Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

La Milano della ricostruzione


Parole chiave: Milano

Il Rettore della Bocconi Giovanni Demaria, forte dell’esperienza che andava facendo come presidente della Commissione economica della Costituente, era ben conscio degli enormi problemi economici e sociali lasciati in eredità dalla guerra e dal fascismo all’Italia e a Milano. Egli si era persuaso che, per attingere alti livelli di crescita economica, così da sfuggire all’arretratezza e al sottosviluppo nei quali si dibatteva l’Italia, si dovesse garantire la più ampia iniziativa ai settori produttivi, e a quelli manifatturieri in particolare. Quanto al ruolo di una tradizionalmente invadente amministrazione pubblica, Demaria proponeva che lo Stato si limitasse a svolgere funzioni di mero coordinamento e controllo promuovendo l’apertura dell’economia nazionale verso l’estero, in modo da facilitare la libera circolazione di materie prime in entrata e di manufatti in uscita[1].

La città della Bocconi era uscita malconcia dalla guerra. Anzitutto, perché nell’occasione di due pesantissimi bombardamenti, alla fine di ottobre del ’42 e a metà febbraio del ’43, 120 imprese milanesi erano state seriamente danneggiate[2], e, poi, perché anche imprese localizzate in periferia, come Breda, Officine Meccaniche, Tecnomasio Italiano Brown Boveri e Salmoiraghi, avevano sopportato inconvenienti e subìto danni. Nell’insieme, tuttavia, l’industria milanese uscì dalla guerra con una capacità produttiva ridotta del solo 15%[3].

In realtà, i danni più pesanti erano stati riportati dal patrimonio edilizio storico della Milano racchiusa entro la cerchia dei bastioni. Un accurato bilancio effettuato a metà del 1945 accertò che il 43% dei vani della città storica era o distrutto o danneggiato al punto da essere inagibile[4]. Proprio nell’area in cui sorgeva la nuova Bocconi, fra porta Romana e porta Ludovica, le bombe avevano colpito più pesantemente, come del resto altrove a nord dell’Arena, a porta Garibaldi e alla Fiera[5].

Nell’estate del ’44, gli esperti della Commissione centrale di beneficenza della Cariplo valutarono in 125 milioni di giornate lavorative – per non dire dei materiali[6] – l’impegno di manodopera che avrebbe preteso il ripristino delle abitazioni distrutte e danneggiate, così da permettere agli sfollati fuori Milano di fare ritorno in città. Non v’è dubbio che uno dei settori economici per molti anni più dinamicamente coinvolti nella ricostruzione fu per l’appunto l’edilizia privata. Ciò permise a una parte della manodopera disoccupata di trovare impiego in un settore economico dominato dal pullulare di piccole imprese familiari di capimastri e muratori che si muovevano fra città, campagna e montagna[7]. Ne fa prova indiretta il saldo netto di 10.000 ditte – fra nate e morte – denunciate all’anagrafe della Camera di Commercio nel biennio 1946-47[8].

Uno dei maggiori ostacoli alla ripresa era tuttavia dato dalla carenza di mezzi di trasporto ferroviario, la cui capacità in alta Italia era ridotta al 30% circa rispetto a quella d’anteguerra, e stradale per la mancanza di pneumatici per autocarri[9], combinata con riserve di materie prime, energetiche e non, che giungevano col contagocce dagli aiuti internazionali. Il piano nazionale di ripartizione delle scarse importazioni di carbone, per esempio, copriva per intero solo il fabbisogno delle industrie alimentari e dispensava le scorte residue secondo un criterio che privilegiava le produzioni di beni strumentali quali motori marini, turbine idrauliche, macchine per l’edilizia, telai e filatoi, macchine per le imprese chimiche, per le cartiere e per i reparti di stampa[10]. Non v’è dubbio che l’alta concentrazione in provincia di Milano di imprese meccaniche, chimiche, cartarie e poligrafiche e della gomma favorì la destinazione di risorse energetiche nell’area urbana e suburbana milanese, contribuendo a riavviarne le attività produttive.

Il sistema bancario, da parte sua, moltiplicò gli sportelli e fu generoso d’impieghi. Nel quadriennio 1946-49, agli 80 istituti bancari e finanziari attivi sulla piazza ambrosiana – che ne facevano la maggiore del Paese – se ne aggiunsero ben 44 di nuovi[11]. I dati di cui disponiamo, a proposito del rilancio degli impieghi appena giunta la liberazione e circa la relativa stasi causata dalle misure einaudiane di stabilizzazione dei prezzi[12] prese nell’estate del ’47, non potrebbero essere più eloquenti.

La ripresa del gioco domanda/offerta di credito fu sostenuta fin dall’estate del ’45 e riguardò soprattutto quattro istituti: la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde e la Banca Nazionale del Lavoro. Quest’ultima, in particolare, non cessò di espandere la sua presenza e operatività nel capoluogo lombardo, sia come banca dei pagamenti pubblici, sia come istituto di credito ordinario[13]. Ad accentuare la dimensione finanziaria della piazza milanese, fino a elevarla a massimo mercato borsistico italiano, nel 1946 Comit, Credit e Banco di Roma fondarono Mediobanca per offrire credito a lungo termine alle industrie e per operare sui mercati finanziari e in borsa[14].

 

Tabella 1 Impieghi delle banche milanesi in miliardi di lire correnti e indici deflazionati in lire costanti[15]

Anni

Impieghi in miliardi

Indici deflazionati

+ % a catena

1945

26

100

--

1946

80

260

160

1947

141

283

8,8

1948

187

355

25,4

 

La stasi d’impieghi dell’anno 1947 si spiega ponendo mente alle conseguenze emotive, sia presso i banchieri, sia presso gli imprenditori, della politica monetaria fortemente restrittiva varata dal governo ai primi d’agosto di quell’anno. Ad attenuare in qualche misura gli effetti della stretta intervenne la deregolamentazione dei movimenti in entrata di valuta estera, decisa, a qualche giorno di distanza dai provvedimenti einaudiani, da Cesare Merzagora – ministro milanese del Commercio estero che aprì un prezioso spiraglio per il rimpatrio di capitali fuggiti in Svizzera durante la guerra[16].

Nel marzo del ’48, quando il ciclo aveva ormai ripreso quota, alla celebrazione del primo congresso della ricostituita Assolombarda l’ingegner Vittorio De Biasi, nella sua relazione generale, dopo aver passato in rassegna le forme d’intervento messe in atto dal governo fascista, quali il controllo dei prezzi, quello degli impianti industriali e l’assegnazione contingentata delle materie prime nella fase autarchica, manifestò una decisa posizione avversa all’intervento dello Stato nell’economia[17]. In concreto, i soli interventi amministrativi giudicati utili dagli industriali milanesi furono ravvisati nel sostegno all’emigrazione, per abbassare il tasso di disoccupazione, e nella gestione diplomatica e operativa degli aiuti del Piano Marshall (ERP)[18].

Poco più di un anno dopo, nel maggio del 1949, nell’Aula Magna della Bocconi, Giovanni Demaria apriva con una relazione generale un convegno organizzato dalla Camera di Commercio sul tema del commercio italiano con l’estero[19], mentre il Piano Marshall stava cominciando a dispiegare i suoi effetti. Il Rettore della Bocconi suggeriva di semplificare le pratiche burocratiche, di eliminare ogni restrizione quantitativa, ma anche di graduare l’eliminazione delle barriere doganali mantenendo una «moderata protezione» fino a quando le industrie della penisola non fossero state emancipate dagli oneri sociali derivanti da esuberi di manodopera – vigeva il blocco dei licenziamenti – e dai prelievi fiscali impropri che stavano sopportando[20].

Protagonisti della fase di progettazione dell’uscita dal corporativismo e della ricostruzione economica del Paese all’insegna del liberismo a Milano furono soprattutto gli ingegneri. Essi rivendicarono fin dal 1945 il ruolo di guida nel rinnovamento di una società che – auspicavano – si sarebbe fondata sulla libera iniziativa e sul merito personale, spazzando via inefficienza, corruzione e privilegi che avevano contraddistinto il passato regime[21]. Dal ’45, nelle grandi imprese, tornò alla ribalta la figura dell’ingegnere, formatosi nel Politecnico, che si occupava sia della gestione, sia dell’introduzione di innovazioni tecniche di processo, sia dell’organizzazione dei centri di ricerca e sviluppo.

Nel capoluogo lombardo, gl’ingegneri della generazione tardo-ottocentesca erano stati protagonisti della dotazione infrastrutturale moderna della città e dell’avvio dell’industrializzazione al tramonto dell’Ottocento e nei primi tre lustri del Novecento[22]. Ora, tornati prepotentemente al centro della scena, ambivano a orientare la ricostruzione economica identificando nelle imprese industriali le istituzioni da sottoporre a un processo di razionalizzazione a partire dal quale sarebbe stato possibile influenzare positivamente l’organizzazione del lavoro di fabbrica e, più in generale, l’intera società.

I rari economisti per lo più presenti negli uffici studi delle grandi imprese e delle grandi banche si disinteressavano delle prassi gestionali e delle cure contabili. Si trattava, in prevalenza, di laureati in Giurisprudenza portatori di una cultura classica e provenienti dalle ristrette classi agiate di allora[23]. La contabilità era invece faccenda dei bocconiani, uomini in larghissima parte formatisi negli istituti tecnici commerciali che, iscrittisi alla facoltà di Economia e Commercio, dalle lezioni e dai manuali di Gino Zappa e dei suoi valenti allievi[24] avevano appreso a misurare il reddito, nelle sue molteplici componenti, e a risalire analiticamente ai processi che lo generano.

La graduale apertura internazionale dell’economia italiana, che per un lungo quindicennio era rimasta racchiusa nelle costrittive spire dell’autarchia, assieme alla crescente specializzazione dell’attività produttiva, ebbero l’effetto di cambiare profondamente il ruolo degli economisti d’azienda nelle imprese. Proprio in quegli anni, sotto la sicura guida di G. Zappa, cominciò a profilarsi una crescente differenziazione fra tecnica amministrativa, vale a dire lo studio delle operazioni gestionali, e ragioneria, cioè la misurazione economica degli effetti delle operazioni di gestione, riconducibili a tre differenti campi operativi: la tecnica delle aziende mercantili, la tecnica delle aziende industriali e quella degli istituti di credito[25].


1

G. Pavanelli, Politica industriale, cit., p. 182.

2

A. Cova, L’industria (1930-1950), Storia di Milano, il Novecento, XVIII**, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Milano 1996, p. 129.

3

Ibidem, p. 128.

4

G. Consonni, G. TONON, Le condizioni abitative dei ceti popolari e le lotte per la casa dal 1943 al 1948, in AA.VV., Milano fra guerra e dopoguerra, Bari 1979, p. 639; S. Stocchi, Milano e le sue mura, Milano 1984, p. 180; secondo L. Donati il 22% del patrimonio edilizio era irrimediabilmente distrutto e il 36% danneggiato, cfr. Distruzioni e ricostruzione postbellica: il Piano Regolatore Generale del 1948-53, in Storia di Milano, il Novecento, XVIII*, cit., p. 151.

5

La condizione dell’edilizia artistica e monumentale era davvero drammatica: incendiata la Scala, scoperchiato il refettorio delle Grazie lasciando miracolosamente illesa la parete del Cenacolo leonardesco; scoperchiato e incendiato il Palazzo Reale distruggendo i soffitti affrescati, gli stucchi e gli arredi; devastati Palazzo Marino, la Ca’ Granda, Sant’Ambrogio e moltissimi dei palazzi nobiliari del centro. Fra gli altri, basti rammentare il Palazzo Archinto, in via Olmetto, con gli affreschi del Tiepolo andati totalmente perduti; cfr. S. Stocchi, Milano, cit., p. 182.

6

A. Cova, L’industria, cit., p. 127.

7

Nel 1946 furono dichiarati abitabili 10.600 vani. Cfr. A. Cova, L’industria, cit., p. 129. Nel settembre del ’45, il presidente del Collegio lombardo delle imprese edili, nel rammentare l’immensa mole dei lavori da fare, con uno stile che rimandava al corporativismo, aveva affermato: «Si ritiene indispensabile che l’attività edilizia del prossimo futuro sia rigorosamente disciplinata, inquadrandola nel campo delle necessità sociali, secondo le direttive che il governo nazionale impartirà». Ibidem, p. 130.

8

Cova, L’industria, cit., p. 134.

9

Ibidem.

10

Ibidem, p. 133.

11

S. Baia Curioni, La comunità finanziaria milanese e la ricostruzione del sistema finanziano; ipotesi di ricerca, in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia nuova: la cultura economica milanese tra corporativismo e ricostruzione, Milano 1997, p. 497.

12

P.L. Porta, Milano e il pensiero economico. Quale «fortuna» per il liberismo? in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia, cit., p. 131.

13

M. De Cecco, La BNL dalla Ricostruzione, cit., pp. 20-22.

14

M. Monti, A. Porta, Milano centro finanziario. Gli aspetti macroeconomici, in Storia di Milano, il Novecento, XVIII**, cit., p. 312.

15

A. Cova, L’industria, cit., p. 133.

16

P.L. Porta, Milano e il pensiero economico. Aspetti della cultura della concorrenza e del mercato tra corporativismo e ricostruzione, 1935-1950, in «Rivista di Storia economica», XIII, 2 (1997), p. 215.

17

V. Zamagni, Il ruolo dello Stato in economia secondo la visione dell’imprenditoria lombarda degli anni della ricostruzione (1946-1950), in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia, cit., pp. 249-51.

18

Ibidem.

19

Fin dal ’45, Demaria collaborava con la Commissione centrale economica del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia alla preparazione di un convegno milanese sul commercio estero. Il responsabile della Commissione, R. Cacchi, lo ringraziava il 28 dicembre per aver collaborato a contattare «alcune fra le maggiori personalità del mondo economico, industriale, commerciale e bancario italiano. Fra gli altri, cito i nomi del Prof. Bresciani Turroni, del Prof. Lenti, Prof. di Fenizio, Prof. Travaglini, prof. Longhi (presidente Associazione Commercianti estero, Milano), Dr. Mattioli (Comit), Dr. Pizzoni (Credit), Dr. Malvezzi (I.R.I.), Prof. Tremelloni, Ing. Giovanni Falck, Dr. De Rui (Montecatini), Ing. Gavazzi (lan. Rossi), Ing. Jucker (cot. Cantoni), Comm. Merzagora (Pirelli), Dr. Ludovico Targetti, Ing. Guido Vanzetti, Dr. Emilio Dalla Volca (Associazione Commercianti estero, Milano), ed altri». Cfr. Archivio Storico Università Bocconi, d’ora in avanti ASUB. B. 13/3 (368).

20

Ibidem, p. 256; F. Fauri, La fine dell’autarchia: le prime tappe del processo di liberalizzazione del commercio estero italiano nel secondo dopoguerra, in «Rivista di storia economica», 3 (1995).

21

D. Bigazzi, «L’ora dei tecnici»: aspirazioni e progetti tra guerra e ricostruzione, in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia, cit., p. 380. In generale, cfr. C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia. Riflessioni sulla storia dello Stato imprenditore dagli anni trenta agli anni cinquanta, Milano 1992.

22

C. Bardini, P. Hertner, Decollo elettrico e decollo industriale, in G. Mori (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, I, Le origini, 1882-1914, Roma-Bari 1992.

23

P. Rondo Brovetto, Sviluppi di una teoresi fra cultura e potere: le scuole milanesi dell’economia aziendale, in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia, cit., p. 90. Prima che sorgesse la facoltà di Scienze economiche e commerciali, in Italia l’insegnamento di Economia era impartito solamente nelle facoltà di Giurisprudenza; cfr. M. Cattini, Gli studenti e la loro università (1902-1914), in M. Cattini, E. Decleva, A. De Maddalena, M.A. Romani, Storia di una libera Università, I, L’Università commerciale Luigi Bocconi dalle origini al 1914, Milano 1992, pp. 296-303.

24

Ugo Caprara, Giorgio Pivato e Giordano Dell’Amore.

25

P. Rondo Brovetto, Sviluppi di una teoresi, cit., p. 92.

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