Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

Introduzione


Parole chiave: Strutture organizzative, Milano, Famiglia Bocconi, Contestazione

La pubblicazione del III volume della Storia di una libera Università, di Marco Cattini, Aldo De Maddalena e Marzio Achille Romani, contribuisce ad allargare il significato della ricorrenza del Centenario della fondazione della Bocconi, che quest’anno celebriamo con particolare solennità. Se il traguardo dei cento anni rappresenta per se stesso un fatto simbolico, è proprio a partire dalla lezione del passato che il nostro sguardo può proiettarsi nel domani. Una seria riflessione sul futuro e sulle prospettive dello sviluppo non può infatti procedere disgiunta dalla chiara consapevolezza delle nostre origini e da una conoscenza della specifica vocazione culturale dell’Ateneo, come si è venuta delineando nell’arco del suo secolo di storia.

Sentiamo che la nostra Università sta cambiando profondamente. È un cambiamento scritto nei segni esteriori; ma è al contempo insito nelle scelte operate nel corso degli ultimi dieci anni. Lo vediamo attorno a noi nell’imponente novità delle forme architettoniche che sorgono ormai a ritmo incalzante, realizzando nella dimensione dello spazio l’istanza di un più ampio e ordinato svolgimento della vita della nostra comunità. Lo sentiamo nella coraggiosa e innovativa sintesi didattica che la nuova offerta di corsi di laurea e il ridisegnarsi dei corsi più tradizionali esprimono nitidamente. Lo realizziamo ogni giorno in quel processo di crescente internazionalizzazione che coinvolge le iniziative di ricerca scientifica della Bocconi – sempre più spesso frutto di una collaborazione di gruppo, non restringibile all’orizzonte locale o nazionale. Lo avvertiamo, ancora, nel costante sforzo di rinnovamento della formazione degli studenti; nel fitto interscambio di esperienze che a tutti i livelli viene articolandosi con i diversi Paesi e ambienti accademici e culturali; nel rafforzamento dell’impianto interdisciplinare, volto ad ampliare quanto più possibile lo spettro educativo degli allievi della Bocconi.

Eppure sappiamo bene che il percorso di cambiamento che abbiamo imboccato non è avulso dalla matrice originaria che altri ne ha guidati e ispirati nel corso di un intero secolo. Esso è anzi inscritto in quel progetto di modernità e in quella tensione di modernizzazione che la nostra Bocconi ha da sempre incarnato in sé e nei suoi uomini. Un progetto la cui concezione è già tutta presente in quello che a buon diritto può ritenersi l’atto costitutivo dell’Università, il Programma di Leopoldo Sabbatini – primo presidente e Rettore. Da esso l’istituzione emerge nella sua fisionomia originale, nella sua aspirazione a esprimere un modello di modernità che, applicato alla cultura e al sapere, garantisca a essi la centralità che sempre meritano nello sviluppo della comunità umana. Del resto, se i padri fondatori percepirono con particolare urgenza l’istanza di modernizzazione posta alla neonata Università dalla loro epoca di frenetici cambiamenti, uno stimolo analogo s’impose nell’immediato ultimo dopoguerra alla generazione che gestì la ricostruzione e la crescita della Bocconi. E s’impone oggi a noi, in un momento in cui al nostro Paese e alla cultura italiana è chiesto ancora una volta un grande sforzo di modernizzazione, per dotarsi delle risorse morali e intellettuali che sole possono renderci pienamente partecipi di quel processo di integrazione della conoscenza e delle economie che è in corso a livello europeo e mondiale.

Ancora una volta l’Università Bocconi è pronta a maturare il proprio contributo, mettendo a disposizione il suo «patrimonio di modernità», l’attaccamento ai valori fondanti che ne hanno sempre regolato e qualificato lo sviluppo: l’attitudine all’innova zione e a una funzione di «avanguardia» nel contesto nazionale e internazionale; il rigore scientifico che, fin dal 1902, costituì la dinamica profonda del riqualificato studio delle discipline economiche; l’apertura alla società e alla vita economica, come principio di benefica «contaminazione» tra teoria e prassi, tra accademia e realtà operativa, capace di fondare un rapporto dialettico con il sistema delle imprese e con le istituzioni.

Ogni autentica maturazione è sempre, in qualche modo, un tornare in se stessi, un ritrovare attraverso il proprio passato il senso del proprio futuro. Con tale consapevolezza ci disponiamo dunque a seguire, nelle pagine di Cattini, De Maddalena e Romani, la ricostruzione della fondamentale fase di «rinascita postbellica» del nostro Ateneo, che ci accompagna fino alle soglie della Bocconi contemporanea.

Il terzo volume della Storia di una libera Università copre il periodo che va dal 1945 al 1972. Due gli estremi tra cui questa storia è compresa: la normalizzazione seguita al periodo bellico da un lato; i moti della contestazione studentesca e l’avvio del processo di riforma dall’altro. In quest’arco di tempo tre diversi rettorati di altissimo profilo si avvicendarono nella compagine di un gruppo dirigente di grande e solidale compattezza. Essi contribuirono – ciascuno secondo il proprio tempo e la propria specifica sensibilità – a traghettare la Bocconi all’approdo degli anni ’70 e a molte delle intuizioni che tutt’oggi sorreggono intatte il nostro impegno.

Non crediamo di esagerare se diciamo che la Bocconi era uscita dal conflitto bellico come l’Italia stessa: ferita, offesa, frastornata. La brutalità dell’ultima fase del regime fascista, le devastazioni e i lutti che la guerra aveva ovunque disseminato, non avevano lasciato indenne la nostra Università. Nonostante quel provvidenziale ombrello di protezione che l’illuminato vicepresidente di allora, il senatore Giovanni Gentile, aveva saputo stendere sull’Ateneo, garantendogli anche nei periodi più foschi la prosecuzione delle attività e la sostanziale indipendenza dal regime, la Bocconi usciva pesantemente colpita dal periodo bellico. Le leggi razziali del 1938 l’avevano privata di alcuni tra i suoi maggiori talenti di scienziati: basti pensare a Gustavo Del Vecchio e a Giorgio Mortara, che avevano improvvisamente dovuto abbandonare la loro cattedra bocconiana e rifugiarsi all’estero – il primo lasciando l’Università orfana del Rettore, il secondo privando il «Giornale degli Economisti» del suo stimato direttore: entrambi indebolendo un corpo docente già provato dalle angustie del periodo. Diversi studenti e laureati, richiamati al fronte, erano rimasti feriti o avevano perso la vita in circostanze tragiche. E chi non aveva subito danni fisici dalla guerra aveva spesso dovuto attendere ad altre priorità, con grave ritardo o persino con la brusca interruzione degli studi. Le stesse strutture dell’Ateneo erano risultate danneggiate, se non in modo irreversibile, comunque in modo assai serio dalle ultime fasi del conflitto, che avevano visto imperversare sulla città di Milano i martellanti bombardamenti alleati. Così la cronaca angosciosa di quei momenti, nella corrispondenza del direttore Girolamo Palazzina con Giovanni Gentile: «Ho ricevuto finalmente notizie dirette della ns. Università che nell’ultima incursione ha sofferto danni notevoli per la caduta di una bomba dirompente nel cortile interno […]. Tutti i vetri superstiti dell’Università sono infranti.  Le aule […] sono molto danneggiate; meno la mensa. Intatta la biblioteca. I telefoni guasti e la luce elettrica funziona solo in parte. Soffitti perforati. Serramenti svitati. Muri lesionati. Lo spettacolo di Milano è terrificante».

Ma alla conta dei danni della guerra e del regime fascista subentrò presto una diffusa voglia di rinascita che, presente in tutto il Paese, investì poderosamente la stessa Bocconi, gettando le basi di quella che sarebbe stata una nuova fiduciosa stagione di sviluppo.

Libero Lenti, l’economista allievo di Giorgio Mortara, nella sua analisi economico­politica del ’44, gli Elementi per un piano di ricostruzione economica dell’Italia, aveva già avvertito il fermento di innovazione e razionalizzazione economica che si stava «preparando» e che sarebbe scaturito dall’esaurirsi del conflitto mondiale, ma difficilmente avrebbe potuto prevedere lo slancio straordinario che il nostro Paese seppe poi dimostrare: «[…] Riprodurre fedelmente, nell’opera di restaurazione, i vecchi lineamenti della struttura industriale italiana oppure cercare di meglio adattarli alle nuove necessità nazionali e internazionali? Senza dubbio, dal punto di vista dell’interesse collettivo, pare conveniente che l’apparato produttivo italiano tragga profitto dalle distruzioni per risorgere irrobustito, coll’eliminazione di doppioni ed attività non vitali, fornite di aiuti economici». In effetti, se nel 1945 la produzione industriale italiana è ridotta a circa un quarto di quella del 1938 – ultimo anno di pace in Europa – già nel 1949 essa torna ai livelli dell’anteguerra e nel quinquennio 1950­1955 in media mostra addirittura un incremento del 10%.

La personalità irruente e al tempo stesso pionieristica di Giovanni Demaria – primo ad assumere il rettorato nel dopoguerra, che egli assolse dal 1945 al 1952 – contribuì a stabilire quel clima di immaginosa creatività che contraddistinse la Bocconi nei suoi primi anni di ricostruzione postbellica. Demaria era approdato nella nostra Università nel 1939, in qualità di professore di Economia politica in sostituzione di Gustavo Del Vecchio, ma si era subito distinto per la sua capacità intellettuale e scientifica. Assurto alla massima carica della facoltà, con la stessa energia si impegnò nella difficile ricostituzione di un’adeguata dotazione didattica e scientifica per la Bocconi, falcidiata dalla guerra e dalle epurazioni che a essa erano seguite. Ma la sua straordinaria intraprendenza gli fece subito intravedere la necessità, per la Bocconi, di intessere un’ampia trama di rapporti esterni: da un lato con la società milanese e con la imprenditoria nazionale, dall’altro con il mondo della cultura internazionale. Dal tentativo di riallacciare i contatti con istituzioni anglosassoni come la Fondazione Serena – cui la Bocconi era stata legata fino allo scoppio della guerra – ai rapporti stabiliti con la Fondazione Rockefeller o alla creazione di un primo programma di scambi con università straniere, Demaria si dimostrò sempre consapevole dell’importanza dell’apertura internazionale come chiave per il successo dell’impresa scientifica e per la modernità della formazione. Tutt’oggi, quella stessa filosofia culturale di cui Demaria e i suoi colleghi e collaboratori si fecero così precocemente interpreti rimane alla base degli articolati programmi di mobilità e collegamento internazionale che la nostra Università ha sviluppato e non cessa di espandere.

Certo, non tutti i sogni divennero realtà. Come l’idea di una succursale americana della Bocconi, così ardita e prematura quanto carica di ottimismo ed entusiasmo. Un ottimismo e un entusiasmo che in quei momenti animarono l’intera comunità bocconiana, tanto povera di mezzi, quanto ricca di iniziativa, solidarietà e spirito di corpo. Maxima de nihilo nascitur historia, non ci sembra quindi inadeguato cogliere questa atmosfera di alacre inventiva, con cui si riuscì spesso a supplire ad alcuni bisogni fondamentali dell’attività scientifica, nella giocosa lettera che il bibliotecario di allora, il professor Fausto Pagliari – uno tra i grandi artefici di quell’inestimabile patrimonio librario e documentario costituito dalla nostra biblioteca – inviava a Paolo Baffi, altro celebre bocconiano già presso la Banca d’Italia: «Caro dott. Baffi, […] quel bibliotecario fenomeno, come il fanciullo grasso del circolo Pickwick, ha appreso solo ora che ci sarebbe la possibilità per gli istituti culturali e persino privati studiosi di fare pagamenti in Inghilterra e negli Stati Uniti per acquisti di pubblicazioni o abbonamenti a periodici a condizioni di cambio di favore, dopo essersi finora grattato la pera per non sapere come avere pubblicazioni da quei lontani paesi, salvo attraverso i librai e a mezzo di cambi col “Giornale degli economisti” che sono stati per noi una vera cuccagna. […] 28 dollari per “Econometrica” e sterline 12 e 12 scellini per il “Journal of the Royal Statistical Society”: una bella sommetta, almeno per noi che non siamo la Banca d’Italia, con tutto quel suo oro e quella carta. Vorrebbe lei illuminare questo “principe della biblioteconomia”, vero pulcino nella stoppa, facendogli sapere […] cosa si deve fare per raggiungere l’onesto intento di pagare i debiti col minor sacrificio?».

Nel 1946, la Bocconi varò un nuovo corso di laurea in Lingue, aprendo così un processo di diversificazione dell’offerta didattica che avrebbe trovato piena conferma negli anni successivi, con la costante attenzione a modulare secondo un criterio di estrema flessibilità la gamma degli insegnamenti e delle specializzazioni riservate ai laureati. Anche in questo il rettorato Demaria dimostrò il suo dinamismo e la sua capacità di precorrere i tempi, fornendo una opportunità formativa di prim’ordine ai tanti studenti avviati a una vasta gamma di professioni sia nel campo dei commerci e dei traffici internazionali, sia nelle carriere di docenza delle lingue e delle letterature straniere. Ma toccò soprattutto al successivo Rettore, Armando Sapori, gestire lo sviluppo e il non sempre facile equilibrio tra i due corsi di laurea all’interno della facoltà.

Armando Sapori, senese, apprezzato docente di Storia economica, resse la facoltà ininterrottamente per ben quindici anni, dal 1952 al 1967. Fu il rettorato più lungo della storia della Bocconi e come tale costituì, anche grazie alla natura grandemente liberale ed equilibrata dell’uomo, la condizione ideale per un periodo di crescita tra i più formidabili nella storia dell’Ateneo. Del resto, già dalla seconda metà degli anni ’50 la società italiana stava cambiando fisionomia e richiedeva alle istituzioni universitarie di compiere un cospicuo salto in avanti, sia sul piano qualitativo sia su quello delle strutture e delle capacità organizzative. La nostra Università non mancò di raccogliere tale sfida, cimentandosi, proprio sotto Sapori, in un’impegnativa opera di rafforzamento degli organici e del corpo docente, nell’ampliamento degli spazi e dei servizi di accoglienza agli studenti, nel potenziamento degli istituti e della biblioteca.

È peraltro difficile esagerare il significato di alcune scelte e orientamenti che si affermarono durante il rettorato Sapori. Nel 1955, il varo del «Corso biennale per dirigenti d’azienda» fu espressione di una intuizione senza precedenti in Italia: si rivendicava, infatti, una centralità del tutto inedita per la formazione post­laurea nell’ambito dei programmi di sviluppo dei quadri dirigenti d’impresa e si pretendeva che di essa si dovesse in primo luogo incaricare proprio l’università. Il corso si protrasse fino alla fine degli anni ’60 quando, subìta la necessaria riformulazione didattica e organizzativa sul modello delle più accreditate business schools d’oltreoceano, trasfuse la propria esperienza formativa nella neonata Scuola di Direzione Aziendale (1971), tutt’oggi asse portante del progetto didattico della Bocconi a favore delle imprese e dei loro staff direttivi. Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 nacquero o vennero rafforzati i primi centri di ricerca del nostro Ateneo e furono lanciate alcune scuole di perfezionamento. Tra questi: il Centro di ricerca operativa in Statistica, vero fiore all’occhiello dei metodi quantitativi in Bocconi, successivamente affiancato da una Scuola di perfezionamento post­laurea nella medesima materia; l’Istituto di studi sulle borse valori «Lorenzetti», che consacrò il proprio impegno all’approfondimento dei meccanismi che regolavano il funzionamento dei mercati dei capitali, sempre più imprescindibili per un Paese in piena fase di ricostruzione industriale, come l’Italia; lo IEFE, Istituto di Economia delle fonti di energia, immediatamente assurto a polo di rilevanza nazionale nella definizione delle politiche energetiche.

Ricerca applicata e formazione post­laurea diventarono, tra gli anni ’70 e i nostri giorni, due dei principali campi in cui si rese manifesta la volontà dell’Ateneo di incanalare e rendere fruibili, attraverso segmenti di offerta specializzata, lo straordinario patrimonio scientifico e l’esperienza didattica di cui era depositario. Se allora quelle prime iniziative avrebbero potuto sembrare audaci sperimentazioni pionieristiche, oggi sappiamo che non fu così. La vasta gamma di centri di ricerca, corsi di specializzazione, master e PhD di cui la Bocconi si è dotata costituisce, infatti, il necessario complemento di un sapere scientifico di base e di una formazione culturale che l’Università sa bene non potersi confinare in uno schema chiuso che non guardi, da un lato, alle imprese e alle professioni, dall’altro, ai percorsi di specializzazione e applicazione, come sbocchi naturali di tale sapere e formazione.

Il rettorato Sapori coincise anche con uno dei frangenti istituzionali cruciali nella storia della nostra Università. Mette conto ricordare che, dopo la tragica morte del senatore Giovanni Gentile, nel 1944, alla vicepresidenza del Consiglio di Amministrazione fu nominato Furio Cicogna, laureato della prima leggendaria leva bocconiana, quella del 1906. Mentre alla guida dell’Università, nella carica di presidente, era rimasta Donna Javotte Bocconi Manca di Villahermosa, consorte dell’ultimo esponente della famiglia Bocconi, Ettore, e ultima erede del patrimonio familiare. Donna Javotte nel 1956, convinta della necessità che l’Ateneo accelerasse il proprio sviluppo e fosse in ciò accompagnato da una presidenza più disposta ad assecondarne le rapide dinamiche di cambiamento, ritenne opportuno fare un passo indietro per lasciare la Bocconi nelle mani dello stesso Cicogna, da allora a tutti gli effetti divenuto presidente. Al contempo, con il rigore e la liberalità che sempre avevano contraddistinto la famiglia fondatrice, volle compiere un ultimo atto a favore della grande istituzione fondata dal suocero Ferdinando, destinando tutti i propri beni alla Associazione «Amici della Bocconi», la fondazione incaricata di assicurare il futuro dell’Istituto. Non occorre sottolineare il valore indelebile di quella scelta, operata a garanzia di una autonomia finanziaria che è stata e resta condizione imprescindibile della libertà del nostro Ateneo. Alla munificenza e lungimiranza di quell’atto, iscritto nella continuità di una dedizione straordinaria che tutta la famiglia del fondatore sempre dimostrò verso la sua amata creatura, intendiamo ancora una volta rendere un omaggio commosso nella cornice del Centenario della fondazione dell’Ateneo.

Intanto, già sul finire del rettorato Sapori, negli ultimi anni ’60, si notò che l’atmosfera in Bocconi era definitivamente mutata. Ciò traspare molto bene dal tono con cui Armando Sapori si rivolgeva ai rappresentanti degli studenti in un intervento del 1964: «Noi siamo sempre pronti al colloquio, ma in nessun caso potremmo accettare che voi impostiate la vostra azione o avanziate richieste su un piano sindacale. Il rapporto che corre tra voi e noi non è questo: noi non siamo i padroni, ma solo dei vostri compagni più adulti, più ricchi di esperienza di voi, che hanno il compito di guidarvi, di segnare il vostro cammino. […] Voi che siete giovani, dovete essere con noi, garanti e fieri della autonomia della nostra Università […]». Ma quanti appelli come questo furono efficaci o caddero nel vuoto è veramente difficile dire. Di fatto la cosiddetta «contestazione studentesca» si preparava a investire anche la nostra Università, in un vortice che non risparmiò se non poche tra le più importanti istituzioni accademiche italiane e straniere. Del resto, il vento della protesta stava spirando sempre più impetuoso negli Stati Uniti e nel Nord europeo. Un diffuso movimento aveva preso le mosse in America quello stesso anno, saldandosi con l’opposizione alla guerra nel Vietnam e con la rivolta dei ghetti neri metropolitani, per poi allargarsi a un’Europa immersa nella guerra fredda e caratterizzata da una dura contrapposizione tra destra e sinistra. Dai sit-in nei campus americani si passò presto alla occupazione delle università e agli scontri di piazza del ’68.

Toccò a Giordano Dell’Amore, allievo di Gino Zappa e figura insuperabile, gestire il periodo della contestazione. Egli aveva assunto il rettorato alla fine del 1967, proprio alla vigilia del periodo di più gravi tensioni vissuto dalla Bocconi; ma riuscì a convertire un fenomeno di aspra e prolungata protesta, in sé potenzialmente disgregante, in una delle più straordinarie occasioni di rinnovamento didattico mai conosciute dall’Università.

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Già relatore della commissione che con lungimiranza era stata istituita qualche anno prima – sotto Sapori – con il compito di studiare un progetto di riforma degli ordinamenti didattici, mise mano a un nuovo disegno dei corsi di laurea che, per conseguenze sulle logiche della formazione e significato culturale complessivo, rimane una pietra miliare nella storia dell’Università. Dall’anno accademico 1970-­71 la Bocconi avrebbe aperto due diversi percorsi economici: il corso di laurea in Economia politica e il corso di laurea in Economia aziendale. I due corsi, pur alimentandosi a un comune ceppo di sapere economico di base, riconoscevano la necessità di uno specifico approfondimento di studio per i due campi dell’Economia politica e dell’Economia aziendale, e ratificavano in modo definitivo, anche sul piano didattico, quell’alta dignità che gli studi aziendalistici si erano conquistati proprio in Bocconi, sotto il magistero di Gino Zappa e dei suoi numerosissimi epigoni.

Se già il nuovo impianto dei corsi di laurea poneva al centro della progettualità didattica le scienze economiche, la soppressione del corso di laurea in Lingue, deliberata dal Consiglio di Amministrazione a metà del ’68, dette conferma del deciso orientamento che la Bocconi volle darsi nel mutato universo accademico nazionale e internazionale. In un pieno recupero della sua vocazione originaria di «scuola di Economia» essa vide il compimento del proprio futuro. A tale vocazione essa volle votare tutte le sue risorse e i suoi progetti di sviluppo, facendo dell’eccellenza nel proprio campo la primaria sfida con cui misurarsi. Di quel coraggio e di quella estrema adesione al mandato iniziale è erede la multiforme varietà di corsi di laurea e specializzazioni che la nostra Università è oggi in grado di offrire nell’ambito delle scienze economiche e sociali; di quel rigoroso perseguimento dell’ideale dell’eccellenza sono eredi la qualità e l’alto livello della ricerca, frutto del lavoro di una vasta comunità scientifica raccolta attorno a un metodo comune.

Nei suoi cento anni di storia l’Università Bocconi ha sempre svolto un’opera di confine, un lavoro talvolta duro, e non sempre immediatamente compreso, di modernizzazione nel campo del sapere, un impegno al servizio della ragione e della libertà. Ha saputo cogliere i «segnali deboli» provenienti dalla società, ha saputo rendersi interprete di istanze apparentemente marginali eppure destinate a divenire prevalenti. Si è resa disponibile a elaborare in sé forme nuove di organizzazione, a sperimentare e anticipare quanto sarebbe apparso più tardi naturale e inevitabile.

Se fino a oggi la nostra Università ha svolto questa funzione propulsiva soprattutto nel contesto nazionale, ora più che mai la Bocconi è chiamata a esprimere la necessità di una cultura nuova, che abbia nell’Europa il suo scenario di riferimento, e ad approntare gli strumenti intellettuali e morali perché l’appartenenza a questa giovane realtà, ancora in formazione, non scada in una mera formula retorica, ma si traduca in un autentico orizzonte di libertà, unità e progresso per l’Italia e per tutti i popoli europei.

È una missione che già Giovanni Spadolini – presidente dell’Università fino all’agosto del 1994 – aveva fortemente avvertito e sostenuto: «Il ruolo che l’università ha nel processo di unificazione europea – diceva alla Giornata Bocconiana del ’91 – di costruzione di una nuova comunità di Europei, è di grande rilievo, è un ruolo in tutti i sensi essenziale, ed è necessario che l’università del futuro sia sempre protagonista nel processo di internazionalizzazione europeo, di superamento proprio di quelle estreme eredità del tribalismo e del municipalismo che riaffiorano impetuose e talvolta sconvolgenti nel panorama del nostro continente, riproponendoci problemi o risollevando temi che ritenevamo, sbagliando, superati per sempre. E ponendo con la forza dell’irrazionale un limite talvolta angoscioso alla prevalenza della ragione».

È una missione che facciamo nostra con ritrovata energia, rinvigoriti dall’eredità che i nostri predecessori ci hanno consegnato, nel lungo cammino di questo secolo di vita della Università Commerciale Luigi Bocconi.

 

Carlo Secchi

Mario Monti

Rettore

Presidente

 

Milano, novembre 2002

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