichiarò decisamente contrario alle borse di studio o di miglioramento, «le quali non dànno utili risultati», ma espresse anche sfiducia circa la possibilità di riuscire a dare effettivamente vita ad un istituto superiore di ragioneria. L’ipotesi alternativa da lui affacciata era dunque di accontentarsi di utilizzare il fondo Weill-Schott per finanziare l’organizzazione di un anno di perfezionamento in aggiunta ai corsi esistenti presso l’Istituto tecnico. La maggioranza dei convenuti fu d’accordo, salvo a proporre l’estensione del corso ad un biennio[43].

Neppure in questo caso si giunse peraltro in porto. La rendita a disposizione era in realtà troppo modesta rispetto alle esigenze e non offriva molte possibilità. Di ulteriori sovvenzioni non si vedeva per il momento ombra. La sensazione di vari esponenti della categoria era che quella della facoltà o della scuola di ragioneria aggregata all’università fosse in realtà una richiesta troppo onerosa rispetto alle risorse finanziarie a disposizione e che convenisse semmai puntare su «qualche cosa di meno», ma di «più ottenibile», come sarebbe stato la semplice aggiunta di un biennio di specializzazione in alcuni Istituti tecnici[44]. Su questa linea si muoveva in particolare il direttore dell’Istituto tecnico Bardelli, da un lato sottolineando, una volta ancora, anche di fronte alle autorità ministeriali, come di tutte le analoghe sezioni di Commercio e Ragioneria annesse agli Istituti tecnici governativi quella milanese fosse sempre stata «la più frequentata e la più vigorosa», dall’altro ricordando come un quinto anno complementare, finalizzato all’ottenimento del diploma di ragioniere, fosse già stato per breve tempo istituito nel 1871-74: lo si sarebbe potuto dunque ripristinare anche come «buon inizio» per l’eventuale, futura istituzione di una Scuola superiore, sulla cui struttura di fondo Bardelli manteneva peraltro le sue riserve[45]. Al VI Congresso dei ragionieri, svoltosi a Roma nel settembre 1895 veniva d’altra parte votato in materia un nuovo ordine del giorno con cui si chiedeva che nel disegno di legge sull’autonomia universitaria presentato dal ministro Baccelli fosse inserita una norma con cui comprendere la ragioneria tra le professioni per le quali richiedere l’esame di stato. Nel medesimo tempo si auspicava l’istituzione di cattedre di Ragioneria nelle facoltà giuridiche, distinguendo tra laurea o licenza in studi giuridici e in studi amministrativi, consentendo ai licenziati della sezione di ragioneria degli Istituti tecnici di poter proseguire gli studi universitari pervenendo a quest’ultimo traguardo[46]. Considerato che a Milano una facoltà di giurisprudenza mancava, l’applicazione del suddetto voto alla situazione ambrosiana avrebbe evidentemente significato accantonare ogni ipotesi di specifica istituzione di livello superiore. Non mancavano del resto neanche a Milano gli esponenti della professione convinti che «non all’Università, non alla conquista di un titolo dottorale inutile, ma all’esercizio pratico della professione» si dovessero mandare i giovani che avevano felicemente terminato l’istituto tecnico: «dopo due o tre anni di pratica… un altro esame; poi, il diploma e il titolo»[47].

Una nuova proposta, con riguardo alla dotazione Weill-Schott, ulteriormente riduttiva, ma più proporzionata alle risorse effettive, venne formulata nel novembre 1895. Anche l’idea, avanzata a quel punto, di attivare una cattedra di Matematica applicata alla Ragioneria[48] (in seguito ulteriormente precisata col consenso dell’elargitore come da dirigersi specialmente ai computi sulle assicurazioni), pose peraltro svariati problemi. Sorsero dissensi in particolare circa l’istituto superiore al quale appoggiarsi: l’Accademia scientifico-letteraria secondo alcuni, l’Istituto tecnico superiore secondo altri. Anche questa volta i tempi si allungarono. Il preside di Lettere Inama fece presente di non disporre degli spazi per ospitare la nuova cattedra, non senza osservare che in una facoltà d’indole eminentemente letteraria come la sua essa si sarebbe trovata «forse anche a disagio»[49]. Restava l’Istituto di Brioschi, in condizioni peraltro non migliori dal punto di vista degli spazi e nei confronti del quale, come possibile sede del nuovo insegnamento, non mancavano, tra gli esponenti del Collegio dei Ragionieri, le prevenzioni o le considerazioni negative. Neanche l’idea infine concepita di avviare la nuova scuola presso il Collegio, senza nessun avallo esterno, risultava tuttavia pienamente convincente e si preferì accantonarla in attesa di ulteriori passi presso la direzione del Politecnico. All’assemblea del 30 gennaio 1897 il presidente Maglione poteva così accennare al progetto, ma riferendo nel contempo degli ostacoli che, una volta ancora, ne rimandavano l’attuazione[50].

Neanche sul versante degli interessi più propriamente commerciali l’idea di una nuova scuola superiore da istituirsi a Milano aveva nel frattempo fatto molta strada. L’esigenza di iniziative a favore del commercio d’esportazione da collegare alla formazione di operatori all’altezza delle esigenze e in grado di agire sulle piazze estere con capacità pari a quelle dei concorrenti era magari avvertita, ma dava luogo per il momento a operazioni dalla portata ben più circoscritta o particolare. Nel gennaio 1891 con un articolo sulla crispina «Riforma», Manfredi Camperio, viaggiatore ed esploratore appassionato, fautore e promotore in passato di varie iniziative per il commercio d’oltremare, fra le quali la Società d’esplorazioni commerciali in Africa fondata a Milano nel 1879[51], aveva ad esempio suggerito la costituzione di una apposita «società di borse» a vantaggio degli allievi delle scuole commerciali «che hanno ottenuti i migliori punti e possiedono l’attitudine fisica a sopportare climi non sempre dei più salubri». Grazie alle sovvenzioni così assicurate, essi avrebbero dovuto venir inviati a far pratica per due anni all’estero[52]. Da Milano si rispose in linea di massima positivamente, ma riservandosi di partecipare attivamente solo qualora l’istituenda società avesse corrisposto ad alcune condizioni, e cioè che servisse a promuovere vere case di rappresentanza per lo spaccio di prodotti nazionali ovvero per l’acquisto di materie prime di consumo nazionale, si avvalesse non solo di giovani scelti tra i licenziati delle scuole commerciali, ma anche «fra coloro che già militano nel campo degli affari», che i prescelti fossero comunque sottoposti prima della partenza ad un tirocinio pratico preparatorio e ad una successiva verifica. Una volta raggiunta la sede di destinazione, oltre al sussidio previsto essi avrebbero dovuto inoltre fruire di commissioni sugli affari eventualmente combinati[53]. L’aspetto formativo passava insomma decisamente in secondo piano rispetto a quello più direttamente e concretamente promozionale e commerciale in senso proprio. L’istituenda società avrebbe inoltre dovuto essere retta da un consiglio direttivo con sede «nella città capoluogo di quella provincia che al momento della costituzione della Società conterà il maggior numero di soci»: un altro modo da parte degli industriali milanesi (De Angeli e Pirelli al solito in testa) per far presente la disponibilità a parteciparvi, ma solo a condizione di avere poi un proporzionato controllo dell’iniziativa.

Anziché in forma di società privata, questa si sarebbe peraltro concretata ad opera del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, ricorrendo per i finanziamenti ai sussidi più o meno spontanei delle Camere di Commercio (quella di Milano concorse con 5 mila lire, chiedendo invano che venissero parallelamente istituite anche borse di perfezionamento industriale). L’esito non fu in ogni caso dei più brillanti. Dei tre assegni di tirocinio pratico in Italia e delle tre borse di pratica commerciale all’estero messe in palio nel 1895, poterono essere attribuiti solamente i primi (con quattro aspiranti in tutto). L’unico concorrente ad una borsa all’estero venne giudicato non all’altezza e fu dirottato su uno degli assegni da consumare in patria. Visti i risultati si decise l’anno dopo di portare da 26 a 30 anni il limite d’età e si tolse la clausola di avere ottenuto il diploma commerciale da non più di due anni. Ma neanche così la rispondenza crebbe in maniera significativa. Nel 1898 vennero presentate cinque domande per cinque posti. «Non avvi, dunque, fra la nostra gioventù studiosa che una scarsissima parte di essa che si dedichi alle discipline commerciali e che spinga il proprio sguardo un po’ lontano e mostri ardimento)»: commentava alquanto sconsolato il «Sole»[54]. L’esigenza di una «scelta e pratica» educazione commerciale della gioventù italiana, in certo senso, si riproponeva, e in termini anche più pressanti e urgenti. «Un paese come il nostro, che offre una cifra così imponente d’individui all’emigrazione; che ovunque ha interessi di connazionali da tutelare, abbisogna sopra tutto di giovani arditi e commercialmente istruiti, che si dirigano a meglio difendere, a rendere più operosa questa emigrazione nello stesso maggiore interesse della madre-patria»[55]: ma si era ancora fermi agli enunciati, senza che fosse chiaro come tradurli in realtà effettuale.


1

Per un complessivo inquadramento cfr. più avanti nel presente volume il contributo di M. Cattini, nonché M.M. Augello e M.E.L. Guidi, I «Politecnici del Commercio» e la formazione della classe dirigente economica nell’Italia post-unitaria, in Le cattedre di Economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina «sospetta» (1750-1900), a cura di M.M. Augello, M. Bianchini, G. Gioli, P. Roggi, Introduz. di P. Barucci, Milano, 1988, pp. 335-380.

2

Cfr. CG. Lacaita, L’intelligenza produttiva. Imprenditori, tecnici e operai nella Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano (1838-1988), Milano, 1990, p. 39.

3

Cfr. Gli Istituti scientifici, letterari ed artistici di Milano. Memorie pubblicate per cura della Società storica lombarda in occasione del secondo Congresso storico italiano, Milano 1880, pp. 322, 398-399, 417. Il dato relativo agli iscritti alla Scuola superiore di Veterinaria è tratto da [C. Zambelli], Studi statistici sul movimento economico-sociale della città di Milano raccolti nel Municipio, in «Mediolanum», Milano 1881, vol. IV, p. 257.

4

G. Colombo, Milano industriale, in «Mediolanum», cit., vol. III, pp. 37 e 62.

5

[C. Zambelli], Studi statistici, cit., voI. IV, p. 51. Sulla fisionomia del commercio milanese dopo l’Unità cfr. B. Caizzi, Milano e l’Italia. La vocazione economica di una città, Milano 1976, pp. 85 e segg.

6

Cfr. «Il Commercio», 22 ottobre 1889, L’inaugurazione del palazzo Bocconi.

7

Cfr. Cento anni di vita di una scuola milanese. L’Istituto tecnico «Carlo Cattaneo» 1852-1952, a cura del Preside [A. de Francesco], Milano 1952, pp. 265-266.

8

Cfr. per quest’ultimo giudizio «Il Pungolo», 16 novembre 1863, L’Istituto tecnico di Milano. II.

9

Secondo l’espressione di Giuseppe Cerboni nella Commemorazione di Giuseppe Sacchi: cfr. «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», marzo-maggio 1891, p. 35.

10

«Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», 1889, n. 1, Assemblea generale ordinaria 31 gennaio 1889, p. 7. Sulle vicende del Collegio cfr. M. Cantoni, Storia del Collegio dei Ragionieri di Milano, Milano 1902.

11

Resterà questa la tesi ad es. di E. Luchini, Breve storia della ragioneria italiana, Milano 1898, pp. 112-113.

12

Cfr. Il Terzo Congresso dei Ragionieri italiani tenuto a Milano dal 20 al 27 settembre 1885 con brevi no- tizie storiche sui precedenti congressi (Estratto dall’«Amministrazione italiana», nn. 38 e 42 del 1885), Roma 1885, pp. 10 e 27. Il resoconto stenografico del Congresso in Atti del Terzo Congresso nazionale dei Ragionieri italiani tenuto in Milano nel settembre 1885, Milano 1890. Sulla accanita discussione svoltasi per vari giorni in Commissione cfr. ivi, pp. 78 e segg.

13

Cfr. del resto l’intervento al già citato Congresso di Milano del 1885 di Clitofonte Bellini, contrario a togliere la prerogativa di conferire il diploma alle «scuole mezzane», beninteso da riformare e da non lasciare nello stato in cui si trovavano. Sulla medesima linea si esprimeva, nella stessa circostanza, Giovanni Massa, autore tra l’altro di un apprezzato manuale scolastico: cfr. Atti del Terzo Congresso, cit., pp. 131-133 e 139-140.

14

Cfr. Atti del Quarto Congresso dei Ragionieri italiani tenuto in Bologna nell’ottobre 1888, Bologna 1890, pp. 151-152. Per il mantenimento delle posizioni espresse a Milano si pronunciava in particolare Giovanni Maglione (cfr. pp. 127-128). Tra i fautori della tesi di compromesso, uscita poi vincente, era invece il già citato Giovanni Massa (cfr. pp. 138-140).

15

Qualche anno prima aveva pubblicato un testo comparativo relativo alle scuole classiche: R. Folli, Le scuole secondarie classiche straniere e italiane. Confronti, note e proposte, Milano 1882.

16

Seduta del 28 dicembre 1887, in Atti del Municipio di Milano. Annata 1887-1888, Milano 1888, pp. 150-151.

17

Seduta del 29 dicembre 1887, Ibidem, pp. 153-159.

18

Il testo dell’ordine del giorno è riportato integralmente da «Il Commercio», 30 dicembre 1887, Un politecnico ed una scuola superiore di commercio a Milano.

19

Seduta del 30 dicembre 1887, Atti del Municipio di Milano, cit., p. 166.

20

«Il Sole», 30-31 gennaio 1888, La nostra Camera di Commercio.

21

«Il Commercio», 31 dicembre 1887, Un politecnico ed una scuola superiore di commercio.

22

«L’Italia», 30-31 dicembre 1887, Il grande Istituto Politecnico di Milano.

23

«Il Sole», 6 gennaio 1888, La Scuola Superiore di Commercio. Conferenza del prof. Maglione.

24

A. Stabilini, L’insegnamento superiore della Ragioneria, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», maggio-giugno 1890, pp. 87-88.

25

Scuole superiori commerciali, «L’Industria», 5 agosto 1888, pp. 511-512. Sui caratteri e sulle posizioni del periodico cfr. G. Longoni, Una fonte per lo studio della borghesia imprenditoriale milanese: «L’Industria - Rivista tecnica ed economica illustrata» (1887-1918), «Archivio storico lombardo» CXI (1985), pp. 243-306; P. Barucci e P. Roggi, I cent’anni de «L’Industria». La politica economica per l’affermazione della cultura industriale in Italia, in «L’Industria», n.s. VII (1986), pp. 355-379; V. Zamagni, Il ruolo de «L’Industria» nella vita economica italiana: 1887-1942, ivi, pp. 381-402; P. Bini, «L’Industria» 1887-1914. La politica economica del decollo industriale, ivi, pp. 403-434.

26

Cfr. «Il Commercio», 24 aprile 1888, Una nuova federazione degli esercenti.

27

Cfr. «Il Commercio», 17-18 marzo 1889, Si provveda un po’ meglio all’insegnamento commerciale superiore; 23 aprile 1889, Pel riordinamento delle Scuole superiori di commercio.

28

Su tale sodalizio cfr. ora M. Soresina, Mezzemaniche e signorine. Gli impiegati privati a Milano (1880-1939), Milano 1992, pp. 52 e segg.

29

Per una Scuola superiore di Ragioneria e Commercio in Milano, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», ottobre-dicembre 1890, pp. 181-182.

30

Relazione sul progetto d’impianto di una Scuola superiore di Commercio e Ragioneria in Milano, ibidem, gennaio-febbraio 1891, pp. 13-15.

31

Assemblea generale straordinaria 24 luglio 1891, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», giugno-agosto 1891, pp. 73-74.

32

«Il Commercio», 19-20 luglio 1891, Per una scuola superiore di commercio e ragioneria in Milano.

33

«La Lombardia», 23 luglio 1891, Per una Scuola superiore di Commercio.

34

Cfr. la “Cronaca milanese” del «Corriere della sera» del 19-20 luglio 1891 e le “Notizie cittadine” della «Perseveranza» del 20 luglio 1891.

35

«Il Secolo», 19-20 luglio 1891, Per una scuola superiore di commercio e ragioneria in Milano.

36

Cronaca delle Camere di commercio. Camera di commercio di Milano, «L’Industria», 15 novembre 1891.

37

Cfr. «Il Sole», 8-9 febbraio 1892.

38

E. Nosotti, Per una Scuola superiore di Commercio e Ragioneria in Milano, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», ottobre 1892-marzo 1893, p. 116.

39

Cfr. il testo del relativo avviso, in data 15 settembre 1893, in «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», aprile-ottobre 1893, p. 173 e cfr. anche M. Cantoni, Storia del Collegio dei Ragionieri, cit., p. 63 .

40

Cfr. il Verbale della seduta del Consiglio direttivo del 24 ottobre 1892, in «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», ottobre 1892-marzo 1893, p. 101.

41

Cfr. in tal senso quanto riferito alla Assemblea generale del 12 febbraio 1894, Atti e Notizie del Collegio di Milano, «Il Ragioniere», 28 febbraio 1894, pp. 82-83.

42

Atti e notizie del Collegio, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri 10 Milano», aprile-ottobre 1893, p. 174.

43

Atti e notizie del Collegio, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri 10 Milano», maggio-agosto 1895, pp. 5-6.

44

Cfr., in questo senso, a.n., La Scuola di Commercio e Ragioneria, «Il Risveglio della Ragioneria», 15 dicembre 1894, p. 5.

45

Sull’Istituto tecnico Carlo Cattaneo in Milano e sulle modificazioni da recarsi al suo ordinamento. Relazione del Preside alla Giunta di vigilanza dell’Istituto, Milano 1895, pp. 19 e 24-25.

46

Il VI Congresso, «Il Risveglio della Ragioneria», 31 ottobre 1895, p. 19.

47

e.p. [E. Pressi], Dopo il VI Congresso, ibidem, p. 7.

48

Atti e notizie del Collegio, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», ottobre-dicembre 1895, p. 2.

49

Atti e notizie del Collegio, «Bollettino del Collegio dei Ragionieri in Milano», marzo 1897, p. 14.

50

Ibidem, p. 2.

51

Su di essa cfr. A. Milanini Kemény, La Società d’Esplorazione Commerciale in Africa e la politica coloniale (1879-1914), Firenze 1973. Per un rapido profilo biografico di Camperio cfr. la voce di M. Carazzi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 17, Roma 1974, pp. 491-493.

52

L’articolo è riportato dal «Commercio», 8 gennaio 1891, Per i giovani che escono dalle scuole commerciali.

53

Cfr. «Il Commercio», 30 gennaio 1891, Le Borse di commercio. Il senso pratico dei nostri industriali.

54

«Il Sole», 14-15 marzo 1898, Teoria e pratica.

55

«Il Sole», 6 agosto 1897, A proposito di Scuole di commercio.