Storia della Bocconi

1902-1915. Gli esordi

Una partenza rinviata: la «facoltà commerciale L. Bocconi» al Politecnico


Parole chiave: Rapporti istituzionali, Presidente Sabbatini Leopoldo, Famiglia Bocconi, Bocconi Ferdinando, Pantaleoni Maffeo, Milano, Politecnico

«L’inaugurazione della Università commerciale Luigi Bocconi ebbe luogo il 10 novembre 1902. Per la solennità con cui si compì e come fatto in se stesso assunse veramente importanza di avvenimento nazionale. Assistevano alla cerimonia il fondatore dell’Università, Ferdinando Bocconi, la signora Claudina Griffi, sua consorte ed i figli dott. Ettore e Ferdinando. Intervennero numerosissimi i rappresentanti del governo, del parlamento, delle università e delle accademie, delle camere di commercio; le autorità cittadine; tutte le maggiori notabilità del mondo industriale, commerciale e bancario; professori, studenti col loro tradizionale berretto goliardico, e infine molte gentili signore»[1].

10 novembre 1902. Nel momento in cui vedeva la luce la prima università commerciale, «decoro di Milano e d’Italia»[2], era giusto che le luci della ribalta si posassero su Leopoldo Sabbatini. A lui, che qualche tempo prima aveva assunto l’oneroso ma appassionante compito di predisporne e tradurne in realtà il progetto, era stato attribuito l’alto onore di presentarla ufficialmente alle autorità e alla cittadinanza, dando conto dei motivi che avevano spinto Ferdinando Bocconi a dar vita al nuovo Ateneo e delle ragioni per le quali esso appariva tanto diverso dalle altre Regie Scuole Superiori di Commercio sorte qualche decennio prima a Venezia, a Genova e a Bari.

Il conciso discorso di quello che sarebbe stato il primo presidente e rettore della Bocconi rimane a testimonianza della capacità di sintesi e della chiarezza espositiva di chi lo redasse. Le idee animatrici dell’iniziativa; gli encomiabili intenti (culturali, professionali, scientifici, sociali) che la nuova istituzione si proponeva; l’esigenza che, sin dalla nascita, essa tenesse il passo coi «tempi nuovi» che Clio stava tessendo, in modo da «ricondurre l’armonia fra la vita e la scuola, per fare che la scuola offra gli elementi essenziali alla nostra vita»[3] costituirono i punti focali della misurata, ma appassionata allocuzione inaugurale. Nella quale, tuttavia, torna difficile cogliere gli immediati antecedenti dell’impresa che il Sabbatini aveva portato a termine in modo così soddisfacente.

In molte occasioni, nel corso dei suoi primi nove decenni di vita che quest’anno si festeggiano, l’Università Bocconi è stata portata ad esempio per dimostrare quali frutti possa generare il coniugio tra l’amore patrio e quello paterno. In più circostanze si è posto l’accento sulla nobile decisione presa da Ferdinando Bocconi, una volta caduta ogni speranza di riabbracciare il figlio Luigi, «smarritosi in quella infausta giornata» che conobbe la disfatta di Adua (primo marzo 1896), di «dotare Milano di una Istituzione che da Lui prendesse il nome e tornasse davvero utile alla città nostra e al Paese»[4]. Ma il gesto di Ferdinando, che in quel 10 novembre 1902 riceveva definitiva e pubblica consacrazione, trovava le sue motivazioni profonde ben al di là e ancor prima della tragica perdita del figlio primogenito. La dolorosa esperienza, nell’incidere sui moti del cuore, probabilmente concorse semplicemente ad affrettare l’impostazione e l’esecuzione di programmi verso i quali i moti della mente da tempo stavano indirizzando una élite culturale milanese di cui faceva parte il promotore di quell’impresa commerciale di eccezionali dimensioni che, col nome di «Alle Città d’Italia», aveva offerto un esempio pionieristico di come si potesse introdurre e gestire la «grande distribuzione»[5].

È del tutto plausibile, invero, che a Ferdinando Bocconi l’idea di «dotare… la Città nostra e il Paese» di una «utile istituzione» che elevasse il tono professionale dei giovani aspiranti ad esercitare attività commerciali, migliorandone la preparazione culturale di base e accrescendone le conoscenze in ambito economico, aziendale, giuridico, fosse balenata prima che sul quadrante della storia si affacciassero i dolorosi giorni del marzo 1896. Da ormai molti lustri operatore infaticabile non solo nel capoluogo lombardo, ma in diverse contrade della penisola e lungo itinerari d’oltre frontiera; osservatore acuto ed accorto delle tanto disparate condizioni economiche, sociali, culturali e politiche esistenti nei vari Paesi; convinto che sarebbe stato un grave errore rimanere defilati nei fondali della storia, proprio mentre era in atto una rapida e per certi versi drammatica evoluzione delle strutture delle società occidentali; «lavoratore esigentissimo con se stesso e coi propri collaboratori e dipendenti, liberale nei convincimenti politici ma con qualche punta di autoritarismo nella gestione del suo impero commerciale, sorretto da quella fede nell’uomo che riparava a tutte le delusioni e compensava tutte le smentite»[6]; disposto, in coerenza con codesti principi, a offrire un contributo di pensiero e di azione anche in sede pubblica (fece parte del consiglio comunale di Milano e prese posto negli scanni del Senato), Ferdinando Bocconi incarnava, invero, e nel modo più emblematico, la figura dell’imprenditore milanese fin de siècle. E vi è senz’altro da pensare che, in quanto tale, egli da tempo – in sintonia con gli intendimenti di altri rappresentanti della borghesia cittadina e con il sostegno dei più aperti componenti della nomenclatura intellettuale ambrosiana – avesse considerato l’opportunità di colmare un vuoto presentato dalle strutture scolastiche della «capitale morale ed economica» del Paese[7]. Gli doveva sembrare incredibile che Milano, proprio Milano, fosse priva di una «scuola superiore di commercio», quando alcune città italiane, da tempo, ne erano profittevolmente dotate[8]. Senza dire che a Ferdinando Bocconi non era forse sfuggita l’iterazione, in sede internazionale, di incontri fra esperti, allo scopo di porre sempre meglio a fuoco i problemi attinenti all’«insegnamento commerciale» impartito ai successivi livelli didattici: medio, secondario e superiore[9]. In un mondo che andava conoscendo così sconvolgenti trasformazioni e che, in particolare, assisteva ad uno straordinario sviluppo dei traffici era prevedibile un sensibile aumento degli operatori, ai quali sarebbe occorso un più nutrito ed ampliato corredo di conoscenze economiche. Pertanto, si avvertiva la duplice necessità di ripensare ai criteri, ai metodi e ai fini inerenti l’insegnamento di materie in senso lato commerciali e, coerentemente, di provvedere, per ogni ordine e grado, ad un ammodernamento strutturale delle scuole in cui esso era specificamente dispensato[10].

In altre pagine di questo volume è proposto un profilo di quel mondo ambrosiano che, venutosi a configurare in forme e modi singolari, disposto e potenzialmente pronto ad attingere più elevate e dilatate soglie, era di certo nelle condizioni più favorevoli per impostare e gestire, con elevate probabilità di successo, una operazione complessa, quale era quella di produrre una «università» di studi commerciali. Basti qui annotare come il progenitore dei grandi magazzini facesse parte di quella compagine di imprenditori-intellettuali milanesi (accanto a Ferdinando Bocconi, per fare menzione solo di qualcuno che sarà dato ancora di ricordare, vi erano Ernesto De Angeli, Giambattista Pirelli, Carlo Vanzetti, Angelo Salmoiraghi, Giuseppe Colombo, Federico Weil) i quali, con la propria attività «manageriale», con i loro scritti, con i loro discorsi, con il loro prudente, ma non timoroso e in ogni caso sempre interessato e interessante intervento nella vita pubblica e politica, erano coscienti di proporsi come un gruppo elitario[11].

In un ambiente in cui spiravano innegabili e, non di rado, robuste brezze paternalistiche, gli obiettivi verso cui tendeva decisamente la borghesia milanese erano suggeriti dalla diffusa convinzione che un vero e solido progresso economico si sarebbe potuto realizzare solo mediante una riqualificazione del lavoro, o meglio del «capitale-lavoro», congiuntamente ad un affinamento culturale e professionale dell’imprenditore. Come dire che codesto establishment ambrosiano si rendeva ben conto che, nella strategia dello sviluppo economico, il capitale umano esplica una funzione essenziale; era persuaso che la «innovazione», nel cui segno il cursus historiae si dipanava, imponeva il superamento della cultura tradizionale, «classica», inadeguata a comprendere e a spiegare l’avvento e la portata di nuovi modelli di vita; era cosciente, dunque, che lungi dall’abdicare ad una preparazione umanistica, si dovessero allargare gli orizzonti della conoscenza e ridisegnare gli itinerari interpretativi dell’essere e dell’agire; che si dovesse pertanto, in un mondo contrassegnato da così rapidi mutamenti, in ispecie sul versante economico, approfondire l’analisi di teorie, dottrine, politiche economiche, estendendone l’insegnamento. Insomma, una couche sociale, quella costituita dall’alta e colta borghesia milanese, che muovendo da un’ampia e perspicua visione delle realtà sociali e politiche, si era convinta che il futuro non avrebbe potuto essere in ogni senso migliore, esser più produttivo, redditizio, se non si fosse riusciti a rimodellare il profilo del corpus sociale. Ai vertici del quale avrebbero dovuto assurgere le aristocrazie dei nuovi tempi: quelle del lavoro e dell’impresa[12].

In questa visione, in questo programma – nei quali a qualcuno verrebbe fatto, forse, di cogliere le prove di un «nuovo ruolo» assegnato al ‘moderatismo settentrionale’[13] – rientrava, senza dubbio, anche l’iniziativa volta a creare a Milano, con capitali e iniziative private[14], una scuola capace di educare «commercianti dalle idee larghe, dalla cultura solida, che sappiano aprire sempre nuove vie all’attività economica del paese»[15].

La scomparsa di Luigi, istillando in Ferdinando l’idea di rendere immortale la memoria del figlio[16], concorse a rendere esplicite tutte queste istanze polarizzandole su un obiettivo preciso: quello di dar vita a una «università commerciale».

Ma le ideologie e gli ideali non erano gli unici elementi che giocavano a favore della nuova istituzione; in questa direzione sarebbero intervenute ben presto le capacità operative e il senso pratico del fondatore dei grandi magazzini «Alle città d’Italia», che lo indussero a dotare la scuola di un cospicuo fondo iniziale (lire 200.000, che sarebbero state ben presto elevate a 400.000) prima ancora di definire minuziosamente il progetto – che tuttavia, nelle sue linee generali, era ben delineato nella mente dell’uomo d’affari milanese, grazie ai preziosi consigli offertigli da Ernesto De Angeli[17] che, già un decennio prima – e proprio attraverso le colonne de «L’Industria»[18], si era fatto promotore di una iniziativa volta a dar vita, anche a Milano, a una Scuola superiore di commercio e di ragioneria[19].

Nella lettera che[20] Ferdinando Bocconi inviava a Giuseppe Colombo invitandolo ad assumere il patrocinio scientifico dell’iniziativa, venivano definiti con chiarezza i caratteri, le finalità e i limiti della scuola «bocconiana» di commercio: «Oggi – Ella me lo insegna – la coltura è tutto nel mondo della produzione e degli scambi. Non più come una volta, quando limitata era la concorrenza, è dato avventurarsi in imprese industriali e commerciali con poche cognizioni pratiche. Il campo si è allargato, i concorrenti si sono fatti numerosi (innumerevoli si scriverà su “Il Sole”) e la lotta difficile. Vince il meglio armato, e le armi naturali hanno perduto molta della loro importanza di fronte alle armi acquisite[21]. Avere sul posto il ferro, il cotone, la lana, il carbone non basta più ad assicurare il primato ad un popolo; occorre che questo, se vuol resistere alla concorrenza, conosca tutti i segreti così del produrre bene e a buon patto, come del vendere bene e del sapersi conquistare i mercati. La coltura tecnica da un lato, la coltura commerciale dall’altro sono nella lotta economica poderosi istromenti di offesa e di difesa… la Scuola superiore di commercio dovrebbe mirare a creare uomini atti ad occupare cariche importanti, non solo in aziende puramente commerciali, ma anche in aziende agrarie, industriali, bancarie, compagnie di trasporti e d’assicurazioni e via discorrendo… In tutte le imprese si sente la necessità di uomini simili. Particolarmente utile poi per l’industria sarebbe la possibilità di avere ingegneri, i quali a cognizioni tecniche accoppiassero condizioni commerciali notevoli, sapessero non solo produrre, ma anche organizzare l’impresa dal lato commerciale, fossero insomma capaci di diventare veri capitani d’industria, che ai capitali e al lavoro nazionale trovassero collocamento vantaggioso e assicurassero impiego duraturo. Ora questo risultato si potrebbe conseguire annettendo l’Istituto superiore di commercio alla Scuola degli ingegneri di Milano, organizzando quello in modo che gli allievi ingegneri possano gradatamente, nei cinque anni di frequenza alla loro scuola, assistere alle lezioni dell’Istituto superiore di commercio – impartite invece in due o tre anni a chi si dedica esclusivamente agli studi commerciali – ed ottenere colla laurea d’ingegnere anche il diploma di questo Istituto»[22].

Ecco, dunque, un elemento del primitivo progetto che concorreva a distinguere la scuola di commercio milanese da quelle di Venezia, Bari e Genova, prevedendo, accanto al diplomato in scienze commerciali, una nuova figura professionale, quella dello «ingegnere-commerciante», di un ingegnere cioè capace di coniugare saperi tecnici e saperi economici, un vero e proprio capitano d’industria[23] insomma. Di qui l’idea di fondere la cultura industriale, impartita all’Istituto tecnico superiore, con quella commerciale, erogata all’Istituto superiore di commercio, integrando anche fisicamente la nuova scuola nella complessa struttura del Politecnico[24], pur assicurandole la più ampia autonomia organizzativa, didattica e finanziaria.

Nella visione di Ferdinando Bocconi l’Istituto superiore di commercio di Milano avrebbe dovuto limitarsi a «creare commercianti di primo ordine», a rilasciare un titolo di studio che garantisse che «il giovane conosce la vita economica dei paesi più importanti come ne conosce le lingue: sa di chimica e merciologia, di geografia commerciale, di diritto commerciale, industriale e marittimo, di legislazione doganale e ferroviaria, di banche, d’assicurazioni e di tecnica del commercio» e gli consentisse di svolgere con successo qualsiasi attività economica, demandando alle regie scuole superiori il compito di dar vita ad altre figure professionali[25]. Da qui la sua totale indifferenza per il valore legale del titolo nella coscienza che, nel mondo degli affari, avrebbe contato soprattutto una completa preparazione professionale e culturale[26].

Al comitato ordinatore «il fondatore» demandava il compito di definire il percorso didattico più adatto alle finalità della scuola; quel che gli premeva sottolineare, in conclusione, era che l’istituzione avesse un «indirizzo giustamente pratico» pur senza trascurare gli aspetti più propriamente culturali: «D’accordo nel bandire il dottrinarismo; d’accordo nel fare largo posto al bureau commercial della scuola di Anversa, in cui tutti gli atti, tutte le operazioni di commercio che si compiono in imprese d’ogni genere sono insegnate ai giovani come esse si svolgono nelle vere aziende. Ma si vivifichi l’insegnamento pratico con una coltura larga, coltura positiva di tutto quanto ha rapporto alla vita e alle manifestazioni economiche dei popoli»[27].

A Bocconi Colombo rispondeva entusiasticamente dicendosi perfettamente d’accordo sulle finalità della nuova scuola, che avrebbe soddisfatto il bisogno di un alto insegnamento commerciale, reclamato dal fiorente sviluppo delle industrie e dei commerci milanesi e sulla opportunità di concepirla e farla crescere in grembo al Politecnico «così i due istituti potranno reciprocamente sussidiarsi, mettendo a disposizione l’uno dell’altro professori e materiale; e l’industria nazionale potrà agevolmente reclutarvi i suoi capi, dotati di un’elevata coltura scientifica e pratica») e dichiarando l’impegno suo e del governo ad «accogliere l’istituzione Luigi Bocconi nella sede dell’Istituto Tecnico Superiore, con quell’autonomia che Ella giustamente reclama per esso, e salve le disposizioni necessarie a regolare i rapporti tra i due Istituti, alle quali Ella pure allude nella sua lettera»[28].

Diffondendosi lungamente sul significato e l’importanza dell’iniziativa nella quale «l’insegnamento pratico» sarebbe stato «vivificato da una coltura larga, da una coltura positiva di tutto quanto ha rapporto alla vita e alle manifestazioni economiche dei popoli», su «Il Sole» di qualche giorno più tardi si osservava: «Questo pensiero è sapiente. Esso addita il modo più completo e più razionale per cementare e fecondare in un’armonica unione degli studi classici e degli studi tecnici, della coltura antica e della coltura moderna, della tradizione e dell’evoluzione, sotto varii elementi intellettuali e morali, che devono creare l’uomo moderno, cioè un uomo essenzialmente e utilmente sociale, in cui nessun parassitismo di facoltà, di attitudini e di cognizioni uccida quelle tendenze e quelle energie, che sono in nessuna individualità naturalmente prevalenti[29].

Ottenuti gli assensi amicali e burocratici[30], Bocconi non perse tempo. D’accordo con Colombo, approvato il progetto edilizio messo a punto dall’ing. Panciroli, «assistente del gabinetto per le costruzioni annesse al Politecnico», già all’inizio del 1899 poteva con soddisfazione fare sapere che, sotto la guida del capomastro Galli, i lavori per la costruzione del padiglione destinato ad ospitare la sua scuola avevano preso l’avvio. Sempre «Il Sole» rendeva noto che all’istituto bocconiano sarebbe stata destinata un’area di proprietà del Politecnico (allora situato nelle immediate vicinanze di Piazza Cavour), precisando che «molti, spaziosi e arieggiati» sarebbero stati i locali, «rispondenti in tutto e per tutto alle moderne esigenze dell’igiene scolastica».

Il comitato ordinatore, intanto, si impegnava seriamente per approntare al più presto le strutture didattiche: perché i corsi, come era nelle intenzioni rese note, incominciassero nel novembre del 1899. I componenti lo stesso (presumibilmente Giuseppe Colombo, Leonardo Loria, Ernesto De Angeli, Luigi Luzzatti e Salvatore Cognetti de Martiis), che in un primo momento si erano trovati d’accordo nell’approvare il piano di studi tracciato dal De Angeli, che prevedeva l’insegnamento, nell’arco di due anni, di undici materie, per un totale di 36 ore di lezione settimanali, non tardarono a manifestare perplessità intorno alla sua validità. Parendo insufficiente il prospettato biennio (ancorché preceduto da un anno propedeutico, riservato ai giovani provenienti dai licei) per assicurare una solida preparazione di base e specialistica, si decise l’estensione della durata della scuola ad un triennio. Tale, si sostenne, era il periodo necessario perché agli allievi venisse offerta una «educazione di carattere elevato», una istruzione che a loro permettesse di «entrare nella vita… [senza] sentirsi troppo piccini accanto ai grandi… [essendo] in grado di dirigere ben presto le loro energie verso le posizioni più ambite»[31].

Si volle, inoltre, sfumare la primitiva tesi, secondo la quale la scuola avrebbe dovuto dare assoluta preminenza alla formazione professionale, allargando gli orizzonti culturali entro i quali collocare la preparazione degli studenti (la cui istruzione professionale sarebbe rimasta in ogni caso prioritaria) e si decise che l’iscrizione alla scuola non avrebbe potuto avvenire se non dopo il superamento di un «esame di ammissione». Non si mancò, infine, di ribadire i benefici che sarebbero derivati dalla simbiosi fra la nuova scuola e l’Istituto Tecnico Superiore, pur riaffermando decisamente l’autonomia della «facoltà commerciale» e il suo carattere di ente di diritto privato[32].

Con urgenza si presentava, altresì, il problema di affidare la direzione della scuola ad un valente economista o cultore di materie aziendalistiche che godesse di alto prestigio (si pensava, in primis, a un docente di «banco modello»). La scelta di un direttore ad hoc non era, d’altronde, che l’atto formalmente conclusivo dell’iter genetico dell’istituzione: la sua nomina avrebbe sanzionato l’inserimento della Bocconi nel mondo della scuola. Sul maggiore quotidiano milanese, pertanto, di lì a poco, apparve il bando di concorso contenente le condizioni (richieste ed offerte) per il conferimento della direzione dell’Istituto. Il cui collocamento nell’àmbito dell’istruzione «universitaria» sembrava adombrato (anche se, per la verità, esplicite dichiarazioni in proposito non erano mai uscite dalle labbra di qualcuno dei membri del comitato) dal momento che il direttore avrebbe goduto di una retribuzione annua pari a quella percepita dai professori in cattedra nelle «Regie Università»[33].

Sul tavolo della commissione giudicatrice (formata dal prof. Giuseppe Colombo, direttore del Politecnico, affiancato dal vice direttore Leonardo Loria e dagli economisti Salvatore Cognetti de Martiis, Luigi Bodio e Gerolamo Boccardo) piovvero ben presto plichi di pubblicazioni, accompagnate da lunghi curricula, da suggerimenti circa il modo di gestire la scuola e perfezionare l’ordinamento didattico: il tutto condito, more italico[34], da un ragionevole numero di segnalazioni e raccomandazioni, provenienti soprattutto da rappresentanti, più o meno autorevoli, del mondo politico e professionale.

I lavori della commissione giudicatrice si prolungarono di là dal termine fissato dal bando di concorso (10 luglio 1989): nell’autunno successivo essi erano ancora in pieno svolgimento, e nessuna notizia sul loro andamento riusciva a trapelare all’esterno. I partecipanti al concorso non celavano la propria apprensione, acuita dalle voci circolanti intorno a dissensi e contrasti insorti tra i componenti della commissione. Donde le insistenti richieste epistolari (indirizzate prevalentemente al Colombo) per avere informazioni sull’andamento dei lavori e sulla presumibile data della loro conclusione; donde il moltiplicarsi degli interventi per segnalare le doti e le benemerenze dei candidati (anche in forma di «autoelogi») e la ridda delle proposte in ordine alla migliore organizzazione da dare alla nascente istituzione (e si è indotti a pensare che questi suggerimenti non tanto palesassero la preoccupazione di chi li faceva per il bene della scuola, ma intendessero attestare la bravura di chi li formulava).

Non pare dubbio che, in seno alla commissione giudicatrice, si siano manifestati pareri e diversi e contrastanti; ma sembra parimenti certa una composizione dei dissidi all’inizio di dicembre di quel faticoso 1899. Sciolte le ultime esitazioni e riserve, la commissione, all’unanimità, proclamò «vincitore del concorso per un posto di direttore dell’Istituto superiore di commercio L. Bocconi» il prof. Maffeo Pantaleoni, ben nota e ammirata figura di economista. La scelta fu riconosciuta felicissima, o per lo meno sensata, da parte degli stessi concorrenti: ne danno testimonianza le lettere inviate da alcuni di costoro al presidente della commissione[35].

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Non v’è traccia nell’archivio della Bocconi della documentazione presentata dal Pantaleoni in occasione del concorso, sicché non ci è dato di appurare quali furono i motivi che indussero lo studioso di Macerata a correre l’alea di un giudizio e ad affrontare responsabilità rilevanti che avrebbe comportato la direzione della costituenda «facoltà commerciale». V’è da presumere che Pantaleoni, che «sentiva una profonda nostalgia dell’ambiente italiano, nostalgia che cogli anni di residenza all’estero era divenuta una vera e propria passione maniacale e alimentava fortemente un nazionalismo a volte assai aggressivo»[36], decidesse di non perdere un’occasione che gli avrebbe consentito di abbandonare Ginevra e ritornare in patria. Tanto più che l’eventuale chiamata alla direzione della Bocconi avrebbe potuto consentire l’appagamento di un altro suo profondo desiderio: il patente riconoscimento, anche nel Paese natale, delle non comuni doti di scienziato economista, nonché l’opportunità di saggiare, in un posto di alta responsabilità, le sue ancora non del tutto espresse attitudini di organizzatore ed amministratore culturale. Invero, oltre che riscuotere il massimo apprezzamento come economista e come didatta, Maffeo Pantaleoni era stimato capace organizzatore, in forza delle prove date in passato in qualità di direttore della Scuola superiore di commercio di Bari. Di più, le idee che egli era andato sostenendo, in merito ai significati e ai contenuti dell’insegnamento commerciale di grado superiore, risultavano non molto dissimili da quelle che Ferdinando Bocconi aveva di recente enunciate nel suo «manifesto»[37].

Tanto più, pertanto, risulta inesplicabile la rinuncia, volontaria o consigliata, di Maffeo Pantaleoni ad assumere la carica di preside della Bocconi.

In mancanza di testimonianze dirette che sospingano a formulare accettabili spiegazioni non resta che avanzare qualche ipotesi. La prima che l’illustre economista, che giusto allora sembrava sul punto di essere chiamato su una cattedra dell’ateneo pavese, decidesse di optare per la più sicura, anche se forse meno gratificante, carriera accademica in una Regia Università[38]; la seconda è che egli considerasse l’opportunità di dedicarsi più intensamente alla vita politica (non per nulla di lì a pochi mesi sarebbe stato ufficialmente presentato come candidato della sinistra alla Camera dei deputati per il collegio di Macerata)[39]; pure in questo caso la scelta bocconiana sarebbe risultata impraticabile.

La terza ipotesi (la meno improbabile, se non la più plausibile) è suggerita da alcune considerazioni apparse sul solito «Il Sole» e nelle quali, di là da una pàtina di suspense spruzzata dal giornalista, non è irragionevole vedere adombrate contrapposizioni ideologiche che, come abbiamo già avuto occasione di segnalare, non mancavano di palesarsi all’interno dell’establishment imprenditoriale milanese e nazionale.

Sulla scorta di codeste notazioni, dispensate dal foglio economico della borghesia ambrosiana, sotto il titolo La direzione della facoltà commerciale Bocconi[40], non pare azzardato ipotizzare l’insorgere di qualche veemente discussione tra i membri del comitato ordinatore, ivi incluso lo stesso fondatore, in merito alla scelta di Pantaleoni. A tutti, in effetti, era ben noto quanto irriducibile fosse lo spirito individualista dell’ombroso scienziato e quanto incrollabili ne fossero le convinzioni liberistiche. Cosicché non è difficile immaginare, una volta giunti alla stretta finale del concorso, i profondi turbamenti e le gravi perplessità di coloro che si erano attestati, in quella congiuntura storica ed economica, su ferme posizioni protezionistiche; ma che, d’altra parte, si rendevano pur conto che la sapienza, l’esperienza, la personalità singolare dell’economista di Macerata erano atouts di tutto rilievo, che non potevano non essere tenuti presenti, di là dalla non gradita posizione ideologica del concorrente, nel momento in cui ci si apprestava ad eleggere il pilota della nascente facoltà[41]. Donde non improbabili tentativi per superare crisi di coscienza, personali e collettive, per proporre mediazioni atte ad appianare divergenze di vedute, per smussare i contrasti ideologici e svincolare la gestione dell’istituto da peculiari atteggiamenti culturali e politici. Epperò, nel silenzio dei documenti che hanno superato il vallo del tempo, non altro resta che la propensione a credere che la rigidità delle rispettive posizioni abbia impedito l’impostazione di un dialogo proficuo. Quale delle due parti in causa pose termine alle difficili trattative? Fu il comitato bocconiano nella sua interezza, o qualcuno dei suoi membri più influenti, o Ferdinando Bocconi in persona a chiedere a Pantaleoni di rinunziare alle sue aspirazioni? Oppure fu l’irritato studioso a tirarsi volontariamente e bruscamente da parte di fronte alla proposta di «sconfessare alcune sue idee liberiste e votarsi al credo protezionista»?

Ed un altro interrogativo spontaneamente si pone. L’accantonamento della candidatura di un liberista alla più alta carica dell’organigramma nell’istituenda facoltà commerciale ebbe ad incidere sui rapporti tra Bocconi, De Angeli e Colombo, incrinando quella solidarietà da cui era germinato il progetto d’innestare il nuovo Istituto superiore di commercio sul saldo tronco del Politecnico ambrosiano? Anche su questo punto la documentazione tace, e rimane insoddisfatto il desiderio di comprendere le vere ragioni per cui, dopo un anno dalla mancata assunzione del Pantaleoni, si assistette al parto di un nuovo progetto bocconiano a firma di Leopoldo Sabbatini: progetto che radicalmente mutava i programmi e i criteri istituzionali delibati e dichiarati in precedenza. Nulla ci è dato di sapere intorno ai motivi che spinsero il padre di Luigi Bocconi a «rifondare», senza averne ancora aperte le aule, la scuola già idealmente intestata al figlio scomparso. Solo possiamo dire che, giusto all’alba del nuovo secolo, Ferdinando decise d’abbandonare l’idea, già in fase di realizzazione, di coniugare la desiderata «facoltà» commerciale ai destini del Politecnico, per imboccare, invece, in piena autonomia e libertà di decisioni, una via probabilmente più rischiosa, ma indubbiamente allettante, che avrebbe condotto ad una soluzione del tutto nuova e ancora più gratificante dell’iniziativa che tanto gli premeva di vedere giungere in porto.

Su suggerimento di chi o per il concorso di quali circostanze Bocconi pose gli occhi su Leopoldo Sabbatini e a lui decise di affidare la redazione di un nuovo e radicalmente innovante progetto di fondazione e di ordinamento della scuola che gli era così cara?

Su colui, o coloro che consigliarono Bocconi di avvalersi della competenza di Sabbatini non è possibile fare supposizione alcuna. Mentre è abbastanza plausibile pensare che l’«accoppiata vincente» Bocconi-Sabbatini sia stata combinata e giocata nei saloni della Camera di commercio milanese (o fra le discrete mura della loggia intitolata a Carlo Cattaneo?) ove Bocconi, entrato a far parte della giunta camerale, avendo al fianco due amici preziosi quali Angelo Salmoiraghi e Carlo Vanzetti, si trovava nelle condizioni migliori per valutare le doti non comuni dell’ancora giovane segretario: il Sabbatini, appunto. Il quale, un decennio prima, aveva saputo già imporsi all’attenzione e ottenere il plauso degli operatori economici ambrosiani, predisponendo e conducendo in porto, in tempi brevi, una inchiesta industriale che continua ad essere riconosciuta come una delle principali memorie storiche, con riguardo alla situazione economica milanese sul declinare dell’Ottocento[42]. Non si può, del resto, escludere che lo stesso Sabbatini, al cospetto d’un uomo che presumibilmente, dopo la rinuncia di Pantaleoni, non riusciva a nascondere il suo dispiacere e palesare le sue preoccupazioni per il buon esito di una iniziativa così bruscamente arenatasi, si sia fatto avanti e con Ferdinando Bocconi abbia riesaminato a fondo i vari punti del progetto approvato dal comitato ordinatore della facoltà commerciale presieduto da Giuseppe Colombo per giungere alla conclusione che le fortune a venire della nascitura istituzione, tenuto conto anche delle esigenze create dalla rapida crescita economica della regione e del Paese, avrebbero potuto essere meglio assicurate ove la facoltà nascesse del tutto indipendente, svincolata da ogni legame (che avrebbe forse potuto significare sudditanza) con il Politecnico e si desse un ordinamento completamente nuovo rispetto a quello delle altre regie scuole superiori di commercio. Un ordinamento che, pur non venendo meno ad alcune ineludibili caratteristiche del sistema scolastico nazionale, facesse sue molte delle innovazioni introdotte, in anni recenti, nell’istruzione economica di grado superiore praticata in diverse università straniere. Rinnovati piani di studio, avanzate forme di gestione delle scuole superiori estere che il Sabbatini aveva avuto occasione di esaminare e studiare a fondo[43], e che, non v’è dubbio, dovettero apparire a Bocconi tanto interessanti da indurlo, non solo a «mettersi in proprio» nell’affascinante impresa ed a sganciarsi, quindi, dal Politecnico, ma a devolvere, come avrebbe fatto qualche tempo dopo, alla futura università la somma, invero ingente, di un milione di lire (oltre a convincerlo a conciliare la sua visione di «conservatore illuminato» con quella «radical democratica» di Sabbatini)[44].

Né si può escludere, come ha suggerito Enrico Decleva[45], che il malumore derivante al «fondatore» per gli scarsi spazi offertigli nel progetto De Angeli, combinandosi con la mutata temperie politica derivante dal brusco cambiamento avvenuto ai vertici di palazzo Marino, lo avessero convinto a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti dei «moderati» e del Politecnico, spingendolo ad allontanarsi dagli uni e dall’altro e ad avvicinarsi a uomini della democrazia radicale, nella convinzione che questi meglio avrebbero potuto garantire la rapida realizzazione di una iniziativa che, grazie ai suggerimenti di Leopoldo Sabbatini, ora gli pareva molto più sensato avviare in maniera autonoma.

È giusto sottolineare che il distacco della «facoltà commerciale» dall’Istituto tecnico superiore avvenne signorilmente, senza traumi. Se, come sembra, di divorzio si trattò, esso venne concluso con l’accordo di entrambe le parti e soprattutto con molto savoir faire e grande discrezione, prova ne sia che dell’abbandono del primitivo progetto e della conclusione dei rapporti con il disciolto comitato ordinatore non uscì parola sulla stampa milanese e su quella nazionale.


1

Cfr. Università Commerciale Luigi Bocconi (d’ora in poi U.B.), Annuario per l’anno scolastico 1902-1903, Milano 1903, p. 7.

2

Cfr. «Il Sole» del 13 dicembre 1899.

3

Il discorso di Leopoldo Sabbatini è riportato integralmente in E. Resti, Ferdinando Bocconi dai grandi magazzini all’Università, Milano 1990, p. 108 e s.

4

Si veda U.B., Annuario 1902-1903, cit., p. 5. Per accurate notizie su Ferdinando Bocconi e, in particolare, sulle vicende connesse alla scomparsa del figlio Luigi in terra d’Africa cfr. E. Resti, Ferdinando Bocconi, cit., Milano, 1990.

5

Sul dibattito che per oltre un decennio tenne desti gli interessi dell’élite culturale e imprenditoriale milanese sul problema dell’istruzione «commerciale» superiore vedi supra p. 7 e ss. Oltre al citato Ferdinando Bocconi si veda F. Amatori, Proprietà e direzione. La Rinascente, Milano 1988, passim.

6

G. Spadolini, Prefazione, in E. Resti, Ferdinando Bocconi, cit., p. IX.

7

Cfr. D. Musiedlak, La création de l’université Luigi Bocconi et le développement de l’enseignement supérieur commercial en Europe (1896-1914), in «Mélanges de l’école française de Rome», II, 1980, pp. 625-662; Idem, Université privée et formation de la classe dirigeante. L’université L. Bocconi de Milan (1902-1925), Roma 1990.

8

Sulla genesi e le vicende delle regie scuole superiori di commercio cfr. M. Augiello e M. Guidi, I «politecnici del commercio» e la formazione della classe dirigente economica nell’Italia post-unitaria. L’origine delle Scuole superiori di commercio e l’insegnamento dell’economia politica (1868-1900), in AA.VV., Le cattedre di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina «sospetta» (1750-1900), Milano 1988, pp. 335-381.

9

Vale la pena di ripercorrere brevemente, attraverso le parole pronunziate da Leo Saignat, presidente del Comité international des congrès de l’enseignement technique commercial, in apertura dei lavori dell’VIII convegno internazionale sull’insegnamento commerciale, tenutosi proprio in Bocconi nel 1906, le tappe che segnarono l’affermarsi di un movimento di opinione di rilevanza europea a favore dell’istruzione commerciale, dando conto degli sforzi condotti, attraverso i periodici incontri internazionali, per vincere le resistenze che si opponevano alla nascita di scuole commerciali di vario ordine e grado: «Il y a vingt ans… j’avais l’honneur de présider a Bordeaux le premier congrès international de l’inseignement tecnique, commerciale et industriel, organisé par la Société Philomatique. A cette epoque, la cause des écoles de commerce n’était pas encore complétement gagnée. Si l’on reconnaissait généralement l’utilité de l’inseignement industriel, les écoles de commerce comportaient encore de nombreux detracreurs, qui soutenaient que le commerce s’apprend suffisamment dans les comproirs, dans les bureaux ou dans les magasins, et que les écoles speciales sont inutiles dans cette branche de l’activité humaine… Cette invitation de la Société Philomatique fur accéptée par des personnages éminents de tous les pays qui se réunirent au premier congrès international de l’inseignement tecnique de 1886… grace auquel la cause des écoles de commerce fut définitivement gagnée… Le second se tint à Paris pendant la durée de l’exposition universelle de 1889… Le IIIe eut lieu à Bordeaux… le quatrième se tenait à Londre (1897)… En 1898 le V se tint à Anvers… et en 1899 nous nous trouvions à Venise… le VII congrès de l’enseignement tecnique eut lieu à Paris, pendant l’exposition universelle de 1900… Aujourd’hui s’ouvre le VIII congrès… organisé par les soins de l’Université commerciale L. Bocconi, sous la direction d’une commission spéciale à la tète de laquelle se trouve l’eminent recteur m. le docteur Léopold Sabbatini… L’Université commerciale L. Bocconi est bien jeune encore, mais elle brille déjà d’un vif éclat. C’est par elle que nous avons été conviés à ce congrès; elle a tenu à honneur de continuer l’oeuvre commercée dans les con- grès précédents». Cfr. U.B., Atti dell’VIII congresso internazionale per l’insegnamento commerciale, Milano 1907, p. 63 e s.

10

In un apologetico opuscoletto dedicato da uno dei primi studenti della Bocconi al «fondatore» si osservava: «Avere in Italia una scuola commerciale era un bisogno impellente. Nessuno però aveva studiato il modo di aprire ai giovani una palestra di studi, ove il commercio potesse intensificarsi sotto le forme pure e sostanziali della scienza e dell’arte. Il problema era grave e difficoltoso nello stesso tempo. Date le baraonde politiche che avevano troncato le attività industriali in Italia con la rottura dei trattati di commercio con la Francia e avevano impoverito il paese con la guerra d’Africa, sperperando il pubblico denaro e immolando all’ara della guerra centinaia di giovani rigogliosi di vita, sostegno e conforto dei genitori, fra i quali incontrò barbara morte il figlio del comm. Ferdinando Bocconi; date queste cause disastrose e micidiali, era necessario incanalare per giuste vie il paese, e cosa propizia e di principale necessità era di far germogliare il commercio. Questi avrebbe offerto al bel paese un modo per vendicarsi della sorte matrigna, facendo prosperare le arti, le industrie, tutto! Ma nessuno, ripeto, sognò o ideò un progetto corrispondente ai bisogni dei giovani volonterosi che si studiavano, per mezzo del commercio, di rendersi accetti alla famiglia e al paese. Nessuno! Solo il Bocconi poté concepirne e metterne in esecuzione l’idea». Cfr. A. Fiamma, Ferdinando Bocconi e l’Università Commerciale, Milano 1904, p. 5 e 6.

11

Si rivada, a mò di esempio, agli scritti di Giuseppe Colombo, che di questo gruppo fu il portabandiera, e alla estrema modernità del progetto che da essi emerge a proposito dello scenario, delle vocazioni e dei destini della capitale lombarda. Sullo stesso C.G. Lacaita ha osservato: «L’idea della Milano futura che Colombo portò avanti nei suoi interventi è quella di una metropoli pluridimensionale, capoluogo di un sistema regionale complesso e diversificato. Una città che, chiamata ad essere il “cuore che regola la circolazione e la vita di una vasta regione”, doveva espandersi in molte direzioni: come centro importante di attività industriali specializzate e varie (legate… più che alla potenza della forza motrice, all’intelligenza, al gusto e all’abilità dei produttori); come polo commerciale e finanziario d’importanza nazionale ed europea; come sede di servizi pubblici e privati avanzati; come centro primario di cultura, in particolare di cultura tecnologica e scientifica». Cfr. C.G. Lacaita, Giuseppe Colombo e le origini dell’Italia industriale, in G. Colombo, Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti: 1861-1916, Milano, 1985, p. 46.

12

Osserva giustamente Valerio Castronovo che «Allo stesso modo del Politecnico, anche l’istituzione della Bocconi corrispose infatti a un disegno di carattere politico-culturale volto alla formazione e alla legittimazione del ceto imprenditoriale come classe dirigente, in quanto espressione di una nuova “aristocrazia del lavoro e del sapere”. L’ambizione dei fondatori non si limitava infatti all’obiettivo di fornire al mondo dell’impresa e delle professioni una schiera di esperti e operatori qualificati, in base a criteri selettivi rigorosi e a un tirocinio altrettanto severo… compensati peraltro per coloro che giungevano a laurearsi dalla possibilità di accedere a importanti mansioni direttive nella vita economica. Quanti ressero le sorti della Bocconi e ne orientarono l’attività intendevano anche porre le basi di una generale revisione dei rapporti di forza e dei ruoli di comando ai vertici del sistema economico e sociale. In effetti, dietro l’attività di grandi istituzioni educative come i Politecnici di Milano e Torino e la Bocconi, e l’opera di formazione e di tutela degli interessi di categoria di alcune Associazioni imprenditoriali, venne delineandosi nel primo decennio del Novecento una sorta di “partito dei produttori” tanto più animato da aspirazioni di crescita e di affermazione politica e sociale quanto sempre più insofferente delle posizioni egemoniche detenute ancora in Parlamento e nelle amministrazioni locali da vecchi notabili e dai rappresentanti degli interessi agrari e della finanza tradizionali». Cfr. V. Castronovo, Prefazione, in D. Musiedlak, Université privée et formation de la classe dirigeante, cit., pp. XIV-XV.

13

«Si tratta di un gruppo di intellettuali-imprenditori che sembra esprimere appieno una certa atmosfera politica milanese e, in particolare, proporre un nuovo ruolo al moderatismo settentrionale. Gli elementi ci sono tutti: il distacco da Roma e lo scarso interesse per le istituzioni statali, il senso di superiorità sociale e intellettuale, l’orgoglio di casta e il rigorismo morale, il gusto per il mondo “borghese” e per gli effetti familiari. Ritorna in questo quadretto la ricerca di una continua mediazione tra i valori borghesi emergenti e la tradizione aristocratica, con l’ambizione di edificare una “città dal volto umano”, nella quale codici di comportamento comune, concezioni familiari della realtà, valorizzazione dell’assistenza e della beneficienza si combinassero tra loro. E c’è naturalmente l’idea della decisiva superiorità della società civile e degli strumenti di mediazione “metapolitica” rispetto alla politica e tanto più rispetto alle istituzioni dello stato…. Quando Colombo invitava a costituire un “partito conservatore moderno” – definendo il “conservatore moderno” come “il vero progressista illuminato, che studia con metodo scientifico i problemi sociali, onde condurre la società senza scosse attraverso alle evoluzioni che il continuo mutarsi delle sue condizioni materiali richiede” – aveva in mente qualcosa di ben diverso dal progetto rurale cristiano di Jacini. Parlare di Colombo (ma anche di De Angeli, di Bocconi, di Pirelli, di Salmoiraghi, di Vanzetti, di Weill) significa comunque introdurre la questione dei rapporti tra mondo imprenditoriale milanese, istituzioni e politica» (G. Vecchio, La classe politica nello stato liberale. I moderati 1870-1900, in C. Mozzarelli-R. Pavoni, Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi, Milano, 1991, p. 278). Mette conto di aggiungere che la falda socio-imprenditoriale di cui si è detto formava un indubbio «gruppo di pressione» il quale, per il tramite di quotidiani d’opinione, come il «Corriere della sera» e la «Perseveranza», esponeva con fermezza le sue idee e i suoi propositi con riguardo ai principali problemi economici, politici, sociali, amministrativi e non nascondeva l’intenzione di provocare un profondo rivolgimento della società cittadina e nazionale, nelle quali un ruolo di primaria importanza sarebbe stato conferito ai tecnici ed agli imprenditori (cfr. G. Rumi, Ordine e libertà, E. Decleva, Scelta e mito del progresso e C.G. Lacaita, Un progetto per la modernizzazione tecnica e scientifica, in AA.VV., Milano nell’Unità nazionale 1860-1898, Milano, 1991).

14

Riportando la notizia dell’annuncio dato da Ferdinando Bocconi di fondare a Milano una scuola superiore di commercio, su «Il Sole» si osservava: «È questo scelto dal cav. Ferdinando Bocconi il modo più bello, più nobile e più pratico per rendere omaggio a quei principi di decentramento e di saggia libertà, pei quali i nostri uomini politici, troppo a parole e assai poco a fatti, vanno continuamente facendo propaganda.

A molti non sembrerà possibile che Milano, uno dei primi centri industriali e commerciali d’Italia, non abbia ancora una Scuola superiore di commercio. Più volte si pensò ad essa, ma non si volle chiederne la fondazione al governo. E si fece bene. Noi pensiamo che sia venuto il tempo che per gl’insegnamenti superiori l’iniziativa privata debba sostituire quella dello Stato. Milano deve con le forze proprie provvedere ad una Scuola superiore di commercio. Onore a Ferdinando Bocconi, che per la fondazione di essa offre una somma tanto cospicua. Altri si aggiungano a lui e ne completino l’opera.

A noi sorride l’idea di vedere autonomi i maggiori istituti d’insegnamento. Lo fossero le Università come lo sarà, lo crediamo, la Scuola che va a fondarsi fra noi. Quando avremo molti di questi istituti autonomi, eretti in enti civili o morali, autorizzati ad ereditare, a possedere e amministrare i proprii beni, essi sapranno svegliare attorno a sé l’attenzione e l’interesse del loro ambiente e soprattutto degli uomini, che hanno fede nell’alta cultura e nella scienza e credono che il bene più grande che si possa fare al Paese sia quello appunto di aiutarlo nello sviluppo». Un esempio in «Il Sole» del 10-11 giugno 1898.

15

Cfr. Per un istituto superiore di commercio, in «L’industria. Rivista tecnica ed economica illustrata», vol. XII, n. 25, 19 giugno 1898 e F. Bocconi, Per un Istituto Superiore di Commercio in Milano, in «Il Sole» del 12 giugno 1898. Sul rapporto fra istituzioni culturali, società civile e associazioni produttive nella Milano di fine secolo cfr. C.G. Lacaita, Sviluppo e cultura. Alle origini dell’Italia industriale, Milano, 1984; Idem, L’intelligenza produttiva. Imprenditori, tecnici e operai nella Società d’incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano (1838-1988), Milano, 1990.

16

Nella lettera inviata, il 28 maggio 1898, a Giuseppe Colombo per invitarlo ad assumere il patrocinio dell’impresa, Ferdinando Bocconi osservava: «Come intendessi onorare la memoria di mio figlio Luigi, smarritosi nell’infausto giorno di Abba Carima, con una fondazione legata al suo nome, ebbi a dire, come Ella sa, due mesi sono, nella ricorrenza di quella tristissima data. Pare a me che tributo più squisito d’affetto non potrei rendere al mio caro; che nessun altra manifestazione dell’intenso dolore mio gli tornerà più accetta di questa, sia che egli aneli verso la famiglia dalla sua prigionia in barbari paesi, sia che rapito per sempre a noi, assista alle onoranze da regioni più alte. Il far del bene darà tregua al dolore nostro e l’opera buona ravviverà una speranza non vana che nutriamo nel ritorno. Se un giorno egli verrà ad abbracciarci sarà fiero del ricordo che gli avremo consacrato. E, se invece è detto che quel giorno mai possa giungere, ebbene vi sia chi rammenti una vita perduta per un santo entusiasmo, e il dolore ineffabile di genitori a cui la speranza stessa del ritorno toglie il conforto – a tutti gli altri concesso – della rassegnazione» (cfr. Per un istituto superiore, cit., p. 391).

17

Ibidem. Nella lettera di trasmissione al ministro della pubblica istruzione dello Statuto della Facoltà Commerciale «Luigi Bocconi» in Milano Ferdinando Bocconi scriveva «L’E.V. rileverà dalla mia lettera come fosse intenzione mia onorare la memoria del mio figlio Luigi, smarritosi o ucciso nella battaglia di Abba Carima, con una istituzione, legata a suo nome, di utilità e lustro per la città di Milano; come fra le varie proposte che mi furono presentate una particolare mi sembrasse più attraente, quella del Senatore Ernesto De Angeli per un Istituto di studi superiori commerciali a cui viene dato il nome di “Facoltà Commerciale” per indicare il carattere che essa deve avere in una Università dove si impartisce una istruzione superiore». Archivio Storico dell’Università Bocconi (d’ora in poi A.S.U.B.) Busta Atto costitutivo università.

18

Cfr. Scuole superiori commerciali, in «L’Industria» del 5 agosto 1888. A questo proposito G. Longoni (Una fonte per lo studio dell’imprenditoria milanese: «L’Industria». Rivista tecnica ed economica illustrata, in «Archivio Storico Lombardo», 1985, p. 255) osservava: «Un altro indirizzo di studi che attira ben presto l’attenzione de “L’Industria” è quello delle scuole commerciali. L’occasione inizialmente è offerta dal progetto di fondare a Milano una Scuola superiore per il commercio, che completi, analogamente a quanto avviene per quella di ingegneria, l’istruzione offerta dalle scuole tecniche e dagli istituti secondari. In questo campo è ancor più chiaramente avvertito il bisogno di dare priorità alla formazione di “capitani del nostro movimento commerciale”. Non che vi sia abbondanza di quadri intermedi, ma è dei “buoni condottieri” che si avverte particolare scarsità, soprattutto se si opera il confronto con i paesi europei che hanno dato maggior impulso a tale ramo, anche al fine di incrementare le correnti di scambio con l’estero».

19

Sul dibattito che si aprì in città intorno al progetto – che oltre De Angeli, allora presidente della Camera di commercio, vide in prima fila Giuseppe Colombo, Giovanni Battista Pirelli e alcuni dei più qualificati esponenti del collegio milanese dei ragionieri – vedi supra p. 22 e ss.

20

F. Bocconi, Per un istituto, cit.

21

Questa frase non risulta dal testo pubblicato su «Il Sole».

22

F. Bocconi, Per un istituto, cit.

23

Che questa fosse l’intenzione di Ferdinando Bocconi è comprovato anche dall’annuncio che Giovanni Maglione, che in seguito avrebbe tenuto i corsi di ragioneria alla Bocconi, fece ai partecipanti al VII congresso internazionale per l’insegnamento commerciale riuniti a Venezia nel maggio del 1899 della imminente costituzione a Milano di una «facoltà commerciale»: «Nell’ambito dei rapporti fra istituti secondari e istruzione superiore, è bene che si sappia che si sta costituendo a Milano una Scuola Superiore di Commercio che sarà completamento delle scuole commerciali di grado secondario. Preparerà capitani delle imprese commerciali; designo al congresso i nomi di Alberto Weill-Schott e Ferdinando Bocconi che per la fondazione della Scuola Superiore di Commercio elargirono L. 60.000 il primo e 400.000 il secondo» (cfr. Atti del VII Congresso Internazionale per l’Insegnamento Commerciale, Venezia 1900). In realtà Maglione metteva insieme due iniziative ben differenti, essendo quella di Weil legata alla precedente ipotesi messa a punto dal collegio dei ragionieri nel 1891, anche se, come ricorda Enrico Decleva, l’organo collegiale auspicava che la somma in questione «andasse ad incremento dell’opera del cav. Bocconi».

24

L’art. 1 dello Statuto della «Facoltà commerciale L. Bocconi» così recitava: «Nella sede del R. Istituto Tecnico Superiore di Milano è fondata, per opera del comm. Ferdinando Bocconi, ed in memoria del figlio Luigi, una facoltà commerciale…». A commento dell’art. in questione si osservava: «Le parole “nella sede del R. Istituto Tecnico Superiore di Milano” stanno ad indicare l’intima connessione fra questo Istituto e la Facoltà Commerciale, connessione immaginata a beneficio di entrambe le istituzioni. Il R. Istituto Superiore potrà offrire ai suoi allievi l’opportunità di attendere ad alcuni corsi della Facoltà Commerciale e di formarsi così una coltura che sia loro poi di valido aiuto nell’esercizio delle industrie, le quali oggi domandano, non solo una forte istruzione tecnica, ma anche larghe cognizioni delle discipline commerciali. La Facoltà d’altro canto trae beneficio dei locali che il R. Istituto Tecnico Superiore pone gratuitamente a disposizione sua, si vale per alcuni insegnamenti dell’opera di professori dello stesso istituto i quali consentano a dar lezione anche nella Facoltà Commerciale e deriva lustro e autorità infine dalla intimità dei rapporti con la scuola di ingegneri di fama mondiale».

25

«Per giovani che aspirino ad entrare nella carriera consolare o in qualunque ufficio governativo, per altri che desiderino acquistare titoli di docenza e in generale una graduazione ufficiale, le altre Scuole esistenti in Italia hanno già una organizzazione adatta» (cfr. Per un istituto superiore, cit.). Nella lettera accompagnatoria allo statuto del 1899 si osservava, sottolineando il carattere universitario dell’istituto: «E Università vuol essere la Facoltà Commerciale non solo per il modo con cui sono reclutati i suoi allievi, ma anche per il carattere dell’insegnamento che vi è impartito: insegnamento superiore il quale permetta ai giovani di acquistarsi quel corredo di cognizioni tanto indispensabili oggi per chi organizza il lavoro sia di una fabbrica, sia di una azienda agraria, di una casa di trasporti, di una compagnia di assicurazioni, di una banca, di un grande magazzino di vendite, di una casa di esportazione e via discorrendo: insegnamento superiore il quale tenda, in una parola, a preparare gli allievi piuttosto che alle ordinarie carriere amministrative e commerciali, alla direzione economica delle aziende e degli affari, al cui sviluppo si connettono il progresso e l’espansione nazionali».

26

A questo proposito nella «parte economica» del numero 26 de «L’Industria» si osservava (e l’ispiratore o l’estensore di questo scritto non poteva che essere De Angeli): «Si veda adunque quale strada c’è da percorrere da noi che abbiamo tre sole scuole tanto poco frequentate (nelle righe precedenti si accennava al fatto che le scuole superiori di commercio dell’impero tedesco ammontavano a 55 con 5681 frequentanti). Quella specie di stasi degli istituti di Venezia, Genova e Bari non ha ritratto il Bocconi dall’attuare il progetto che gli era presentato. Egli ha avuto ragione di non dubitare nemmeno per un istante che a Milano una scuola di commercio potesse avere florida vita. Qui non fanno ombra preconcetti che altrove ostacolano lo sviluppo di istituzioni simili. Per buona fortuna a Milano si è abituati a curar più la sostanza che certe fallaci apparenze. Ai titoli accademici si annette meno importanza che altrove, e non c’è disdegno per le occupazioni industriali e commerciali. E il bisogno di giovani colti e intelligenti è vivamente sentito dai capi delle aziende, quali non facilmente trovano persone di fiducia su cui riversare una parte delle numerose e svariate responsabilità loro. Non è detto – come un egregio professore della scuola di Bari (l’allusione a Maffeo Pantaleoni è evidente) sembra ritenere – che debbano frequentare gli istituti superiori di commercio solo i giovani che saranno chiamati ad altissime posizioni. È forse che tutti gli studenti delle facoltà giuridiche sperano di diventare illustrazioni del foro, e tutti gli allievi delle scuole d’ingegneri direttori di vasti stabilimenti? La grandi case commerciali e industriali non poggiano per intero sull’ingegno e l’operosità di un uomo solo. Il direttore o capo deve fare assegnamento altresì sulla cooperazione di numerosi impiegati… È una burocrazia assai più mobile, meno paralizzata da leggi e regolamenti che quella dello Stato, delle provincie e dei comuni. Gli ingegni vi si affermano più liberamente; le carriere sono più rapide e brillanti. E questo lo si vede e lo si sa in una città come Milano che accentra l’attività di tante aziende. Un’istituzione pertanto che si proponga di educare seriamente i giovani destinati ad entrare in questa burocrazia ha la certezza del successo» (cfr. Il nuovo Istituto superiore di commercio, in «L’Industria», cit., n. 26, 1898, p. 405 e s.).

27

Per un Istituto Superiore, cit. Un discorso non molto dissimile da quello coevo riportato in una Memoria della R. Scuola Superiore di Bari, secondo cui: «La scuola… che educa il futuro reggitore delle grandi aziende, il cooperatore dello sviluppo economico d’un intero paese, è istituzione che prepara una mente, che illumina e allarga uno spirito, ben più che foggiare un pratico esecutore. In questo intendimento essa adopera i mezzi adatti ad aprire e irrobustire un intelletto e, pur facendogli partitamente conoscere con insegnamenti tecnici l’ambiente pratico in cui la sua attività è destinata a svolgersi, dirige soprattutto i suoi sforzi a mettere il futuro mercante in possesso di quel capitale di elevata cultura, che è conditio per ben afferrare e meglio risolvere i problemi economici dell’epoca nostra». Cit. in M. Augiello e M. Guidi, I «politecnici del commercio», cit. p. 343.

28

Cfr. Per un Istituto superiore, cit., pp. 390-391 o Lettera del prof. Giuseppe Colombo ff. di Direttore dell’Istituto Tecnico Superiore di Milano a Ferdinando Bocconi (29 maggio 1898, riportata su «Il Sole» del 12 giugno 1898). Colombo chiudeva la sua lettera con queste parole: «Io mi porgo a di Lei disposizione per gli studi preliminari, e La accerto che, per tutto quanto concerne la mia partecipazione nella qualità di Direttore dell’Istituto Tecnico Superiore, io farò ciò che le mie forze e le mie attribuzioni mi consentiranno, perché le di Lei idee abbiano la più completa e la più efficace attuazione. Come Milano riconoscente rammenterà sempre il nome di Carlo Erba, che istituì presso l’Istituto Tecnico Superiore la scuola speciale di elettrotecnica, così riunirà d’ora innanzi in un unico sentimento di gratitudine il nome Suo e quello di Suo figlio, alla cui nobile memoria Ella non poteva rendere un più nobile tributo».

29

Cfr. Sulla Scuola Superiore di Commercio in Milano, «Il Sole» del 15 giugno 1898. Rifacendosi a concetti già espressi nella lettera di Ferdinando Bocconi, l’articolo così continuava: «Ma è un pensiero sopratutto benefico e pratico. Imperocché i padri di famiglia si trovano sempre in angosciosa alternativa quando devono avviare i loro figli, licenziati dai licei, a studi superiori che li abilitino all’esercizio d’una professione proficua. Farne degli avvocati, dei medici, dei professori, dei magistrati? Equivale a farne o degli spostati, o dei malcontenti, o degli spiantati. Farne degli impiegati? Ancor peggio, perché il travettismo inaridisce le fonti della vita privata e pubblica. Farne dei commessi, dei procuratori commerciali? Molte tradizioni domestiche, molti pregiudizi sociali, dei quali bisogna tener conto, sono un grande ostacolo a questa carriera. Farne dei commercianti, o degli industriali? La concorrenza esige grandi capitali, che solo a pochi è dato di possedere. La scuola Bocconi offre una nuova splendida via per l’avvenire della gioventù operosa. Essa rilascierà un titolo, o una laurea che sarà garanzia che il giovane conosce la vita economica, la lingua dei paesi più importanti, che sa di chimica e di merciologia, di geografia commerciale, di diritto commerciale, industriale e marittimo, di legislazione doganale e ferroviaria, di banche, di assicurazioni e di tecnica del commercio; e così può entrare in qualsiasi Casa di commercio, in qualsiasi fabbrica, o anche impresa agricola con ricco corredo di cognizioni tecniche e pratiche».

30

Sui consensi ottenuti dall’iniziativa sulla stampa milanese vedi supra p. 49 e ss.

31

Statuto, cit.

32

Mette conto che, dal documento citato alla nota precedente, si estragga e sia qui riportato un brano oltremodo significativo: «Il concetto dell’autonomia, colle opportune limitazioni stabilite dallo statuto, è suggerito da diverse circostanze. Anzitutto la facoltà non mira a dare graduazioni ufficiali che necessitino di un’efficace e continua sorveglianza governativa; ma semplicemente un diploma che abbia quel valore morale che deriverà dall’autorità e dal prestigio che l’istituzione avrà saputo guadagnarsi. In secondo luogo la facoltà risponde specialmente al bisogno locale, di una regione dove i traffici hanno assunto proporzioni grandiose; essa vuole perciò essere controllata da organi locali e governata da persone che, per il loro contatto col mondo degli affari o per una speciale loro conoscenza delle discipline commerciali, siano in grado di bene interpretare le esigenze sempre mutevoli di questo mondo mercantile, scegliere i professori, formulare programmi in armonia collo scopo pratico della scuola. In terzo luogo, infine, la facoltà, dovendo fare assegnamento sul concorso di enti e di associazioni locali, deve avere movenze libere, tali da richiamare questo concorso, da non affievolire le forze che da diverse parti possono contribuire alla prosperità sua».

Commentando questo passaggio «L’Industria» osservava: «Il concetto dell’autonomia della facoltà commerciale è espresso nell’art. 5. Non mirando a dare ai giovani graduazioni ufficiali, le quali richiedano una garanzia governativa, rispondendo specialmente ai bisogni di una regione ove i commerci hanno preso rigoglioso sviluppo, e sentendo perciò la necessità di essere controllata da enti locali e governata da persone «che per il loro contatto col mondo degli affari e per una speciale conoscenza delle discipline commerciali siano in grado di bene interpretare le esigenze sempre mutevoli di questo mondo mercantile»; dovendo infine fare assegnamento sul concorso di enti e di associazioni locali, la Facoltà commerciale deve avere quella libertà di movimenti che, secondo dice il fondatore, saprà tenere vive le forze che da diverse parti possono contribuire alla prosperità sua». La facoltà commerciale Luigi Bocconi, in «L’Industria», n. 24, 11 giugno 1899.

33

Cfr. «Corriere della Sera» del 6 maggio 1899 e R. Istituto Tecnico Superiore i Milano, Cenni storici. Programma. Anno 1899-1900, Milano 1900, p. 8. Sulle polemiche suscitate dai requisiti richiesti nel bando di concorso in questione e sulla composizione della commissione esaminatrice cfr. La facoltà commerciale, cit. p. 369.

34

Nell’archivio della Bocconi si trovano conservate le domande e i curricula di diversi professori che ambivano alla direzione della scuola; fra questi Carlo Gondio Cattaneo, docente di economia politica; Eteocle Lorini, docente di economia politica (raccomandato da Sidney Sonnino e Carlo Belgiojoso); Ottorino Luxardo, docente di merceologia e di tecnica commerciale (preside dell’Istituto tecnico e nautico Paolo Sarpi di Venezia); Carlo Oddi, docente d’economia, diritto e statistica nell’Istituto tecnico A. Lorgna di Verona; Raimondo Rossi, docente di economia politica e legislazione nella Scuola di commercio di Bellinzona (raccomandato dall’ing. Adolfo Foscarini); Cesare Strazza, docente di banco modello nella Scuola superiore di commercio di Bari (raccomandato dal conte on. Andrea Sola Cabiati e dall’arch. Augusto Guidini); Antonio Solimani, docente di economia politica nell’Istituto tecnico di Ferrara; Pietro Sitta, docente di economia politica nell’Università di Ferrara. «Presentazioni» di varia provenienza sono allegate anche alle non poche domande pervenute da coloro che ambivano ottenere un insegnamento nella scuola in fieri. A titolo esemplificativo, ricordiamo il nome di qualcuno di codesti «richiedenti»: Antonio Cases di Venezia per l’insegnamento del «banco modello»; Ignazio Dall’Oro per il diritto industriale; Enrico De Montel, professore di matematica finanziaria nella R. Scuola Superiore di Bari, per la «scienza degli attuari»; Vittorio Manfredi di Milano per il greco moderno; Luigi Pavia per «letteratura italiana, tedesca, francese e inglese»; Pompeo Piceni di Milano per «lingue straniere»; Paolina Schiff, dell’Università di Pavia, per il solo tedesco (A.S.U.B., buste 281/1-7).

35

Pietro Sitta, economista dell’Università di Ferrara, così scriveva a Colombo in data 28 febbraio 1900: «Illustre Sign. Professore, le son grato della fattami comunicazione. La scelta del prof. Pantaleoni onora altamente la commissione, ed onora ancor più la scuola, che non potrebbe sorgere sotto miglior auspicio. Il prof. Pantaleoni è un grande maestro fra i vari cultori dell’economia politica, è un coraggioso scienziato, in questi tempi di transizione sa tenere ben alta e far vittoriosamente sventolare la bandiera immacolata della libertà economica. È il degno continuatore di quella scuola gloriosa che ebbe nel compianto Ferrara il più grande ispiratore in Italia, e son certo che la Scuola di Milano avrà in lui il primo elemento della sua immancabile prosperità. Se avessi saputo che fra i concorrenti si presentava un sì insigne maestro, non avrei neppure presentato la mia domanda, perché è temerario con sì modesti titoli concorrere con chi all’estero più che nel proprio paese, ha saputo far rifulgere di sì vivida luce la stella della scienza economica italiana».

Con toni meno plaudenti, e forse con una punta di sarcasmo, così si era espresso due mesi prima (22 dicembre 1899) Cesare Strazza: «… In questi ultimi giorni ho letto nel “Sole” di Milano e nella “Tribuna” di Roma due articoli che trattano appunto del concorso stesso, della scelta del Pantaleoni, che successe a me a Bari come direttore di quella regia Scuola Sup.re di Commercio, e delle dichiarazione-rettifica dell’illustre senatore Boccardo confermante la scelta, da parte sua, del Pantaleoni al posto di preside e prof. di economia nella futura facoltà nella nostra Milano. A quanto pare, dunque, qualcosa è stato fatto – e certamente la scelta, come scienziato, del mio successore a Bari alla alta carica della Facoltà commerciale Bocconi non potrebbe suscitare proteste da nessun altro dei concorrenti» (A.S.U.B. Buste 281/7 e 291/3).

36

G. Busino, L’Italia di Vilfredo Pareto. Economia e società in un carteggio del 1873-1923, Milano, 1989, p. 415.

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Giusto in quello scorcio di tempo il Pantaleoni, che insegnava all’Università di Ginevra, venne invitato ad animare un pubblico dibattito, organizzato dal prof. Adrien Naville (preside della sua facoltà e suo grande estimatore) intorno al ruolo dell’insegnamento commerciale nelle società moderne e alla necessità di riformare l’insegnamento delle discipline economiche nei cenacoli universitari. Togliamo a prestito dal citato lavoro del Busino, un brano che ci sembra riveli appieno il pensiero dell’economista maceratese: «oratore principale in tale dibattito fu il Pantaleoni, il quale cominciò il suo intervento col dire che era perfettamente inutile dimostrare la necessità d’un insegnamento superiore delle scienze sociali. Per formare i grandi commercianti, gli amministratori delle società anonime, i banchieri è necessario disporre di scuole specializzate. Contrariamente alle altre professioni, quella del commerciante e d’uomo d’affari non dispone se non di scuole secondarie. L’insegnamento superiore delle scienze commerciali è praticamente inesistente in Svizzera, paese di traffici e di commerci. Le necessità della vita moderna impongono che un tale insegnamento sia al più presto organizzato e, se possibile, nelle università. Le cattedre già esistenti dovrebbero essere utilizzate a questo scopo ed intorno ad esse andrebbero organizzati gli insegnamenti più specializzati e avanzati. I corsi di laurea in scienze commerciali e sociali non dovrebbero solo formare degli studenti; essi dovrebbero divenire un centro di riflessione e d’informazione per tutti gli operatori economici. L’ufficio studi e ricerche di questi corsi di laurea potrebbe fornire informazioni utili grazie ai contatti stabiliti con organismi similari all’estero, grazie ai rapporti coi “consuls et les négociants établis à l’étranger, et par une exposition permanente d’échantillons et produits divers, de modèles, etc. Genève aurait ainsi un laboratoire mis à la disposition du public. Une telle création rendrait de grands services et travaillerait utilment à prévoir et à diminuer l’ampleur des crises économiques…» (G. Busino, L’Italia di Vilfredo Pareto, cit., pp. 403 e ss. e cfr. L’enseignement supérieur du commerce, in «La Suisse universitaire», 28 febbraio 1898). Quanto ai pensieri e ai propositi coltivati dal Pantaleoni in codesto ambito si veda: M. Pantaleoni, Relazione sui servizi della R. Scuola Superiore di Commercio in Bari, presentata dal Direttore al Presidente del Consiglio, Bari, 1888.

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Leopoldo Sabbatini, nell’elaborare il «Preventivo di spese occorrenti per l’impianto ed il funzionamento di un Istituto di alti studi commerciali in Milano» (A.S.U.B. Busta Atto costitutivo Università), ci ragguaglia su alcuni elementi che avrebbero potuto condizionare in questa direzione la scelta di Pantaleoni. Discorrendo dell’onorario da attribuirsi ai futuri professori ordinari della Bocconi egli proponeva che lo stipendio fosse almeno commisurato a quello pagato nelle Regie Università; e non solo: «Noi crediamo anzi che non sarebbe prudente limitarsi allo stesso stipendio, perché vi sono altre circostanze d’ordine morale ed economico che concorrono a dare grande prestigio al grado di professore universitario nelle Università di Stato, e che qui farebbero in gran parte difetto: la dignità dell’ufficio pubblico, le prerogative annesse, ad esempio per l’esercizio dell’avvocatura, per la nomina eventuale a consiglieri di cassazione, a consiglieri di Stato, a senatori, ecc.; l’inamovibilità dalla carica e dal luogo; l’orario d’insegnamento infinitamente limitato, infine altri vantaggi speciali, come incarichi governativi per studi, per decisioni di concorsi, ecc.; le facilitazioni ferroviarie e simili. Tutte queste circostanze secondarie, ma nel complesso importanti, debbono essere tenute presenti se si vuoi offrire ai professori del nuovo istituto posizione economica tale che essi non si sentano indotti – da ragioni economiche o morali – a passare, ciò che ai migliori riesce sempre agevole, alle università di Stato». In realtà anche Pavia non sarebbe divenuta sede dell’irrequieto economista marchigiano che, solo nell’aprile 1901, sarebbe stato chiamato all’università di Roma. Cfr. G. Busino, L’ltalia di Vilfredo Pareto, cit., p. 425.

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Cfr. G. Busino, L’Italia di Vilfredo Pareto, cit., p. 416. Busino ci informa che Pantaleoni venne eletto deputato del collegio di Macerata, con l’aiuto determinante del partito socialista con 1494 voti (contro 1371 del candidato governativo). Chiusasi pochi mesi dopo la XX legislatura, Pantaleoni venne nuovamente eletto nella XXI, ma ben presto tutta una serie di contrasti sorti tra l’irrequieto economista e il partito che l’aveva sostenuto fecero sì che egli rassegnasse le dimissioni e se ne tornasse ad insegnare a Ginevra.

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«Il Sole» del 12 dicembre 1899.

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Mette conto di riportare qui alcuni passaggi dell’articolo in questione. Denunziato il protrarsi dei lavori della commissione giudicatrice e le voci di probabili dissapori tra i membri della stessa, l’articolista proseguiva «… fra i concorrenti si era presentato un illustre professore d’economia politica che gli stranieri chiamarono ad una delle loro università più celebri e che aveva dato prova in un ufficio grave di grande perspicacia e di grande energia. Ma gli sarebbero state proposte condizioni che la sua dignità di scienziato non gli permise di accettare. La cosa non pare credibile. Eppure è raccontata come vera. Si sarebbe preteso che il direttore della Facoltà Bocconi avesse a sconfessare talune sue idee liberistiche e si votasse al verbo protezionista, o quanto meno si astenesse dal combatterlo. Qui non c’entra la disputa grave fra le due opposte teorie e i due opposti sistemi; qui ha importanza solo la qualità dell’indirizzo che si deve dare ad una scuola, che ha per scopo l’alta cultura commerciale e industriale, la quale, come abbiamo già detto, mira a diventare una specie di università, un istituto superiore pari al Politecnico e all’Accademia scientifico-letteraria e simili… ma la libertà di opinioni, di convinzioni, di insegnamento e l’imparzialità, la serenità, l’oggettività della scienza e l’indipendenza intellettuale del docente e dei discenti non sono forse condizioni essenziali anche per un istituto di tale specie? E il protezionismo deve proprio avere l’ossequio perpetuo e cieco dei dogmi religiosi, e la sua bontà, la sua efficacia sono proprio indiscutibili ed eterne? E se esso può valere come espediente di difesa commerciale e industriale di carattere provvisorio, perché si pretende di assoggettare, di incatenare ad esso tutto un insegnamento? E il dubbio che questo asservimento scientifico non trasformi una scuola d’ordine superiore in un organo, in un istromento d’interessi particolari, non è tale da allontanare subito da quella scuola la simpatia e l’appoggio dell’opinione pubblica. Noi vorremmo che non fosse vero il fatto, così come si racconta, perché noi abbiamo salutato con entusiasmo la grande iniziativa di Ferdinando Bocconi, comprendiamo che se essa non si volgesse libera e sciolta da ogni pregiudizio, da ogni vincolo, da ogni pastoia di interessi più o meno unilaterali, sarebbe sin dal principio nell’impossibilità di consentire tutto quel bene intuito dalla mente e dal cuore del suo fondatore, e Milano e l’Italia verrebbero private di una nuova, grande istituzione».

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V. L. Sabbatini, Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Milano. Pubblicate per cura della Camera di Commercio di Milano e della Direzione Generale di Statistica, Milano, 1893. Sull’importanza di questo saggio, come fonte storica, cfr. F. Della Peruta, Milano. Lavoro e fabbrica, 1815-1914, Milano, 1987, pp. 63 e ss.

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La parte più antica della biblioteca dell’università Bocconi è il frutto di una donazione della Camera di Commercio di Milano. Nello scaffale segnato K IV si conserva un vero e proprio patrimonio di volumi, memorie e opuscoli dedicati ai problemi dell’insegnamento commerciale in Europa, negli Stati Uniti e in America del sud, inviati a Sabbatini o da lui fatti acquistare (e spesso dallo stesso chiosati a margine). Si tratta sicuramente dei materiali ai quali egli ricorse per predisporre il progetto bocconiano e per elaborare in seguito la relazione che avrebbe presentato all’VIII congresso internazionale per l’insegnamento commerciale, tenutosi in Bocconi nel 1906.

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Si deve, in effetti, rendere omaggio alla coerenza di Sabbatini e alla lungimiranza di una parte dell’imprenditoria milanese se il segretario della Camera di commercio riuscì a conquistare sì largo seguito a livello locale e nazionale, senza mai tradire quella fede nel progresso e nella democrazia che aveva maturato già nella sua prima giovinezza. A sintetizzare i suoi ideali vale la pena di riportare alcuni stralci del programma col quale Leopoldo Sabbatini presentò la sua candidatura alle elezioni politiche del 7 marzo 1909 nel collegio di Camerino: «Il dott. Leopoldo Sabbatini ha temprato il suo forte carattere nell’ambiente politico ed economico di Milano… Là, per oltre un quarto di secolo, egli ha portato contributo notevolissimo di pensiero e di azione alla costituzione ed allo svolgersi delle forze democratiche. Con fede immutata, egli ha dato opera vigile e assidua – anche quando più imperversava la reazione – per il trionfo degli ideali di civiltà, di libertà, di progresso, a cui ha votato tutto se stesso. Là, a Milano, dove pulsa il cuore della vita economica del Paese, ed ora in Roma ove risiede, nel centro della vita politica… si è fatta coscienza in lui la necessità di un rinnovamento politico e legislativo che assicuri il libero sviluppo delle sane energie della Nazione; ora contrastato da tradizioni e da ordinamenti non più conformi alle esigenze del presente, alle aspirazioni dell’avvenire. Egli vuole, in chi governa, più saldo sentimento nazionale di fronte ai grandi problemi della vita internazionale. Egli vuole che lo Stato tenda, con ogni sforzo, come a principalissima meta, al progressivo e rapido elevamento morale e materiale del popolo. Egli vuole che sia virilmente contrastata, nel rispetto di tutte le fedi, l’invadenza d’ogni influenza confessionale negli ordinamenti politici e amministrativi, e nella scuola. Egli vuole che ogni cura sia data a risolvere senza indugi e senza esitanze, nel vantaggio delle classi lavoratrici, i problemi sociali che la coscienza contemporanea ha maturati. Egli vuole, infine, che – pur nella suprema preoccupazione degli interessi generali del Paese – i poteri pubblici diano soddisfazione alle legittime aspirazioni delle singole regioni, nel pieno convincimento che la prosperità della Nazione è in istretto e diretto rapporto con il benessere delle singole parti d’Italia». Cfr. Il dott. Leopoldo Sabbatini proclamato candidato dei partiti popolari, in «Chienti e Potenza. Periodico settimanale camerinese», 18 febbraio 1909. Per una idea sintetica, ma precisa, della ideologia e degli ideali di Leopoldo Sabbatini si veda: Il discorso programma del dott. Leopoldo Sabbatini candidato dei partiti popolari pronunciato al teatro Marchetti di Camerino domenica 28 febbraio 1909, in «Chienti e Potenza» del 10 marzo 1909. È il caso di ricordare che Sabbatini uscì sconfitto dalle elezioni in questione. Egli ottenne 1142 voti nella prima tornata del 7 marzo e 1434 nella seconda del 14 marzo, contro rispettivamente 2036 e 2609 di Cesare Sili «uscente deputato di Camerino» («Chienti e Potenza» del 12 marzo 1909) e rappresentante degli interessi del conservatorismo agrario della zona.

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Vedi supra, p. 59.