Storia della Bocconi

1902-1915. Gli esordi

Gli studenti e i loro destini (1902-1914)


Parole chiave: Presidente Sabbatini Leopoldo, Camera di Commercio, Milano, ALUB

Nella febbrile Milano di fine Ottocento, epicentro di un processo di sostenuto sviluppo demografico, economico e sociale, il progetto di Ernesto De Angeli, fatto proprio da Ferdinando Bocconi, ambiva ad istituire una scuola in cui le moderne tecniche commerciali e contabili potessero essere apprese soprattutto da quei giovani del capoluogo e delle altre città della regione che desideravano entrare da protagonisti nel mondo degli affari dopo essersi appropriati di una «superiore cultura»[1]. Le modifiche e gli arricchimenti apportati al primitivo disegno da Leopoldo Sabbatini, come si è avuto modo di vedere, collegando la cultura scientifica con le discipline professionali, gettarono un ponte fra la preparazione teorica, indispensabile a penetrare la crescente complessità e varietà delle attività economiche, e quelle solide basi tecnico-professionali più tradizionali altrettanto indispensabili per un appropriato esercizio delle attività commerciali ed industriali. Con l’elevare l’Economia politica e le altre discipline economiche affini a perno del curricolo degli studi, accentuando nel contempo l’originalità della Bocconi rispetto alle tre Scuole superiori di commercio allora esistenti, Sabbatini ebbe l’ambizione di farne una istituzione educativa di livello universitario a carattere nazionale[2].

Un modo efficace per giudicare del successo arriso al nuovo istituto milanese, divenuto operante a partire dall’autunno del 1902, è senz’altro dato dalla misura del ritmo e dell’entità dello sviluppo tenuto dal suo corpo studentesco fino alla vigilia della guerra europea; sviluppo che va anzitutto considerato in rapporto con quello delle tre Scuole di commercio, come s’è visto attive in Italia fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Conviene poi valutare la dinamica delle iscrizioni alla Bocconi in controluce sia col contemporaneo andamento complessivo della popolazione universitaria italiana, sia con le vicende delle facoltà di Giurisprudenza e di Ingegneria: i due indirizzi accademici per così dire contigui al curricolo di Economia e commercio. Fra Otto e Novecento, infatti, i laureati in legge spesso entravano nei consigli di amministrazione delle società anonime, così come gli ingegneri erano preposti alla direzione dei sempre più numerosi e poderosi stabilimenti industriali.

Volendo considerare più da vicino l’esperienza bocconiana, mette conto poi che si accerti anche se il primo corso di laurea italiano in Economia fin dal principio[3] sia giunto a realizzare la propria vocazione nazionale associando, ai giovani che vi convennero dal capoluogo e dalle altre provincie lombarde, allievi approdati nella tumultuosa Milano d’inizio secolo da molte parti del paese e dall’estero. Oltre ai flussi delle iscrizioni, alle provenienze geografiche degli studenti e alla loro cultura di base, è interessante accertare i livelli di selettività degli studi e le frequenze delle lauree. Per renderci ben conto del genere di interessi coltivati dai docenti passeremo in rassegna anche i temi affrontati negli esami di laurea. Gli status sociali delle famiglie d’origine dei bocconiani raffrontati coi destini delle loro carriere personali ci permetteranno di conoscere gli esiti dei processi di promozione sociale che spalancarono a molti di loro le porte della classe dirigente. Nell’insieme, questo genere di indagini e di verifiche consentirà di rispondere ad un duplice quesito: l’università milanese giunse a svolgere appieno l’ambizioso ruolo educativo che il suo primo rettore aveva inteso affidarle? I suoi laureati si inserirono nel mondo economico nazionale in posizioni elevate ed in settori nei quali poterono realizzare la missione inizialmente loro additata dal rettore: di cooperare cioè al rinnovamento economico del Paese?

Per rispondere adeguatamente ai molti quesiti appena enunciati dovremo far ricorso alla statistica storica. Pertanto, la scelta delle informazioni di cui valerci risulta decisiva. I dati che utilizzeremo in questa parte della ricerca provengono da fonti edite per ciò che riguarda le Scuole superiori di commercio e le facoltà universitarie in generale[4]. Quanto alla Bocconi, essi sono stati desunti dai grossi volumi matricolari in cui il curricolo di ogni studente è dettagliatamente registrato, dal momento dell’iscrizione al giorno della discussione della tesi[5]. Lo scompiglio gettato anche fra i bocconiani dall’intervento italiano nella guerra europea consiglia di limitare l’indagine alle immatricolazioni effettuate entro la fine del 1914. Avremo così modo di osservare i destini di oltre un migliaio di giovani approdati all’università milanese fra l’anno dell’inaugurazione e la vigilia dell’entrata italiana in guerra: una popolazione, per dirla con gli statistici, senz’altro sufficiente per permetterci di sceverare talune regolarità nei caratteri della compagine studentesca e, insieme, di cogliere il profilarsi di mutamenti intervenuti al suo interno sull’arco del primo tredicennio di vita dell’istituzione.

La dinamica delle iscrizioni e la provenienza geografica degli allievi

Nell’autunno del 1902, l’avvìo dell’attività didattica bocconiana coincise con l’inizio di un decennio improntato, in Italia, alla stagnazione della popolazione universitaria; quasi che i ripetuti appelli a disertare le aule degli atenei per non aggiungere disoccupati intellettuali ai molti già esistenti, in uno con gli inasprimenti delle tasse universitarie, avessero ottenuto di rallentare la corsa alla laurea. Una dettagliata ed esauriente ricerca edita nel 1913 da C.F. Ferraris[6], il massimo esperto all’epoca di statistiche dell’istruzione superiore, si presta egregiamente per condurre un esame comparato della dinamica delle iscrizioni alla Bocconi in controluce rispetto a quella dell’intero mondo universitario italiano e di alcune facoltà in particolare, con le quali, come si è accennato sopra, è utile stabilire un qualche raffronto.

Per cominciare, tuttavia, conviene comparare le serie storiche degli iscritti alle tre scuole superiori di Venezia, Genova e Bari[7] con quella degli studenti dell’università commerciale milanese, in modo da accertare se nelle quattro sedi italiane di istituzioni educative volte a trasmettere la cultura economica assieme alle tecniche commerciali e contabili, fra il 1902 e la vigilia della grande guerra, gli studenti si affollarono dovunque allo stesso modo.

I dati mostrano con sufficiente chiarezza non solo che presso la facoltà economica milanese la popolazione studentesca conobbe la dinamica più sostenuta, ma anche che, per lo meno fino alla vigilia della grande guerra, il suo sviluppo fu il più armonioso. Presso le altre scuole, infatti, le frequenze degli iscritti conobbero flessioni più o meno consistenti e durature lungo i primi tre lustri del XX secolo.

 

Figura 2 Iscritti alle tre Scuole superiori di Commercio e all’Università commerciale «Luigi Bocconi» di Milano (1902-1914), indici con base 100 nel 1902.

Figura 4.2

Per misurare il peso relativo degli allievi dell’indirizzo di studi economico-commerciale all’interno del mondo universitario italiano e per raffrontarne la rilevanza con quelli delle facoltà di Giurisprudenza e Ingegneria, abbiamo costruito un grafico che riunisce i dati del periodo 1902-1910, per il quale disponiamo di informazioni comparabili[8].

 

Figura 3 Iscritti alle Scuole superiori di commercio e alla Bocconi (Economia) in raffronto con l’insieme degli studenti universitari in ltalia e con gli iscritti delle facoltà di Giurisprudenza e Ingegneria (1902-10).

Figura 4.3

Le dinamiche messe in luce dal calcolo degli indici con base nell’anno 1902 appaiono quanto mai suggestive. Intanto vale la pena di notare che, mentre la popolazione universitaria italiana nel complesso ristagnava, durante il primo decennio del Novecento gli iscritti alle 21 facoltà giuridiche crebbero di oltre un terzo. Con ritmo ancora più sostenuto aumentò però anche il numero degli studenti dei corsi economico-commerciali e di quelli che seguivano studi di ingegneria civile e industriale[9]. Dagli inizi del XX secolo, insomma, nel mondo dell’istruzione superiore italiana cominciò a crescere il peso di quei giovani che, ottenuta la laurea, avrebbero esercitato funzioni legate alle attività produttive e di servizio tanto nel mondo dell’imprenditoria privata, quanto nel settore pubblico centrale e periferico[10]. Altrettanto significativa appare la sostanziale stabilità lungo il primo decennio del Novecento nel rapporto di uno a tre fra allievi di corsi a carattere economico-commerciale e studenti di discipline ingegneristiche, assieme alla superiore dinamica dello sviluppo delle iscrizioni dei primi rispetto a quelle dei secondi.

Quegli studiosi che si sono sforzati di rintracciare un qualche nesso fra l’avvìo di un primo circoscritto sviluppo dell’economia industriale italiana, intervenuto fra il 1896 e la vigilia della grande guerra, e l’evoluzione del numero dei laureati e dei tipi di laurea, hanno talvolta scambiato le cause per le conseguenze. In altre parole: l’inizio di una prima trasformazione in senso capitalistico delle attività agricole e manifatturiere, coincidendo con una fase di slancio dei commerci interni ed internazionali, alla lunga stimolò una crescente folla di giovani ad intraprendere studi nei campi dell’ingegneria, della chimica, dell’economia e delle tecniche commerciali. Una espansione senza precedenti delle attività primarie, secondarie e terziarie fu pertanto all’origine di una consistente crescita di iscrizioni a quei corsi di laurea, come Economia e commercio e Ingegneria, che addestravano i giovani ad assolvere con competenza e intelligenza una crescente varietà di compiti direttivi, organizzativi ed amministrativi nelle aziende private e pubbliche dell’Italia giolittiana. Del resto, la prova che la congiuntura economica arrivava a condizionare l’andamento delle iscrizioni ai corsi di laurea che avviavano all’esercizio delle professioni nel mondo della produzione e dei servizi è agevolmente rintracciabile nelle stesse serie storiche. Di fatto, la grave crisi economica del 1907, la maggiore fra quelle capitate sullo scorcio iniziale del XX secolo in Europa, sembra aver riverberato per alcuni anni le sue conseguenze nefaste persino sui ritmi delle iscrizioni alle Scuole superiori di Genova e di Bari e, seppure in misura minore, pare abbia causato una qualche diminuzione anche in quelle della Bocconi.

Avendo ben presente il significato generale dei risultati dei raffronti sin qui operati, conviene ora concentrare l’attenzione sui soli studenti bocconiani. Per cominciare, diamo un rapido sguardo alle caratteristiche di quelli entrati nelle nuovissime aule di Via Statuto a metà dell’autunno del primo anno di corso[11]. Nell’accennare ai molti problemi che dovettero essere affrontati in occasione dell’imminente apertura, Leopoldo Sabbatini chiarì che il nucleo primigenio di allievi era stato soprattutto reclutato «privatamente, sulla fiducia delle persone»[12]; vale a dire che, a parte la propaganda realizzata dal segretario di quella milanese presso le numerose Camere di commercio sparse nella penisola e a parte la pubblicità fatta dalle filiali dei Magazzini Bocconi, una rete di relazioni personali, riconducibile allo stesso fondatore, al rettore e agli altri membri del consiglio direttivo, era stata attivata per convogliare verso l’università milanese il considerevole numero di discepoli iscrittisi all’anno di corso inaugurale della prima facoltà economica italiana[13].

Vediamoli brevemente da vicino questi 63 pionieri[14]. Tre caratteristiche soprattutto li contraddistinguono: erano tutti maschi; avevano età comprese fra i 17 e i 29 anni, il che dimostra quanta attrattiva esercitasse la nuova scuola anche su allievi non più giovanissimi; provenivano da luoghi disparati, in qualche caso assai distanti da Milano. I primi iscritti erano milanesi o lombardi per più della metà (52,4%). Il 20,6% era originario delle altre regioni alto-italiane, mentre solo il 27% proveniva dal centro, dal Mezzogiorno e dalle isole. Com’era ragionevole aspettarsi, la presenza di settentrionali fra le matricole del 1902 appare schiacciante: in pratica erano tre su quattro (73%). Il passare del tempo si sarebbe incaricato di attenuare siffatta preminenza tanto che, come si vedrà meglio più avanti, entro l’inizio della grande guerra la Bocconi giunse a diversificare sensibilmente il proprio corpo studentesco richiamando un gran numero di allievi da ogni parte d’Italia e perfino dall’estero.

Alle 63 matricole del 1902 seguirono le 60 del 1903 e le 36 dell’anno successivo: il ’904, con un andamento calante forse riconducibile agli effetti della lotta ingaggiata contro l’università milanese delle tre Scuole superiori di commercio allora esistenti in Italia e, parimenti, dovuta all’incertezza del riconoscimento del valore legale del titolo di laurea, cui si sarebbe giunti solo nel 1905[15]. A partire dall’autunno di quell’anno, la tendenza s’invertì, tanto che dal 1908 in avanti le nuove iscrizioni si mantennero annualmente attorno alle cento unità. La dinamica delle immatricolazioni presso le scuole di Genova e di Bari, per le quali si hanno informazioni comparabili fino al 1914, risulta nella sostanza non troppo diversa, benché il ritmo di crescita del corpo studentesco, per l’insieme delle due sedi, risulti inferiore rispetto a quello tenuto dall’università milanese[16].

Torniamo ora ad osservare da vicino le provenienze degli studenti bocconiani. Fin dal triennio di completamento del primo ciclo quadriennale (1903-05), la geografia dei luoghi d’origine degli iscritti subì una qualche trasformazione. Anzitutto, i milanesi (22,4%) eguagliarono in percentuale gli studenti originari delle altre provincie lombarde (23%) sicché, fra i 152 iscritti degli anni 1903-5, i lombardi non arrivarono a rappresentare nemmeno la metà (45,4%). Nel corpo studentesco la perdita di peso dei giovani nativi di Milano e della Lombardia fu controbilanciata dalla crescita del numero di quelli provenienti dalle altre regioni del Nord (30,3%). Pertanto, fino a tutto il 1906, l’iniziale rapporto dissimmetrico fra giovani originari del settentrione (75,7%) e allievi provenienti dal resto d’Italia si mantenne in pratica inalterato. Rispetto ai primi duecento immatricolati, solo uno studente su cinque (20,3%) era salito a Milano dal centro-meridione d’Italia, mentre quattro ogni cento vi erano giunti addirittura dall’estero.

A far tempo dal 1906, e fino al ’14, i luoghi d’origine dei giovani bocconiani subirono una notevole metamorfosi. Basta ripartire le numerose informazioni che abbiamo in tre periodi susseguenti per poter apprezzare i diversi orientamenti presi dopo il primo quadriennio, nonché la portata dell’evoluzione profilatasi col passare del tempo.

Prima di commentare le tendenze relativamente ai luoghi d’origine dell’universo studentesco bocconiano lungo i primi tredici anni di vita dell’ateneo, mette conto che si chiariscano i principi in base ai quali sono state raggruppate le regioni di provenienza degli iscritti. In pratica, si è agito alla luce dell’esistenza di condizioni economiche di base nel nostro paese assai differenti da zona a zona. Anche ai primi del Novecento l’Italia presentava una notevole varietà di redditi medi regionali pro-capite, i cui livelli erano strettamente dipendenti dal difforme sviluppo avuto dalle attività agricole e industriali nella geografia della penisola[17]. Pertanto, oltre che sulla base della loro vicinanza geografica, si è deciso di aggregare le regioni italiane tenendo anche conto dei diversi standard di sviluppo economico e industriale attinti nel corso del primo decennio del XX secolo[18]. Procedendo in tal modo, si è giunti ad identificare nella geografia nazionale quattro vaste aree che, al loro interno, presentavano notevoli elementi di convergenza ed omogeneità riguardo ai caratteri culturali, sociali ed economici delle rispettive popolazioni.

 

Figura 4 Immatricolati all’Università Bocconi distinti per grandi aree geo-socio-economiche di provenienza in tre periodi successivi: 1902-1905; 1906-1909 e 1910-1914. Nord-Ovest comprende Liguria, Piemonte e Lombardia; Nord-Est: Tre Venezie, Trentino ed Emilia-Romagna; Centro-meridione evoluto: Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania e Puglia; Centro-meridione arretrato: Abruzzo e Molise, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Figura 4.4

Di là dalla vistosa tendenza alla crescita manifestatasi dopo il 1906, tanto che le iscrizioni negli anni immediatamente precedenti la guerra (1910-14) sfiorarono il raddoppio di quelle iniziali (1902-1905), conviene soffermarsi sull’appariscente mutamento intervenuto nella geografia del reclutamento degli allievi bocconiani per l’appunto fra il 1906 e la vigilia del primo conflitto mondiale. Nell’insieme, il risultato più rilevante delle nostre elaborazioni sembra essere dato dal consistente calo di neo-iscritti provenienti dalle aree economicamente più evolute. Ciò vale tanto per le regioni del così detto triangolo industriale, e per la stessa provincia di Milano, quanto con riferimento al meno dinamico ed arretrato settore di Nord-Est, comprendente le tre Venezie e l’Emilia-Romagna. Un allargamento dell’offerta d’istruzione superiore derivante dall’apertura, nel 1906, del Regio Istituto di Studi economico-commerciali di Torino, assieme alle crescenti fortune delle collaudate Scuole superiori di Ca’ Foscari e di Genova, non sembrano cause adeguate a giustificare un così accentuato ripiegamento delle percentuali.

In realtà, il mutamento nelle proporzioni relative fra le quattro aree individuate sembra piuttosto ascrivibile ai ben diversi ritmi intervenuti nelle iscrizioni secondo le regioni di provenienza dei giovani a far tempo dall’autunno del 1906. Quelli saliti a Milano dal centro-Italia e dal Mezzogiorno per frequentare la Bocconi crebbero da quattro a cinque volte sull’arco del decennio 1905-1914, sovvertendo in tal modo gli originari rapporti fra aree geografiche stabilitisi nel corso del primo quadriennio di attività accademica. Se a ciò si aggiunge che gli stranieri, ben presenti fin dagli inizi, non cessarono di crescere di numero, allora si può concludere che davvero l’Università commerciale ambrosiana funzionò quale polo di attrazione di molti di quei giovani – e non solo degli italiani – che ambivano a rientrare nel ceto dirigente dell’economia nazionale in una fase storica di accelerazione delle dinamiche di trasformazione delle società e della vita politica del paese[19].

Un ruolo decisivo nel promuovere la crescente presenza fra le file dei bocconiani di giovani originari delle regioni centrali, meridionali ed insulari venne svolto dalle numerose borse di studio accordate dal consiglio direttivo sulla base del bisogno e del merito. Il regolamento delle borse venne pubblicato nell’annuario bocconiano dell’anno accademico 1905-06, sappiamo però che fin dal primo anno non pochi sussidi vennero attribuiti. Del resto, già nel 1902 Ferdinando Bocconi aveva dichiarato che chiunque avesse desiderato sostenere la sua istituzione avrebbe potuto farlo solo offrendo contributi per borse di studio «in vantaggio diretto degli studenti ammessi a frequentare la sua Università». Per la maggior parte si trattava di fondi messi a disposizione da istituti di credito come la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, da amministrazioni provinciali e da Camere di Commercio. Talvolta qualche comune, specialmente nell’Italia centrale, giunse a finanziare una borsa destinata ad un giovane concittadino che frequentava la Bocconi, né mancarono fondi offerti da imprenditori o da privati mossi da spirito filantropico.

Il regista della strategia volta ad accrescere la disponibilità di fondi da destinare al sostegno degli studenti meno agiati fu indubbiamente Leopoldo Sabbatini. Egli trovò anzitutto in Ferdinando Bocconi prima e nei figli di questi, poi, una grande sensibilità e comprensione per i problemi e le difficoltà incontrate da quanti a forza di impegno personale, di intelligenza e dedizione, attraverso il successo negli studi prima e in seguito nello svolgimento della carriera professionale, cercavano di emanciparsi dalle umili condizioni originarie per poter rientrare nella eletta schiera degli intraprendenti «homines novi» che avrebbero contribuito a forgiare la «nuova Italia» industriale. Didier Musiedlak ha calcolato che ogni quattro studenti laureatisi in Bocconi entro il 1915, uno avesse usufruito di un qualche sussidio[20] che gli aveva semplificato il compito di portare a termine studi impegnativi per la mente non meno che per le finanze familiari. L’analisi dei registri matricolari, nei quali frammiste alle informazioni curricolari vengono spesso menzionate le concessioni di borse, induce ad una qualche cautela circa il ruolo dei fondi erogati. Come vedremo meglio più avanti, molti dei beneficiari rinunciavano alla borsa e abbandonavano l’università al termine del primo o del secondo anno di corso. I deludenti risultati ottenuti agli esami non impediscono di sospettare che per molti di costoro, giunti da fuori nella grande Milano soprattutto in cerca di lavoro qualificato, il sostegno di un assegno personale, per quanto limitato fosse l’importo annualmente intascato[21], in realtà servisse per agevolarne l’inserimento senza che dovessero sottostare ai disagi e alle privazioni cui andavano incontro quanti non disponevano di aiuto alcuno.

Le scuole di provenienza e la severità degli studi

Nel commentare l’ordinamento dell’università commerciale da lui ideata e retta, Leopoldo Sabbatini si chiedeva quale grado di cultura e di preparazione intellettuale dovesse esigersi da quei giovani che venivano ammessi a frequentarla. La risposta, argomentata con dovizia di ragioni, teneva conto della situazione di radicale mutamento rispetto al passato che proprio nei primi anni del Novecento andava maturando nel mondo dell’istruzione secondaria italiana. Dopo una lunga fase prolungatasi dall’Unità al 1897, contraddistinta dallo schiacciante predominio dell’istruzione classica, nelle preferenze delle famiglie borghesi italiane che avviavano i loro figli agli studi superiori la scelta dell’istruzione tecnica si era gradualmente imposta. Così gli alunni degli istituti passarono in Italia dai poco più di 50 mila del 1897 ai 170 mila del 1917, mentre quelli dei ginnasi-licei, dopo essere discesi da 98 mila a 86 mila, fra il 1897 e il 1907, risalirono nel 1917 a 147 mila[22].

Nelle regioni settentrionali, nelle quali andò concentrandosi la maggior parte degli studenti degli istituti tecnici, mutò sensibilmente anche il livello sociale delle famiglie di provenienza degli alunni. Accanto ai figli della piccola borghesia impiegatizia e artigianale e a quelli dei ceti operai più evoluti, tradizionali fruitori di quel genere d’istruzione, crebbe il numero dei rampolli di famiglie di più elevata condizione, di quei giovani, insomma, che per usare le espressioni di uno studioso coevo dell’istruzione tecnica «dovranno esser capi e direttori di banche, di case commerciali, di opifici»[23].

Ai primi del Novecento, dunque, la tradizionale centralità del curricolo di cultura classica ginnasiale e liceale cominciava finalmente a venir meno. La pluridecennale battaglia ingaggiata da industriali illuminati, da economisti della corrente protezionista e dai pedagogisti più preoccupati del ritardo col quale nella penisola si trascurava di riformare il sistema scolastico secondario onde adattarlo alle esigenze di un paese ormai incamminatosi lungo la via dell’industrializzazione, poteva finalmente dirsi vinta[24].

Dopo aver lamentato che tanto la preparazione offerta dal liceo quanto quella acquisita attraverso la frequenza degli istituti erano entrambe inadeguate «ai bisogni particolari di un’alta cultura economico-commerciale», il rettore della Bocconi precisava che il consiglio direttivo aveva preferito evitare di sottoporre ad un esame di ammissione gli allievi che chiedevano l’iscrizione: sarebbero stati ammessi solo quelli che, secondo le norme del regolamento generale universitario, avevano titolo per iscriversi a una qualsiasi facoltà[25]. Riprendendo un comma del medesimo regolamento, con riferimento ai giovani stranieri o agli italiani residenti all’estero, era previsto l’accesso solo per quanti fossero stati in grado di documentare il compimento di quegli studi secondari che, nel rispettivo paese d’origine, aprivano le porte dell’università[26].

Anche l’idea d’imporre la frequenza di un «corso preparatorio», peraltro sconosciuto nei curricoli di facoltà come Giurisprudenza o Medicina, i cui contenuti erano ben più lontani dalla cultura classica di quanto non lo fossero quelli di una facoltà economica e commerciale dalle discipline impartite nelle scuole tecniche[27], era stata risolutamente scartata. Sulla base dell’esperienza maturata presso le facoltà fisico-matematiche, Sabbatini era dell’avviso che la vasta preparazione di base di cui disponevano i licenziati dei licei alla lunga avrebbe largamente compensato le loro iniziali lacune in fatto di cognizioni tecnico-professionali[28].

A questo punto, conviene precisare che nel nostro paese, come si è già avuto occasione di notare, fino alla metà degli anni ’90 del XIX secolo, su tre studenti licenziati dalle scuole secondarie, due avevano frequentato per l’appunto il liceo (classico) e uno l’istituto tecnico[29]. Proprio al tramonto dell’Ottocento, sotto lo stimolo di una sensibile accelerazione delle attività produttive e di quelle mercantili e creditizie, gl’istituti tecnici dipendenti dal Ministero dell’Istruzione pubblica vennero sollecitati a riorganizzarsi in modo da corrispondere «ai bisogni dell’agricoltura, dell’industria, del commercio e dei pubblici servizi»[30]. Nel 1913, nel mondo della scuola secondaria italiana, il tradizionale rapporto proporzionale fra liceali e allievi delle scuole tecniche si era completamente ribaltato rispetto a quello esistente solo una ventina d’anni prima: alla vigilia della grande guerra, ogni tre studenti, due frequentavano l’istituto e uno solo il liceo[31].

Le informazioni di cui disponiamo attorno alle scuole di provenienza dei giovani bocconiani, nel dar conto anche dell’evoluzione degli orientamenti succedutisi nell’Italia giolittiana a proposito delle scelte scolastiche delle famiglie, aprono interessanti squarci sulla cultura di base della quale disponevano gli allievi della prima facoltà economica italiana.

I dati relativi alle scuole frequentate dai bocconiani rappresentano anzitutto un efficace indicatore di tendenza delle trasformazioni intervenute nelle attitudini degli italiani in fatto d’istruzione attorno al primo decennio del Novecento. La decisa svolta nei comportamenti collettivi cui si è accennato più addietro trova puntuale conferma nei dati riguardanti le matricole dell’Università commerciale. La tendenza calante delle iscrizioni di licenziati dal liceo dopo il 1909 e quella viceversa crescente di diplomati degli istituti, e in modo particolare dei ragionieri, non deriva tanto, come si potrebbe essere indotti a pensare, da un abbassamento del livello culturale, e forse anche sociale, dei giovani che accedevano alla Bocconi attorno agli inizi del secondo decennio del Novecento, quanto piuttosto, come si è visto, da trasformazioni di più generale portata, e durata, intervenute giust’appunto in quel torno di anni nel mondo dell’istruzione secondaria del nostro paese.

 

Figura 5 Scuole secondarie di provenienza degli studenti iscrittisi all’Università Bocconi fra il 1902 e il 1914.

Figura 4.5

Del resto, con riguardo a Milano, è agevole provare che il Regio Istituto di studi commerciali fondato nel 1901, che rilasciava il diploma di ragioniere commerciale, col passare degli anni conobbe una crescita assai sostenuta del corpo studentesco proseguita fino alla vigilia della guerra europea[32]. Se, per esempio, fra gli iscritti alla Bocconi isoliamo i giovani residenti nel capoluogo lombardo, possiamo notare che a partire dal 1903 fra le matricole la percentuale dei licenziati del liceo fu costantemente inferiore a quella computabile per l’intero corpo studentesco[33] e che, per contro, il peso dei liceali continuò a mantenersi relativamente alto fra quei giovani che per prendere una laurea in Economia e commercio salivano a Milano dalle regioni dell’Italia centrale e meridionale[34].

I risultati ottenuti agli esami dagli studenti solo in parte diedero ragione alle attese manifestate da Leopoldo Sabbatini circa la sostanziale equipollenza dei curricoli classici e di quelli tecnici, quali basi culturali entrambe adeguate al piano di studi previsto per gli allievi dell’Università commerciale. In effetti, fino al 1914, i giovani che frequentarono i corsi bocconiani venendo dal liceo riportarono votazioni meno brillanti di quelle ottenute dai loro coetanei formatisi sui banchi degli istituti tecnici. Gli autori del volume edito per celebrare la ricorrenza del quarantesimo anniversario della fondazione della Bocconi, essendosi presi la cura di computare la media delle votazioni conseguite agli esami degli insegnamenti fondamentali dai laureati, dopo averli distinti secondo la scuola secondaria di provenienza, poterono accertare che gli ex-liceali avevano mediamente conseguito punteggi inferiori a quelli dei loro compagni licenziatisi dagli istituti[35]. È questo un risultato a prima vista sorprendente, che sembra estendere anche all’Università commerciale milanese la concorde opinione ripetutamente espressa dai direttori delle Regie scuole superiori di Venezia e di Bari, secondo la quale gli allievi meno brillanti dei licei venivano avviati preferibilmente agli studi commerciali piuttosto che alle facoltà giuridiche.

Anche la distribuzione dei punteggi riportati in occasione degli esami di laurea conferma il superiore rendimento di quegli studenti licenziatisi presso gli istituti tecnici: il 37,8% di loro ottenne il massimo dei voti mentre, fra i laureati provenienti dal liceo, solo il 19,7% conseguì risultati altrettanto brillanti[36].

È senz’altro istruttivo verificare anche in altro modo l’impegno e la dedizione profusi dagli studenti bocconiani a seconda della scuola secondaria di provenienza: basta infatti accertare se i laureati si distribuivano proporzionalmente rispetto alle scuole secondarie dalle quali provenivano. Fra il luglio 1906 e il dicembre 1914 presso la Bocconi si laurearono 368 studenti. 140 di loro, vale a dire il 38%, possedevano un curricolo di studi secondari tecnici e 228 – il 62% – erano usciti da licei[37]. Per farci un’idea della percentuale di successi degli studenti secondo la scuola di provenienza dobbiamo compararli coi 918 immatricolati alla Bocconi fino all’autunno del 1910. Di questi 498 – il 54,2% – erano stati liceali e 420 – il 45,8% – avevano frequentato scuole secondarie d’indirizzo tecnico. In sostanza, si può osservare che se non furono gli studenti più brillanti, quelli provenienti dai licei furono indubbiamente i più costanti e diligenti: su cento, 46 riuscirono a completare con successo i loro studi universitari. Viceversa, solo uno ogni tre – il 33,3% – degli immatricolati usciti da corsi d’istruzione tecnica giunse al traguardo della laurea.

Non è azzardato ipotizzare che, per i diplomati di quel genere di scuole, l’opportunità di trovare impiego dovette spesso agire da efficace causa d’abbandono degli studi; tanto più che, essendo obbligatoria la frequenza ai corsi di Via Statuto, pena l’estromissione dagli esami di profitto, non doveva certo essere agevole conciliare studio e lavoro, a meno che non si trattasse di occupazioni a tempo limitato svolte la sera o addirittura nottetempo. In questa luce, a carico dei «ragionieri» sembra aver agito un duplice severo processo di selezione al quale per la maggior parte sfuggirono i licenziati dei licei, mancanti di un diploma professionale. Proprio in questa condizione sembrerebbe risiedere l’origine dei ben più brillanti esiti conseguiti dai laureati venuti alla Bocconi dagli istituti tecnici. Alla durezza degli studi si aggiungeva la opportunità/necessità di lavorare, sicché quanti resistevano erano doppiamente temprati, per non dire dei vincoli cui sottostavano i borsisti: il rinnovo dell’assegno essendo collegato con il buon esito degli esami.

Laver indugiato su talune caratteristiche dei bocconiani laureatisi prima della tempesta della grande guerra ha permesso di gettare seppur indirettamente uno sguardo anche sul livello di selettività del piano di studi escogitato da Leopoldo Sabbatini. Egli aveva organizzato gli insegnamenti in due bienni e in quattro gruppi disciplinari (Scienze economiche, tecniche, giuridiche e lingue straniere) distinguendoli in due categorie: corsi generali e corsi speciali, «dei quali i primi obbligatori tutti, i secondi obbligatori solo in un certo numero, a scelta dello studente»[38]. Era una delle prime volte, in Italia, che nell’ambito dell’insegnamento universitario veniva concesso spazio all’esigenza degli allievi di scegliere, fra più corsi complementari, quelli maggiormente consoni al desiderio di approfondire temi e problemi connessi con quelle attività che in futuro avrebbero esercitato. I docenti dei corsi speciali vennero scelti fra dirigenti delle banche, delle ferrovie, delle case commerciali, delle imprese assicuratrici, delle amministrazioni finanziarie governative.

La frequenza ai corsi era obbligatoria, pena l’esclusione dagli esami di profitto che si tenevano due volte l’anno: in estate ed in autunno[39]. Non erano ammessi all’iscrizione dell’annualità successiva quanti non avessero sostenuto con successo almeno tre prove d’esame (escluse quelle di lingua straniera). Il passaggio al secondo biennio era comunque condizionato al superamento di tutte le prove previste nel piano di studi del primo, eccezion fatta per quelle di lingua. Si trattava di un vero e proprio «catenaccio», che il trascorrere del tempo finì per attenuare, analogo a quello vigente nei corsi di laurea in Ingegneria. Per gli studenti, l’impegno di partecipazione alle lezioni oscillava settimanalmente fra le 26 e le 27 ore, secondo gli anni e impegnava tutti i giorni della settimana, compreso il sabato[40].

A parte il calcolo della percentuale dei laureati sugli studenti iscritti, sul quale converrà tornare per operare alcuni raffronti con altri corsi di laurea coevi, conviene per ora seguire la carriera delle matricole bocconiane sull’arco del rispettivo quadriennio di corso. Così facendo, si potranno cogliere con maggior precisione quei difficili passaggi che, parandosi dinanzi agli allievi, ne intralciavano o ne compromettevano la carriera.

 

Figura 6 Calcolo della selettività degli studi all’Università Bocconi, numeri indici degli iscritti ai vari anni di corso e laureati.

Figura 4.6

Questo particolare tipo d’analisi permette di misurare efficacemente i comportamenti degli studenti di fronte al «catenaccio» del primo biennio, consente d’intravvedere eventuali ripetenti ed infine mette in chiaro i tassi di «produttività» del sistema educativo bocconiano sull’arco dei primi nove cicli quadriennali dei corsi. Ebbene, già alla fine del primo anno la percentuale di abbandoni si profilava consistente (16% in media, con punte estreme di 22-26%). Era però l’accesso al terzo anno il passaggio più avventuroso e delicato dall’intero curricolo. All’iscrizione del famigerato terz’anno, quattro studenti su dieci mancavano all’appello. I dati relativi al quarto anno risultano evidentemente gonfiati da una certa quota di «ripetenti». Come spiegare altrimenti – in ben cinque casi su nove – frequenze d’iscritti superiori a quelle registrate nell’anno immediatamente precedente? Su quest’ultimo fenomeno dovette esercitare un’influenza difficilmente apprezzabile anche l’accertato travaso di uditori, talvolta accolti fra gli iscritti dopo il primo anno di corso.

Sulla scorta di alcune annotazioni contenute negli annuari, nei libri matricolari[41] e di sparsi dati quantitativi pubblicati nei bollettini editi dall’Associazione fra i laureati bocconiani[42], è possibile stimare in almeno 250 gli uditori di tempo in tempo ammessi a seguire uno o più corsi della Bocconi entro la fine del 1914, ma non è facile dire quanti di loro ottennero poi l’iscrizione come studenti. Per lo più si trattava di universitari di altre facoltà, di impiegati desiderosi di approfondire la loro preparazione professionale, di giovani che si apprestavano a superare da privatisti l’esame di licenza della scuola secondaria superiore e, nel contempo, seguivano un qualche corso universitario[43]. Né va trascurato il fatto che, seppur di rado, qualche studente che aveva cominciato la sua carriera a Genova, a Venezia o a Torino, ottenne il trasferimento alla Bocconi per potervi prendere la laurea.

Le molte migliaia di voti d’esame trascritte nei libri matricolari a testimonianza dei curricoli degli oltre ottocento studenti iscrittisi lungo il decennio 1902-1911, permettono di cogliere secondo un altro scorcio visuale il difficile passaggio dal primo al secondo biennio. Distinte per anni di corso, e considerate tutte le posizioni, anche quelle di quegli studenti che non giunsero alla laurea, le votazioni medie risultano assai espressive: 24,2 per gli esami del primo anno contro 22,8 per quelli del secondo; con un abbassamento che tradisce l’esigenza di completare in qualche modo le prove del primo biennio. Nella terza e quarta annualità, le medie dei voti si riportavano rispettivamente a 24,6 e 24,7 anche per effetto della selezione conseguente ai non pochi abbandoni verificatisi al momento del trapasso fra secondo e terzo anno.

A minacciare il regolare svolgimento degli studi dei bocconiani sullo scorcio iniziale del Novecento si ergevano alcuni esami-scoglio, che risultava particolarmente arduo superare alla prima prova. Fra gli insegnamenti del primo anno, quattro riservavano prove particolarmente impegnative. In ordine di difficoltà si trattava di: Geografia commerciale, Principi di Economia politica, Diritto costituzionale e amministrativo e Contabilità generale e applicata[44]. La maggioranza degli studenti superò le prove solo al secondo tentativo e per qualcuno fu addirittura necessario sottoporsi ad una terza verifica. Al secondo anno di corso, le difficoltà da molti già sperimentate al primo si ripresentavano. Solo, nella gerarchia delle prove più difficili, il posto di Costituzionale era preso da Statistica demografica ed economica. Gli iscritti al terzo anno avevano vita dura con gli esami di Banco modello e Storia e critica dei principali istituti economici; difficoltà che, puntualmente, si ripresentavano per le stesse discipline al quarto anno, con l’aggiunta di Merceologia e di Diritto internazionale commerciale.

Una efficace misura dell’abilità espressa dagli studenti che, nonostante i molti ostacoli, riuscirono egualmente a completare il loro curricolo bocconiano consiste nell’accertare quanto tempo mediamente essi impiegarono per approdare alla laurea. A tale scopo, abbiamo contato i mesi intercorsi fra la data dell’iscrizione e quella della discussione della tesi dei giovani immatricolatisi nel corso del decennio 1902-1911.

 

Figura 7 Durata degli studi (in mesi) dei laureati bocconiani iscritti fra il 1902 e il 1911.

Figura 4.7

Anche la distribuzione di questo genere di frequenze conferma l’eccellente livello dei laureati bocconiani. Se trascuriamo il piccolo gruppo (il 3,7%) di studenti che prendevano una seconda laurea o che approdavano alla Bocconi dopo un biennio passato presso una facoltà giuridica o matematico-fisica o d’ingegneria[45], ottenendo l’iscrizione al terzo anno dopo aver sostenuto un esame integrativo, si può notare che poco meno di due laureati su tre completavano gli studi nell’arco dei previsti quattro anni di corso. In definitiva, la media di un laureato ogni due matricole mantenuta fino alla vigilia della grande guerra e il completamento di un curricolo così impegnativo in un tempo relativamente breve sembrano entrambi risultati di notevole livello.

È tempo, ora, di guardare di fuori dalle mura dell’edificio affacciato su Via Statuto per tentare un qualche confronto con facoltà universitarie delle quali abbiamo già avuto modo di occuparci più addietro trattando delle vicende dell’istruzione superiore nel nostro paese. Per far ciò, tuttavia, dovremo ricalcare i metodi utilizzati da C.F. Ferraris nell’indagine che questi condusse sull’istruzione universitaria in Italia ai primi del Novecento. Per non tediare il lettore, eviteremo di soffermarci sugli aspetti metodologici dei computi e sottoporremo alla sua attenzione i risultati cui siamo giunti attraverso noiosi calcoli.

Gli assai diversi ordini di grandezza delle frequenze trattate (dalle molte migliaia, nel caso degli iscritti a Legge, alle poche centinaia, come per la Scuola di Bari) inducono alla cautela nel commentare i risultati. Tuttavia, sembra fuor di dubbio il primato di efficacia del sistema educativo bocconiano, la cui percentuale di successi risulta nettamente superiore alla media e appare attestata su posizioni largamente migliori rispetto a quelle tenute dalle altre scuole e facoltà, e soprattutto, a quella d’Ingegneria in particolare.

 

Figura 8 Percentuale di laureati (1906-1912) rispetto agli iscritti (1902-1908) in alcune facoltà universitarie e Scuole superiori di commercio italiane.

Figura 4.8

È probabile che per lo meno una parte del primato d’efficacia dell’università commerciale milanese sia riconducibile anche alla generosa disponibilità di borse che poterono essere attribuite agli allievi meritevoli di modesta condizione, cui già si è accennato più addietro. D. Musiedlak ha potuto ricostruire l’identità sociale dei borsisti che giunsero alla laurea fra il 1906 e il 1915. Ebbene, in due casi su tre (66,3%) si trattava di giovani provenienti da famiglie della piccola borghesia dei servizi (impiegati, insegnanti, artigiani e domestici)[46].

È tempo, ora, di occuparsi seppur brevemente dei perdenti; di quei molti giovani cioè che non ebbero fortuna nel tentare di addottorarsi in scienze economiche e commerciali. Tra le molte possibili classificazioni, abbiamo scelto di studiarli in relazione alla zona d’origine, in modo da accertare se esistesse un qualche nesso fra provenienza geografica e insuccesso negli studi condotti lontano dalla famiglia e dall’ambiente culturale d’appartenenza.

Quei 1.075 studenti iscrittisi fra il 1902 e il 1914, dei quali abbiamo più addietro considerato le provenienze geografiche, possono essere studiati anche guardando agli abbandoni sulla base dei medesimi criteri aggregativi di carattere geo-economico più addietro sperimentati.

 

Figura 9 Abbandoni degli iscritti all’Università Bocconiana fra il 1902 e il 1914, secondo le aree geografiche di provenienza (per le regioni comprese nelle diverse aree, si veda la didascalia della Figura 4).

Figura 4.9

La geografia degli insuccessi non appare meno significativa di quella, peraltro analoga, ricostruita alcune pagine addietro allo scopo di precisare le dimensioni territoriali del reclutamento degli iscritti. A parte un peggioramento della percentuale dei laureati: il 40,2% in luogo dal 50, evidentemente riconducibile all’allungamento fino all’anno 1914[47] del campo di osservazione, i dati mettono efficacemente in evidenza la pluralità delle culture esistenti nella società italiana del primo anteguerra e sottolineano altresì il peso da queste esercitato sulle fortune negli studi dei giovani bocconiani.

La suddivisione in quattro aree omogenee per condizioni sociali ed economiche anche in questo caso sembra offrire non pochi spunti interpretativi. Il minimo scarto percentuale che affiora, per esempio, fra i valori delle due aree settentrionali pare avvalorare la comune appartenenza ad una cultura urbana ormai evoluta. Parimenti, il netto divario esistente fra le percentuali di abbandoni relative agli allievi del settentrione e quelle, ben più alte, del centro-meridione sembrerebbe riconducibile soprattutto a differenze di carattere sociale e culturale più che mai presenti nell’Italia dei primi anni del Novecento.

All’attrazione esercitata dall’università Bocconi sui giovani delle isole e su quelli nati nelle meno emancipate regioni del Mezzogiorno continentale corrispondeva dunque una probabilità di riuscita negli studi inversamente proporzionale tanto alla distanza fisica dai luoghi d’origine, quanto all’arretratezza nella quale versavano le società urbane del nostro Sud. A parziale conferma di ciò, si noterà infatti come gli studenti provenienti dall’estero: per la maggior parte figli e nipoti di connazionali stabilitisi nel centro Europa oltre a giovani istriani e dalmati, a giudicare dalle percentuali degli abbandoni, incontrassero difficoltà d’inserimento per molti versi simili a quelle affrontate da quanti erano saliti a Milano per studiare venendo dalle regioni del centro Italia, oltre che dalla Campania e dalle Puglie.

Dalla discussione della tesi alla carriera professionale

Il regolamento per gli esami di laurea varato dal consiglio direttivo l’8 aprile 1905 prescriveva che i candidati preparassero una dissertazione scritta trattando un argomento concordato con uno dei docenti e che fossero altresì pronti a rispondere oralmente alle domande su due questioni predeterminate[48] che i commissari d’esame avrebbero loro rivolto. Onde attribuire la massima solennità alla prova con la quale ci si guadagnava il titolo di dottore in scienze economiche e commerciali, il regolamento prevedeva anche che l’esame di laurea non durasse meno di 45 minuti.

L’Università Bocconi ha saggiamente conservato i volumi originali delle tesi dei suoi laureati[49], sicché non riesce difficile descriverne la forma e classificarne i contenuti. Una prima osservazione riguarda le dimensioni: un tomo su due non arriva a contare cento pagine[50] e solo uno su dieci supera le duecento. Nei primi anni, e comunque fino a tutto il 1908, un terzo circa delle tesi venne redatto in forma manoscritta, in un elegante corsivo all’inglese. In seguito, presero decisamente il sopravvento i dattiloscritti eseguiti presso le copisterie. Nella collezione bocconiana non mancano nemmeno alcuni pretenziosi esemplari a stampa assieme a solenni legature in pelle, impreziosite da sovrimpressioni neogotiche o da ghirigori floreali.

Nell’insieme, però, la forma «povera» dei tomi, la brevità degli indici, l’esilità delle fonti documentarie utilizzate e delle bibliografie citate, trasmettono l’impressione di trovarsi al cospetto di memorie redatte nel giro di una qualche settimana, talvolta addirittura di pochi giorni, al mero scopo di ottemperare ad una regola. Non mancano, tuttavia, le felici eccezioni. La prima tesi in ordine cronologico, per esempio, discussa nel luglio del 1906 dal laureando Carlo Parravicini col professor Sallustio Marchi, docente di Geografia economica e commerciale, consta di ben 242 pagine dattiloscritte e, con ricchezza d’informazioni e un buon corredo di dati quantitativi, svolge il non semplice tema delle «Grandi vie del commercio internazionale» agli inizi del Novecento. Nel gruppo dei laureati ad ottobre di quell’anno si distingue il lavoro presentato da C. Finocchiaro su «La finanza municipale dei grandi centri urbani italiani e stranieri»[51] che, oltre ad affrontare un tema all’epoca molto dibattuto e di grande attualità, svolge secondo una prospettiva comparativa la questione delle risorse autonomamente raccolte dalle amministrazioni municipali e delle rispettive quote di spesa per abitante, pervenendo a risultati di notevole interesse. Benché, nel classificarla, il segretario abbia dimenticato di citarne il relatore, non è difficile riconoscerlo in Luigi Einaudi che, nell’àmbito del suo insegnamento biennale di Scienza delle finanze, al terzo anno di corso, trattava appunto della finanza provinciale e comunale.

Un accurato inventario degli argomenti sviluppati nel predisporre i lavori di tesi permette anche di discernere verso quali campi disciplinari andassero le preferenze degli studenti. La tripartizione nei settori economico, tecnico e giuridico, escogitata da Leopoldo Sabbatini al momento di predisporre il piano degli studi, torna assai utile anche al nostro fine classificatorio. Infatti, seppur di scorcio, essa permette di gettare uno sguardo sui problemi ricorrentemente affrontati e sui metodi in prevalenza utilizzati nell’Università commerciale milanese fino alla vigilia della prima guerra mondiale e, nel medesimo tempo, consente di verificare se fra i pesi didattici relativi ai tre settori disciplinari, misurati sulla base delle ore di lezione dedicate ai rispettivi insegnamenti, e le frequenze degli argomenti affrontati in sede di discussione della tesi vi fosse un qualche nesso di proporzionalità.

 

Figura 10 Peso relativo dei settori disciplinari rispettivamente nel monte ore dei corsi e negli argomenti delle tesi di laurea (1906-1914).

Figura 4.10

Alla luce dei risultati ottenuti, si può affermare che l’intento perseguito in fase progettuale da Leopoldo Sabbatini, di caratterizzare cioè il curricolo bocconiano imperniandolo soprattutto sull’insegnamento delle discipline economiche, alla prova dei fatti presso gli studenti ebbe pieno successo. In tre tesi su quattro i laureandi affrontarono temi e problemi riconducibili all’alveo dell’Economia politica, con una frequenza dunque significativamente superiore rispetto al peso che quel genere di argomenti aveva nell’organizzazione didattica della facoltà. Le discipline tecniche e quelle giuridiche, viceversa, vennero per così dire trascurate. A ben guardare, tuttavia, soprattutto le prime furono tralasciate. E la cosa non desta certo sorpresa in chi sappia quanto spazio le materie aziendali hanno saputo guadagnarsi, sia nell’ordinamento degli studi che nelle preferenze dei laureandi, da quando, oltre trent’anni fa, gli studiosi cominciarono a guardare all’impresa come a un microcosmo complesso d’interazioni e a classificare e studiare le sue molteplici relazioni con il mondo esterno ben al di là del quadro tradizionale delle mere scritture contabili.

Entro i confini del vasto campo disciplinare macro-economico, il massimo delle opzioni riguardò la Geografia commerciale col 24,9 per cento delle tesi. La spiegazione di un primato siffatto, che potrebbe suscitare qualche sorpresa, va cercata nel prevalere della descrizione sull’analisi dei fenomeni indagati, nel facile accesso alle statistiche ufficiali e ai riferimenti bibliografici, oltre che nell’attualità delle questioni riguardanti tanto i moderni mezzi di trasporto – piroscafi e strade ferrate – quanto le «nuove» (per l’epoca) infrastrutture viarie come i trafori alpini, i canali artificiali e le banchine portuali modernamente attrezzate. Accanto a questo genere ve n’era un altro, non meno significativo, riguardante le condizioni ambientali ed economiche di quelle regioni per lo più americane e nord africane nelle quali, fin dalla metà dell’800, corpose colonie di emigranti italiani erano andate insediandosi. Da ultimo, un terzo genere era rappresentato da indagini monografiche dedicate alle provincie d’origine dei laureandi. Di queste volentieri gli studenti documentavano gli aspetti economici strutturali e le caratteristiche dello sviluppo che andava profilandosi proprio in quegli anni.

Le ricerche di Statistica demografica ed economica (18,9% degli argomenti di tesi) presentavano più di un addentellato con quelle di Geografia commerciale. Probabilmente, proprio in quel settore tradizionalmente collegato con le discipline economiche, vennero realizzate le indagini più impegnative, a causa delle copiose informazioni raccolte e trattate, e le più rigorose per metodi impiegati. Come eccellente esemplare di questo genere di tesi prenderemo la dissertazione di Marcello Boldrini, uno dei nostri maggiori statistici, laureatosi nel novembre del 1912 con uno studio dal titolo Un secolo [il XIX] di vita economica e sociale marchigiana, con particolare riguardo al credito[52]. Si tratta di una monografia in due volumi ricchissima di dati quantitativi che spazia sulla demografia, sulle attività economiche, sugli ordini sociali e sulle istituzioni creditizie della regione d’origine dell’autore. Per l’approccio, per la ricchezza documentaria, per le caratteristiche del metodo e infine per la raffinatezza dell’analisi, il saggio di Boldrini avrebbe ben figurato anche nel campo disciplinare della Storia economica e sociale, allora ai primi passi in Italia, coltivato da studiosi come G. Prato e S. Pugliese.

 

Figura 11 Inventario dei soggetti delle tesi di laurea sostenute fra il luglio del 1906 e il luglio del 1914 distinti per area disciplinare.

Figura 4.11

Il sorprendente primato della Merceologia fra le discipline tecniche (75,6% dei titoli di tesi) merita un qualche indugio. Come per la Geografia commerciale, anche qui la mera descrizione dei fenomeni prevaleva largamente tanto sulla analisi quanto sulla sintesi. Tuttavia, non mancano monografie esemplari per completezza relativamente a merci le cui caratteristiche avevano subito profonde trasformazioni a causa dell’impatto da poco esercitato sui processi produttivi dall’evoluzione tecnologica. Quanto alle tesi d’argomento giuridico (nel 74,3 % dei casi svolte nell’area del diritto commerciale e industriale), mette conto che si segnali il ricorrere di questioni relative ai titoli di credito, alle procedure concorsuali e fallimentari, al diritto commerciale internazionale e a quello sindacale e del lavoro allora agli esordi.

In molti modi, anche quando non travalicano il limite della modestia, nella loro varietà, e nonostante un diffuso eclettismo metodologico, le tesi dei primi laureati bocconiani tradiscono il complesso d’inferiorità e l’ansia di rivincita della giovane Italia industriale e commerciale, duramente impegnata nel tentativo di avvicinarsi ai livelli di sviluppo tecnologico, economico e sociale cui erano da tempo pervenute le altre grandi nazioni dell’Occidente. Le questioni riguardanti i trattati di commercio fra paesi, i regimi doganali e la finanza pubblica centrale e periferica, i progressi in atto proprio allora nell’economia di molte regioni, provincie e centri urbani, le relazioni sindacali e la contrattazione collettiva, il rilancio di tradizionali produzioni nazionali tecnicamente rinnovate, sono alcuni dei temi ricorrenti nelle dissertazioni degli allievi della Bocconi. Fra le ricerche che abbiamo censito e classificato circola insomma un’atmosfera di intelligente interesse per la realtà economica proprio allora coinvolta in una appariscente evoluzione e una fiducia incrollabile negli effetti positivi del progresso tecnologico. Né mancano le analisi relative a problemi sociali dalle radici antiche come i rapporti fra capitalisti e operai, le condizioni dei lavoratori dei campi e le loro azioni di resistenza, la manifattura a domicilio, il lavoro femminile e infantile[53].

Didier Musiedlak ha dimostrato in maniera convincente che la Bocconi venne progettata e realizzata per essere uno strumento di selezione della nuova élite economica italiana in una fase storica in cui il Paese faticosamente cominciava ad uscire dalla sua secolare condizione di arretratezza economica e socioculturale[54]. L’obiettivo dell’Università commerciale milanese di forgiare una nuova classe dirigente, capace di affrontare e risolvere i molti problemi concreti venne perseguito trasmettendo agli studenti un bagaglio culturale tecnico-scientifico di prim’ordine, scegliendo accuratamente i docenti e assicurando, fra l’altro, la coesistenza di uomini di ben diversa impostazione ideologica. Il primato riconosciuto al talento, all’intraprendenza personale, all’ambizione e alla capacità di lavoro da una parte e le facilitazioni accordate ai meritevoli bisognosi attraverso il conferimento di numerose borse di studio dall’altra diedero modo di giungere alla laurea anche a molti giovani che avevano alle spalle famiglie di umilissima condizione. Musiedlak ha condotto un’inchiesta sull’identità sociale dei laureati del periodo 1906-1915, giungendo a precisare per il 73 per cento di loro i seguenti caratteri[55].

 

Figura 12 Ceti sociali di appartenenza del 73% dei laureati alla Bocconi fra il 1906 e il 1915.

Figura 4.12

Alla luce delle informazioni raccolte, si può tranquillamente ipotizzare che per lo meno quattro laureati su dieci, essendo di ben modeste origini, dovessero percepire il conseguimento dei gradi accademici come il raggiungimento di un qualificante traguardo sociale e, nel medesimo tempo, vivessero quell’esperienza come il superamento di una soglia di là dalla quale v’era una potenziale carriera in ascesa verso eminenti posizioni di status. Col passare dei decenni, effettivamente, molti bocconiani sarebbero poi giunti a svolgere funzioni e ad occupare posizioni di primo piano nella gerarchia economica e sociale italiana. La ricognizione dei settori nei quali i portatori di una concezione accentuatamente elitaria dell’attività economica finirono per agire consente di misurare da un lato durata ed efficacia dell’iniziativa di Ferdinando Bocconi realizzata da Leopoldo Sabbatini e, dall’altro, l’effetto di concentrazione o dispersione della professionalità bocconiana nei diversi campi dell’agone economico.

Per abbozzare un quadro plausibile della condizione in cui venne a trovarsi ed agì la prima leva di laureati è indispensabile valersi delle informazioni periodicamente raccolte e divulgate con appositi bollettini dalla loro Associazione (A.L.U.B.), costituitasi dietro suggerimento del rettore all’indomani del conferimento dei primi diplomi[56]. Nel suo primo «Bollettino», edito a Milano nel giugno 1907, i trentasette soci fondatori chiarivano quali intenti perseguisse il sodalizio. Anzitutto, si voleva offrire ai Bocconiani l’opportunità di avere periodici incontri in modo da rinsaldare il «sentimento di fratellanza» che li accomunava. Secondariamente, essi si impegnavano a divulgare la notizia di «successi e trionfi» nella vita professionale di ciascun socio e a promuovere fecondi contatti fra le diverse generazioni di laureati, che si sarebbero succedute, rinsaldando in tal modo lo spirito di corpo facendo leva sulla comune cultura. Il terzo intento, non meno qualificante, consisteva nell’offrire a società industriali e commerciali, nonché a imprenditori privati, l’elenco sistematico dei laureati, quasi si trattasse di un ruolo professionale. Così facendo si perseguivano due importanti obiettivi: presentare singolarmente i laureati e nel contempo tracciare i confini convenzionali di una categoria professionale inedita ed emergente: quella dei dottori in scienze economiche e commerciali.

L’orgoglio di appartenere ad una eletta e ristretta schiera di esperti, di uscire da una scuola assai impegnativa e selettiva – nella quale insegnavano maestri di riconosciuto prestigio – e lo spirito di corpo conseguente, a parte l’impegno al mutuo aiuto e all’assistenza reciproca, fin dagli esordi rappresentarono i valori condivisi dai numerosi membri dell’Associazione. Nei bollettini che l’A.L.U.B. andò pubblicando, oltre ad informare sui programmi e i docenti della Bocconi e a continuare a fornire le generalità dei giovani che vi si erano addottorati, non si mancò di segnalare i progressi nelle carriere dei soci e ci si sforzò di mantenere i contatti anche con quei laureati che le vicende personali e professionali avevano portato assai lontano da Milano e dalla Lombardia.

Nel curare un volume celebrativo al cadere del primo quarantennio di fondazione della Bocconi[57], alcuni eminenti membri dell’A.L.U.B.[58] composero una statistica delle professioni praticate da 219 di loro laureatisi fra gli anni 1907 e 1914. La tripartizione delle figure professionali in: indipendenti, addetti ad aziende private e impiegati in pubblici uffici, coglie solo una parte dei molti possibili aspetti interessanti. Tuttavia, permette di gettare uno sguardo sui destini e sulle posizioni di carriera dei bocconiani laureatisi al principio del XX secolo; posizioni – vale la pena di ricordarlo – misurate verso il 1940, allorquando la maggior parte di loro aveva ormai raggiunto età comprese fra i cinquanta e i sessant’anni.

 

Figura 13 Distribuzione dei laureati bocconiani negli anni 1907-1914 secondo la posizione professionale rivestita attorno al 1940.

Figura 4.13

Nella pienezza della maturità, quando si raccolgono i frutti della competenza, dell’abilità e di un diuturno impegno, a una trentina d’anni circa dall’epoca in cui erano usciti dalla loro università, otto bocconiani su dieci si trovavano in posizioni assai elevate della gerarchia economica e sociale. Se si rammenta, come si è potuto vedere più addietro, che all’origine il gruppo era composto solo per poco più della metà da rampolli di famiglie appartenenti all’alta borghesia e al mondo degli imprenditori e dei possidenti[59] allora si può ragionevolmente sostenere che una significativa porzione di bocconiani era stata protagonista di processi individuali di promozione e di ascesa sociale proprio in virtù della cultura e del titolo di studio ottenuti frequentando l’università di Via Statuto. Questo aspetto, fra l’altro, agiva quale efficace fattore di attrazione dei giovani verso la scuola commerciale milanese, che andava giustamente fiera dei successi dei suoi ex-allievi; tanto più che due di loro su tre operavano nell’Italia settentrionale[60] e pertanto agivano professionalmente entro quell’area urbana culturalmente omogenea che, pur fra luci e ombre, nel corso del primo trentennio del Novecento conobbe uno sviluppo considerevole delle attività agricole, industriali, commerciali, creditizie ed assicurative.

Da parte sua, D. Musiedlak, con un paziente lavoro condotto sui bollettini dell’A.L.U.B., è risalito alla distribuzione per settori economici delle attività intraprese dalla prima leva di laureati bocconiani del periodo 1906-1915 censendoli rispettivamente a cinque epoche – nel 1915, nel 1921-22, nel 1925-26, nel 1938-39 e, di nuovo, dopo il 1945 – in modo tale da seguire, passo dopo passo, la progressione delle carriere di poco meno di 300 persone e da misurarne la mobilità da un settore all’altro[61]. I risultati ottenuti – qui considereremo in sintesi solo le medie generali per settore – meritano un qualche indugio perché permettono di accertare l’ampiezza del ventaglio di occupazioni cui si dedicarono i primi laureati italiani in scienze economiche e commerciali, ma anche il loro concentrarsi per due terzi nell’industria, nel credito, nelle assicurazioni e nel commercio.

 

Figura 14 Settori di attività dei laureati dell’Università Bocconi secondo D. Musiedlak (1906-1915).

Figura 4.14

Le carriere della primissima leva di bocconiani si svolsero dunque nei settori portanti dell’economia e, in particolare, all’interno di quelli più evoluti, implicati nel processo di aggiornamento tecnologico e manageriale, come l’industria e la grande distribuzione. Solo il 10% dei laureati si dedicò ad occupazioni non direttamente collegate con la produzione della ricchezza, come l’insegnamento nelle scuole secondarie e nell’università e come il funzionariato alle dipendenze di un ente pubblico o, addirittura, come la carriera politica[62].

La direzione e la gestione d’impresa prevalsero largamente su tutte le altre funzioni, sia che si trattasse di dirigenti e amministratori di grandi industrie come la Montecatini, la Snia e l’Olivetti, sia che i bocconiani occupassero posizioni di vertice nel mondo del credito (Banca Commerciale Italiana e Credito Italiano) o in quello della grande distribuzione (La Rinascente e l’UPIM) piuttosto che nel comparto alimentare (le Distillerie Italiane e la Motta) o in quello del commercio di coloniali (la Parodi Delfino)[63].

Fra tutte, però, le posizioni di vertice che col passare del tempo avrebbero avuto i maggiori riflessi sulla vita stessa dell’università milanese sarebbero state ottenute da suoi laureati nella dirigenza di due grandi banche: la Comit e il Credit. Alcuni di loro, infatti, sarebbero tornati alla Bocconi nelle vesti d’influenti quanto prestigiosi membri del Consiglio direttivo[64].

Fra la statistica elaborata dall’A.L.U.B. e quella che abbiamo preso a prestito dalle pagine di Didier Musiedlak – il lettore attento non avrà potuto fare a meno di notarlo – esiste un’appariscente contraddizione. Si tratta del peso percentuale dei liberi professionisti: il 21 per cento secondo la prima fonte; solo il 10,8 nella stima dello studioso transalpino. Non è qui il caso di tentare di comprendere come sia possibile pervenire a valutazioni tanto difformi. Né la disparità di dimensioni dei due campioni rispettivamente utilizzati né, tanto meno, un’errata interpretazione delle fonti ci sembrano bastanti a giustificare un così accentuato divario. Ma tant’è. In realtà, qui preme soprattutto rimarcare il ruolo fondamentale svolto dai primi laureati bocconiani, e in particolare dalla loro associazione, nel dar vita, sul finire del 1913, al primo albo dei Dottori in scienze economiche e commerciali liberi professionisti, non prima di aver vittoriosamente piegato l’orgoglio dei Ragionieri commercialisti davanti ai giudici del Consiglio di Stato.

I molti pregiudizi, le diverse vedute e le critiche espresse dai ragionieri milanesi fin dalle fasi iniziali (1898) di progettazione dell’università commerciale fondata da F. Bocconi[65], a distanza di una quindicina d’anni, si trasformarono in conflitto aperto non tanto nei confronti dell’istituzione educativa, quanto piuttosto verso quei suoi numerosi allievi che, dopo avervi conseguito la laurea, avevano intrapreso la carriera di liberi professionisti. Nei primissimi giorni del 1913, il casus belli venne offerto dalla pubblicazione ad opera della Camera di commercio milanese del ruolo dei curatori fallimentari valido entro i limiti territoriali dei tribunali di Milano, Busto Arsizio e Monza per il triennio 1913-1915[66]. Con un’istanza tempestivamente presentata al presidente camerale, l’Ingegner Angelo Salmoiraghi, una dozzina di ragionieri lamentarono che gli erano stati preferiti altri, a loro avviso oltretutto privi dei necessari requisiti. Fra gli iscritti nel ruolo figuravano per l’appunto alcuni laureati delle Scuole superiori di commercio e dell’Università Bocconi. Contro di loro, in modo particolare, si appuntavano gli strali dei ricorrenti perché in luogo dei quattro anni di praticantato richiesti a ragionieri, avvocati e procuratori: due svolti prima dell’iscrizione ai rispettivi albi professionali e due posteriormente, «ai laureati della Università Bocconi e delle Scuole Superiori di commercio non si richiede(va) altro che la sola pratica di due anni dopo il conseguimento del titolo di Dottore». In tal modo, obiettavano gli autori dell’istanza, si concedevano «favori speciali di preferenza per i laureati dell’Università Bocconi a scapito di tutte le altre classi di professionisti»[67] e avanzavano altresì il sospetto che la Camera di commercio usasse un trattamento preferenziale verso i laureati di quell’università che aveva contribuito a far sorgere.

I dodici chiedevano l’immediato annullamento del ruolo appena pubblicato e la sua riformulazione sulla base degli elenchi degli avvocati e dei ragionieri, secondo un costume da tempo invalso. A ben guardare, però, la questione era di ben altra natura: i ragionieri milanesi pretendevano che i laureati in Economia e commercio si iscrivessero al loro collegio e che si assoggettassero pertanto alle loro regole di praticantato[68].

Avendo la Camera di commercio respinto l’istanza, i ricorrenti, le cui fila nel frattempo erano andate ingrossandosi, ai primi di marzo adirono al Consiglio di Stato confutando la legalità del regolamento milanese per la formazione dell’elenco dei curatori fallimentari e lamentando addirittura la violazione dell’articolo 24 dello Statuto albertino, che garantiva ai sudditi eguaglianza di fronte alle leggi. Al folto gruppo dei ricorrenti, che era giunto a contare quindici persone, il 25 giugno si aggiunse il Collegio milanese dei ragionieri, nella persona del suo presidente[69], che contestava alla Camera milanese la violazione della legge regolativa dell’esercizio della professione di ragioniere commercialista promulgata nel luglio del 1906.

La difesa dell’Istituto camerale, e in buona sostanza delle ragioni dei laureati, venne affidata a due valenti avvocati milanesi: Edgardo Bronzini e Luigi Majno. Quest’ultimo, all’epoca parlamentare socialista, dal 1903 faceva parte del Consiglio direttivo della Bocconi e, dopo l’improvvisa scomparsa di L. Sabbatini, avrebbe tenuto per il biennio 1914-16 il rettorato, fino a quando altrettanto prematuramente anch’egli mancò[70]. Appena presa in esame la questione, il 28 marzo, il Consiglio di Stato sospese l’efficacia del ruolo riservandosi di soppesare le ragioni che le parti in causa avrebbero proposto. I due legali della Camera di commercio milanese predisposero la loro difesa redigendo una «Memoria»[71] nella quale anzitutto contestavano ai ricorrenti il diritto di censurare l’operato della commissione camerale. Quanto alla presunta violazione dell’articolo 24 dello Statuto albertino, cioè all’accusa di eccesso di potere esercitato dalla Camera di commercio coll’esigere dai commercialisti laureati solo due anni di pratica post lauream presso un curatore sperimentato, i patrocinatori ebbero buon giuoco nel sostenere che «la diversità di trattamento riguardava persone diseguali a causa della maggiore o minore importanza degli studi compiuti»[72].

Per permettere ai giudici romani di apprezzare la sostanziale differenza che passava fra un ragioniere e un laureato in scienze economiche e commerciali, l’avvocato Majno portò come esempio proprio il curricolo previsto per gli studenti bocconiani i quali, fin dal momento dell’ammissione all’università, erano richiesti di «una preparazione di studi assai maggiore di quella dei semplici ragionieri»[73] e, nel caso si trattasse proprio di ragionieri, avrebbero dovuto studiare ancora quattro anni prima di conseguire la laurea. Al termine della loro perorazione, i due legali concludevano: «I laureati della Università Bocconi hanno dunque seguito studi assai maggiori, mentre anche per essi si richiedono due anni di pratica come curatori. Non è serio voler contestare l’idoneità di costoro, dopo un corso quadriennale di studi contabili, economici e legali compiuto posteriormente alla licenza liceale o di Istituto tecnico»[74].

La sostanziale diversità esistente fra il curricolo degli istituti tecnico-commerciali e quelli, ben più impegnativi e professionalmente qualificanti, della Bocconi e delle Scuole superiori di Venezia, Genova, Bari, Roma e Torino che, fra l’altro, un’apposita legge aveva da pochi mesi disciplinato, veniva per la prima volta accertata dinanzi ad un collegio di magistrati[75]. Il 17 settembre 1913, la quarta sezione del Consiglio di Stato riconobbe le ragioni della Camera di commercio accogliendo la tesi che «gli studi posteriori e superiori» cui si assoggettavano i laureati in scienze economiche e commerciali erano equiparabili a due anni di pratica professionale[76].

Non passò molto tempo, che proprio i commercialisti bocconiani assieme ad alcuni colleghi torinesi presero l’iniziativa di dare vita ad un Albo dei Dottori in Scienze commerciali. A Torino, fin dall’ottobre del 1911, si era tenuto il primo congresso della categoria[77] nel corso del quale erano state approvate alcune mozioni inerenti alla dignità professionale e al ruolo operativo dei laureati in Economia e commercio. Già allora una delle questioni di fondo del nascente ordine era data dall’esigenza di ottenere il riconoscimento formale di un titolo preferenziale nella curatela dei fallimenti nei confronti di avvocati, procuratori legali e ragionieri. Alcune Camere di commercio più aperte, o più influenzabili, come quelle di Milano e di Torino, avevano cominciato a muoversi in quella direzione accogliendo nei ruoli anche i laureati nonostante formidabili resistenze. Ora era venuto il tempo di rivendicare ai dottori commercialisti quella speciale preparazione d’indole tecnica, legale ed amministrativa che li poneva in posizione assai più idonea rispetto a quanti potevano vantare o conoscenze solamente legali, come gli avvocati e i procuratori, oppure solo tecnico-contabili, come i ragionieri. La sentenza con cui il Consiglio di Stato riconosceva l’inconsistenza delle pretese dei ragionieri andò ad aggiungersi ai positivi effetti della legge 20 marzo 1913 sull’ordinamento degli Istituti superiori d’istruzione commerciale, con la quale si uniformavano durata e contenuti disciplinari dei corsi e, nel contempo, si rafforzava il valore della laurea in Scienze economiche e commerciali[78].

Verso la fine del 1913, insomma, il profilo culturale e operativo di una nuova professione – quella del dottore commercialista – si stagliava ormai con nettezza sullo sfondo delle professionalità preesistenti che da decenni, per lo più su basi meramente empiriche, si occupavano delle imprese e delle loro multiformi attività. In attesa di una legge che precisasse le regole per la formazione di appositi albi professionali, le associazioni fra i laureati delle diverse Scuole superiori di commercio curarono l’autonoma pubblicazione di loro elenchi, ispirandosi a norme comuni proposte dalla Federazione Nazionale fra le associazioni dei laureati delle Regie Scuole superiori di commercio e dell’Università Commerciale L. Bocconi, la cui sede, significativamente, era posta in via Solferino 13: allo stesso indirizzo dell’A.L.U.B.

Ci è stato conservato il primo albo dei dottori commercialisti milanesi edito sullo scorcio finale di quel fatidico 1913, probabilmente proprio all’indomani della favorevole sentenza romana. Esso consta di un «Regolamento generale per la formazione degli Albi professionali» che riportiamo integralmente in Appendice e di un elenco di venti commercialisti. Qui vale la pena di ricordare che nel regolamento veniva ribadita la regola del biennio di praticantato, dopo il conseguimento della laurea, da farsi presso lo studio di un iscritto all’albo dei dottori ovvero a quello dei curatori di fallimento[79]. In mancanza di norme peculiari, la categoria assumeva a modello procedurale e normativo di riferimento la legge 8 giugno 1874, riguardante le professioni di avvocato e di procuratore. Se si getta un’occhiata ai venti iscritti del primo albo dei commercialisti milanesi laureati, non si può fare a meno di notare che ben tre quarti di loro si erano addottorati alla Bocconi. Vale altresì la pena di ricordare che, su venti, dodici si fregiavano anche del titolo di ragioniere e tre di quello di avvocato.

Il ruolo svolto da L. Sabbatini in questa vicenda, a Roma come a Milano, è facilmente intuibile. Se ce ne fosse bisogno, una lettera indirizzata al rettore della Bocconi dal primo presidente della Corte d’Appello milanese nella primavera del 1914 testimonia con efficacia la preziosa azione di stimolo e di tutela assicurata dal rettore a quei suoi giovani laureati che avevano scelto d’incamminarsi lungo la non facile via dell’invenzione e della pratica di una nuova professione. Nel ricordare che Sabbatini gli aveva inviato l’Albo dei Dottori commercialisti affinché «fossero tenuti presente nell’assegnazione di perizie giudiziarie», l’alto magistrato precisava che per ottenere l’iscrizione nel relativo ruolo del tribunale «È mestieri […] che ciascuno dei su mentovati dottori presenti domanda corredata del rispettivo diploma professionale o di certificato che ne attesti il possesso e del certificato di penalità»[80]. L’albo professionale, insomma, era ancora percepito come l’elenco dei membri di un’associazione volontaria e, tuttavia, dignità, rango e spazio professionale dei dottori commercialisti andavano assumendo col tempo una fisionomia sempre più precisa.

Nell’ideale bilancio, già di per sé lusinghiero, del primo decennio di attività accademica della Bocconi, fra le altre, l’avvìo del processo di riconoscimento di una professione nuova, frutto di quel fecondo connubio fra cultura scientifica e nozioni tecnico-commerciali cui Leopoldo Sabbatini teneva tanto, ci sembra una delle poste attive più ragguardevoli.


1

Si vedano, più addietro, le pagine dedicate rispettivamente da E. Decleva e da M.A. Romani alla concezione del progetto di una Scuola di commercio e all’avvio della sua realizzazione avanti la primavera del cruciale 1898. In particolare, nell’Appendice documentaria è riprodotta la lettera di F. Bocconi a G. Colombo e la risposta di questi, nonché il testo del primo progetto didattico predisposto da E. De Angeli.

2

In Appendice, si vedano in proposito le osservazioni e le chiose di L. Sabbatini al Progetto di E. De Angeli.

3

Il Regio decreto 20 settembre 1902 n. CCCLXV (parte suppletiva), nell’approvare lo statuto della «Scuola Commerciale Bocconi di Milano» le conferiva il titolo di Università e la facoltà di rilasciare diplomi di laurea alla fine dei corsi. Prima di allora solo la Scuola superiore navale di Genova godeva di un analogo privilegio. Le R. Scuole superiori commerciali di Venezia, Genova e Bari chiesero immediatamente che gli fosse accordata eguale facoltà; che di fatto venne loro concessa con Regio decreto 26 novembre 1903 (n. 476). Solo col Regio decreto 19 gennaio 1905, tuttavia, gli iscritti all’esame di laurea delle tre scuole vennero richiesti di presentare la licenza liceale, o quella d’Istituto tecnico o, ancora, quella di scuola media di commercio. Cfr. in proposito A. Graziani, Ordinamento dell’istruzione superiore, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano (a cura di V.E. Orlando), Milano, 1905, nota 1 a pag. 853. Con legge 20 marzo 1913 venne stabilito che tutte le scuole superiori di commercio italiane avessero gli stessi insegnamenti fondamentali, a parte le lingue, suddivisi in due gruppi; uno di carattere amministrativo contabile comprendente Ragioneria generale ed applicata, Matematica finanziaria, Banco modello e Merceologia; l’altro di carattere economico giuridico comprendente l’Economia politica, la Statistica economica, la Storia e la Geografia commerciale, il Diritto privato, commerciale, marittimo, industriale, pubblico, internazionale, doganale e finanziario. Il modello disciplinare generale cui si conformarono le Scuole commerciali prima e gli Istituti superiori di Torino e di Roma, sorti entrambi nel 1906, risentì costantemente dell’ordinamento didattico della Bocconi.

4

Per Ca’ Foscari si veda E. Gelcich - I. Zolger, Das Kommerzielle Bildungswesen in Italien, Vienna 1908, p. 79; per Genova: Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali, Annuario per l’anno accademico 1929-30, Genova, 1930, pp. 150-151 cortesemente segnalatomi dalla collega P. Massa Piergiovanni; per la Scuola di Bari, per tutti si rimanda al recente A. Di Vittorio, Cultura e Mezzogiorno, etc., cit. Statistiche sul numero degli studenti e dei laureati delle facoltà universitarie italiane sono state pubblicate da C.F. Ferraris, Statistiche, etc., cit.; da C.G. Lacaita, Istruzione, etc., cit.; M. Barbagli, Disoccupazione, etc., cit.

5

Archivio Storico dell’Università Bocconi (A.S.U.B.), Segreteria studenti, libri matricolari, voll. 1-5.

6

C.F. Ferraris, Statistiche delle università, etc., cit.

7

I dati quantitativi sono stati desunti dalle pubblicazioni citate supra, alla nota 84.

8

La serie storica degli iscritti a Economia è stata ottenuta sommando le frequenze della Bocconi con quelle delle tre Scuole superiori di commercio. Per gli altri dati, cfr. C.F. Ferraris, op. cit., passim.

9

Dai primi anni del ’900, tanto presso il Politecnico di Milano, quanto presso quello di Torino, il numero dei laureati in Ingegneria industriale (meccanica, elettrotecnica e chimica) superò ampiamente quello dei laureati in Ingegneria civile. Cfr. C.G. Lacaita, Istruzione, etc., cit., Tabelle XXIX e XXX, pp. 130 e 132.

10

In occasione del censimento del 1911, vennero enumerati 30 mila avvocati, 12 mila ingegneri e 7.366 fra geometri, agrimensori e agronomi. Si veda in proposito Lacaita, op. cit., p. 159.

11

La prima iscrizione, quella del diciannovenne bergamasco Mario Ravelli, venne registrata il 31 luglio. Fino all’11 novembre le iscrizioni ammontarono a 44. Dopo la cerimonia d’inaugurazione, vennero iscritti altri 19 studenti entro il primo dicembre 1902.

12

Cfr. Annuario, 1902-3, p. 4.

13

Le diverse statistiche che riportano il numero degli iscritti al primo anno di corso danno 65 studenti. In realtà solo 63 vennero immatricolati entro la fine del 1902; altri due vennero rispettivamente aggiunti a metà febbraio e ai primi di aprile del 1903, avendo optato per l’iscrizione dopo aver cominciato a frequentare i corsi in veste di uditori, cfr. A.S.U.B., Libri matricolari, 1.

14

Con notevole tempismo, grazie anche alle entrature di cui godeva in molti ambienti romani, il 17 novembre 1902, per i suoi studenti Sabbatini ottenne dal Ministero della guerra di ritardare la chiamata al servizio di leva fino al ventiseiesimo anno d’età, secondo le norme valide per gli iscritti alle Regie università, cfr. A.S.U.B., b. 22/2. Nel marzo del 1903 Sabbatini avviò pratiche presso le amministrazioni delle società ferroviarie onde ottenere anche per gli studenti bocconiani facilitazioni tariffarie analoghe a quelle riconosciute agli iscritti presso i regi atenei, cfr. Ibidem, b. 277/1.

15

Cfr. A. Graziani, Ordinamento dell’istruzione, cit. Per le polemiche suscitate dalla fondazione si veda E. Resti, Ferdinando Bocconi dai grandi magazzini all’Università, Milano, 1990, pp. 111-117.

16

Cfr. Appendice, la Tabella 4.2 a p. 360.

17

Per i dati di base si rimanda a V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia, Bologna, 1978; per ulteriori elaborazioni e classificazioni in zone omogenee cfr. il mio La genesi della società contemporanea europea, lineamenti di storia economica e sociale dal XVIII secolo alla prima guerra mondiale, Parma, 1992, p. 485.

18

Ibidem.

19

Per tutti si vedano R. Romanelli, L’Italia liberale, Bologna, 1990 nonché E. Gentile, L’Italia giolittiana, Bologna, 1988.

20

Cfr. D. Musiedlak, Université privée et formation de la classe dirigeant: l’exemple de l’université L. Bocconi de Milan (1902-1925), Ecole Française de Rome, Roma, 1990, pp. 79-80.

21

Le borse più povere prevedevano la corresponsione di 400 lire annue, la somma corrispondente all’importo delle tasse scolastiche, le più ricche superavano anche le mille lire l’anno. Alla fine del 1906, le borse arrivate presso la Bocconi erano già 40 alle quali il fondatore ne aveva aggiunte altre per permettere agli studenti di perfezionarsi nelle lingue trascorrendo un soggiorno all’estero durante le ferie estive. Cfr. «Bollettino della Associazione tra i Laureati della Università Commerciale Luigi Bocconi», anno l, n. 1, pp. 10-11. In termini di potere d’acquisto, una borsa da 400 lire annue corrispondeva a circa 130 giornate di salario di un operaio specializzato milanese operante nel settore metalmeccanico.

22

Cfr. C.G. Lacaita, op. cit., p. 92; M. Barbagli, op. cit., pp. 154-155.

23

Fin dal 1888, con l’istituzione dell’esame di licenza ginnasiale in quinta, era stata predisposta una via d’uscita dagli studi classici per dar modo a chi lo desiderava di abbracciare gli studi tecnici, C.G. Lacaita, op. cit., p. 90 (nota 1).

24

Ibidem, «Il vecchio sistema scolastico, che riservava l’istruzione superiore a una piccola minoranza soltanto, sembrava profondamente scosso dal processo sociale ed economico in atto nel paese», p. 93.

25

La lungimiranza di L. Sabbatini che, nonostante venissero fatte pressioni, ammise come uditori quei giovani che non disponevano della licenza di scuola superiore, venne premiata con la concessione della laurea in Scienze economiche e commerciali, cfr. supra, la nota 3.

26

In A.S.U.B., alla b. 276/4, è conservato un corposo dossier di equipollenze riconosciute ai titoli di studio rilasciati da scuole estere. I paesi di appartenenza sono: Argentina; Austria; Belgio; Brasile; Bulgaria; Cina; Egitto; Francia; Germania; Siria; Palestina; Grecia; Usa; India; Svizzera; Jugoslavia; Turchia; Perù; Russia; Spagna; Tunisia; Ungheria; Uruguay.

27

Cfr. Annuario, 1904-05, p. 6.

28

Ibidem.

29

C.G. Lacaita, op. cit., pp. 96-97.

30

Così recita «il Bollettino ufficiale del Ministero dell’Istruzione pubblica» del 15 dicembre 1898 nel Regio decreto n. 488, alle pp. 2322-2323.

31

C.G. Lacaita, op. cit., pp. 96-97.

32

Si veda l’Annuario 1922 del R. Istituto di Studi Commerciali in Milano, Milano, 1922, p. 15. L’Istituto, sorto nel 1901 per iniziativa dell’associazione milanese Commercianti, Esercenti e Industriali, venne «regificato» nel 1907 e pareggiato all’Istituto tecnico ed al liceo per effetto della legge di riforma dell’istruzione professionale superiore del 1912. Tale normativa venne predisposta dopo lungo studio da una commissione mista ministeriale, istituita nell’aprile 1910, comprendente funzionari ed esperti dei due ministeri interessati: quello dell’Istruzione pubblica e quello dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Ai lavori della commissione partecipò come esperto di nomina ministeriale lo stesso Sabbatini, cfr. A.S.U.B., b. 22/3.

33

A.S.U.B., Libri matricolari, passim.

34

Sulla tenuta della preferenza del liceo rispetto alle altre scuole secondarie in questa parte d’ltalia anche durante il periodo giolittiano si veda C.G. Lacaita, op. cit., la Tabella XXVI, a p. 97. A conclusioni analoghe perviene M. Barbagli, Disoccupazione, etc., cit., pp. 126-133.

35

Cfr. Associazione fra i laureati dell’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano, Nel primo quarantennio di vita dell’università, Milano 1941, Tabella 4, p. 38, dove si vede che le medie dei punteggi conseguiti dai laureati provenienti da scuole tecniche superarono costantemente quelle dei voti ottenuti da laureati di cultura liceale, benché dall’inizio alla fine del periodo si possa notare un’attenuazione del divario.

36

Le due percentuali sono state computate sulla base delle serie storiche edite da T. Bagiotti, Storia dell’Università Bocconi, 1902-1952, Milano, 1952, pp. 262 e 265.

37

Ibidem.

38

Si veda, nell’Appendice documentaria, il «Programma Sabbatini» al paragrafo intitolato «Corsi generali e corsi speciali». In una memoria interna di Segreteria (A.S.U.B., b. 7/3) i corsi speciali svolti dal 1903-4 al 1910-11 risultavano: Legislazione sociale (la questione economico-agraria nell’Italia meridionale); Igiene del lavoro; Le tariffe doganali e i trattati di commercio; Le tre quistioni (sic) d’Oriente, Africa ed estremo Oriente; Storia delle Colonie e Diritto e Politica doganale; Le funzioni dei Consoli; L’emigrazione; Ordinamento e applicazione delle tasse sugli affari; Legislazione comparata su la procedura dei concordati e dei fallimenti; Diritto marittimo; Diritto cambiario; I depositi commerciali; Il fallimento; Teoria matematica delle assicurazioni sulla vita; Ordinamento e funzionamento amministrativo e contabile delle aziende d’assicurazione; Ordinamento ferroviario; l valichi alpini in rapporto agli scambi internazionali; Operazioni di borsa; Pratica bancaria.

39

Il Regolamento per gli esami prevedeva un appello nella prima metà di luglio e l’altro nella seconda metà di ottobre, cfr. «Pareri espressi dal Collegio dei Professori nella sua adunanza del 14 gennaio 1903», in A.S.U.B., b. 7/2 e supra la parte di questo libro redatta da A. De Maddalena.

40

Nei prospetti delle materie d’insegnamento più volte pubblicati negli annuari, il totale generale delle ore ne prevedeva 27 per il primo anno e 26 per i tre anni rimanenti, cfr. Annuario, cit. (1912), p. 9.

41

A.S.U.B., Libri matricolari, cit., voll. 3 e 4, qualche traccia di iscrizioni di uditori nelle immatricolazioni degli anni 1909-1911.

42

Alcuni dati, per esempio, in «Bollettino dell’Associazione tra i Laureati dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano», n. 11, agosto 1921, Milano 1921, p. 75.

43

Gli uditori, peraltro previsti anche dal Regolamento generale universitario, potevano chiedere di sostenere un esame sui corsi ai quali si fossero iscritti. L’esame era però dato solo dal professore della materia e non poteva avere effetto nella eventualità che l’uditore venisse iscritto come studente, cfr. Regolamento dell’Università, art. 33, in Annuario, cit., passim.

44

Per una migliore intelligenza della collocazione delle singole discipline rispetto alle altre impartite nel medesimo anno si veda il piano di studi elaborato da L. Sabbatini pubblicato e discusso più sopra da M.A. Romani, alle pp. 130-133.

45

Gli ingegneri erano ammessi direttamente al terzo anno dopo aver sostenuto un esame sulle discipline del primo biennio. Parimenti, quegli studenti che avevano frequentato almeno due anni di una facoltà di Giurisprudenza, di Matematica e Fisica o il biennio d’Ingegneria potevano essere ammessi al secondo anno previo esame. Il regolamento vietava comunque la contemporanea iscrizione alla Bocconi e ad un altro corso di laurea. Per tutti questi aspetti particolari si veda D. Musiedlak, op. cit., pp. 92-93.

46

Ibidem, pp. 79-81. II confronto delle gerarchie sociali espresse dalle famiglie dei bocconiani con quelle individuate da M. Barbagli per tutti gli studenti italiani dell’indirizzo economico sulla scorta di informazioni censuarie risalenti al 1911 mette in luce un ben diverso profilo. In sintesi, solo il 37,4% dei bocconiani veniva da famiglie alto borghesi, contro una percentuale nazionale del 48%. Viceversa, i figli di impiegati, commercianti e agricoltori erano in Bocconi il 56,6% contro un valore di 42 per la media nazionale. Cfr. M. Bardagli, op. cit., Tabella 5.4, p. 193.

47

Molti degli iscritti degli anni 1912, ’13 e ’14 parteciparono attivamente alla guerra. Ovviamente non sono state contate fra gli abbandoni le morti in combattimento e quelle derivate da gravi ferite o malattie contratte nel corso del servizio militare.

48

Il Regolamento è integralmente riportato alla nota 92 a pag. 203 della parte qui estesa da A. De Maddalena. Esso prescriveva fra l’altro il deposito della dissertazione scritta presso la segreteria «non più tardi rispettivamente del 10 luglio e del 10 ottobre di ogni anno».

49

Con qualche rara lacuna, le tesi sono conservate in Biblioteca generale dell’Università L. Bocconi.

50

La tesi più smilza fra quelle discusse entro l’ottobre del 1914 consta di soli 19 fogli dattiloscritti. Fu presentata dallo studente F. Bellini sull’argomento «La partecipazione ai profitti» e discussa col professor Ulisse Gobbi nel luglio del 1908. Delle 330 tesi censite, il 10% non arriva a 50 pagine e il 4% supera le 300.

51

La tesi di C. Finocchiaro porta il numero 29 d’inventario.

52

La tesi di M. Boldrini porta il numero 253 d’inventario.

53

Un qualche esempio: A. Betti, La disoccupazione (relatore C. Supino); C. Catelli, Il lavoro della donna nell’industria (relatore U. Gobbi); O. Trevisan, Dell’interesse dell’operaio e dell’imprenditore capitalista; G. Bressi, Il lavoro in risaia e la legge 16 giugno 1908 (relatore C. Supino); C. Cozzi, Gli odierni indirizzi del movimento operaio in Italia (relatore C. Supino); A. Cantini, La disoccupazione operaia in agricoltura; E. Castelbolognesi, Il movimento cooperativo operaio nella provincia di Reggio Emilia; E. Bonardi, La speculazione sulle aree fabbricabili a Milano dal 1890 al 1910.

54

D. Musiedlak, op. cit., specialmente i capitoli 5 e 7.

55

Ibidem.

56

I primi laureati del 1906 furono anche i fondatori e i primi membri dell’Alub. Nel primo Bollettino dell’associazione pubblicato nel 1907 sono elencati i nomi dei trentasette soci fondatori alle pagine 4 e 5.

57

Nel primo quarantennio di vita, etc., cit.

58

Curarono la redazione dei testi per la pubblicazione: Marcello Boldrini, Furio Cicogna, Attilio Gerelli, Libero Lenti, Evian Medici, Pier Antonio Pezzoli, Giacomo Zonchello. Cfr. Nel primo quarantennio, cit., p. 7.

59

Si veda la Figura 4.12 a p. 348 e la corrispondente Tabella 12 nell’Appendice al termine di questo saggio.

60

In effetti, l’area milanese e lombarda tratteneva un certo numero di laureati bocconiani originari di altre parti della penisola. Cfr. in proposito A.L.U.B., Nel primo quarantennio, etc., cit., Tabella 10 p. 45 e D. Musiedlak, op. cit., p. 204, dove lo studioso francese afferma che quasi il 56 per cento dei laureati entro il 1915 attorno al 1940 erano attivi in Lombardia e poco meno del 65 per cento si distribuivano fra Lombardia, Piemonte e Liguria.

61

Ibidem, pp. 187-191

62

Ibidem, Tabella 16, p. 167.

63

Ibidem, alle pp. 168-191 l’autore offre un quadro ben informato degli uomini e delle istituzioni, soprattutto con riferimento agli anni 1925-1945.

64

Ibidem, uomini della Comir come F. Weil e C. Mangili parteciparono peraltro alla conduzione della Bocconi fin dagli inizi.

65

Si vedano le pagine dedicate all’argomento da E. Decleva, all’inizio del presente volume.

66

A.S.U.B., b. 1, Decisione della quarta sezione del Consiglio di Stato sul ricorso di Finzi Umberto ed altri contro la Camera di Commercio di Milano e il Comune di Milano presa il 17 settembre 1913, passim.

67

A.S.U.B., b. 1, Istanza presentata il 20 gennaio 1913 alla Presidenza della Camera di Commercio di Milano da dodici ragioneri collegiati.

68

Ibidem, passim.

69

Presidente del Collegio era il Commendator Professor Ragionier Ernesto Cazzaniga. Cfr. A.S.U.B., b. 1, Decisione della quarta, etc. cit.

70

T. Bagiotti, Storia dell’università Bocconi, 1902-1952, pp. 28-29.

71

A.S.U.B., b. 1, E. Bronzini-L. Majno, Ecc.ma Sezione IV del Consiglio di Stato, Memoria della Camera di Commercio di Milano, etc., contro il ricorso […] col quale si chiede l’annullamento del ruolo dei curatori di fallimento da essa formato pei tribunali di Milano, Busto Arsizio e Monza per il triennio 1913-1915, p. 13.

72

Ibidem.

73

Ibidem. Nell’imminenza dell’udienza, il 24 giugno, Majno scriveva a L. Sabbatini: «i ricorrenti esclusi dal ruolo – e principalmente il Collegio dei Ragioneri – si scagliano in modo speciale contro la inclusione dei laureati della università commerciale» e proseguiva «Il ricorso del Collegio Ragionieri è davvero sconveniente». Cfr. A.S.U.B., b. 1.

74

E. Bronzini-L. Majno, op. cit., pp. 13-14.

75

Copia della sentenza è conservata nella b. 1 di A.S.U.B. più volte citata. Essa stabilisce che la Camera di commercio «non ha commessa illegalità alcuna, ma esplicitato una estimazione comparativa che rientrava nell’ufficio e nei poteri suoi. Certo non è dato costituire a favore di nessuno preferenze aprioristiche, ma per quanto concerne la sufficienza di titoli d’idoneità professionale al concorso e, se lo può, la valutazione di esse, nei confini ristrettissimi nei quali si contende, le pertiene esclusivamente».

76

A.S.U.B., b. 1, Federazione nazionale dei Dottori in Scienze Commerciali, G. Graziani, Memoriale all’on. Consiglio superiore dell’industria e del Commercio per la formazione dei Ruoli di Curatori di Fallimento, Milano, s.d. (ma post 20 marzo 1913), p. 3. In tale documento, a p. 4, è riportata la mozione votata in occasione del primo congresso dei Dottori in Scienze economiche e commerciali, tenutosi a Torino nell’ottobre del 1911, nella quale si auspicava «che la nostra più intelligente magistratura volesse dare a questo irrefragabile diritto dei Dottori in Scienze Commerciali e Licenziati dalle Scuole Superiori di Commercio la legale consacrazione di fatto».

77

Ibidem, p. 3.

78

Ibidem, p. 12.

79

A.S.U.B., b. 1, Albo dei Dottori in Scienze Economiche e Commerciali esercenti la libera professione, Milano, 1913.

80

A.S.U.B., b. 1, Lettera per la assegnazione di perizie giudiziarie, Milano 14 aprile 1914.