Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

Il corso di laurea in Discipline economiche e sociali


Parole chiave: Rettore Dell’Amore Giordano

Il 1969 fu turbato dal succedersi di manifestazioni studentesche, molte delle quali sfociarono in lunghe occupazioni, che resero difficile l’ordinato svolgersi dei corsi e degli esami e imposero un defatigante dialogo con rappresentanze mutevoli e quindi inaffidabili. La stagione delle riforme avviata da Innocenzo Gasparini sembrò, in taluni momenti, impotente ad arginarne la carica eversiva che minacciava di travolgere l’Università; pur se qua e là, soprattutto fra gli studenti di Economia, andava emergendo la consapevolezza dei rischi insiti in una opposizione fine a se stessa e si registravano le prime imbarazzate adesioni alle proposte del preside di facoltà.

Un esempio fra i tanti si può ricavare dalla mozione votata il 24 ottobre dalla «sinistra democratica», che, a Università occupata, pur denunciando «il carattere vago, volutamente dilatorio, inconsistente sul piano politico, se non chiaramente reazionario, degli interventi e delle posizioni emerse in seno al corpo docente» e «l’ottica conservatrice, classista e corporativista in cui si inquadra il progetto di riforma del piano di studi, nuovo tentativo di manipolazione e di inculcamento di contenuti culturali classisti sotto speci apparentemente innovatrici»[1], condannava l’occupazione come strumento di lotta e suggeriva, come unica strada da percorrersi, quella delle riforme, «per battere nei fatti e non soltanto nelle parole l’autoritarismo del corpo accademico»[2].

Si tratta di un atteggiamento che a posteriori appare, nei fatti, molto più costruttivo di quanto le critiche contro l’«Università dei padroni» e contro «la ristrutturazione neocapitalista della Bocconi» volessero far apparire. In effetti, al di là delle intemperanze verbali, che denotavano la fragile trama di un difficile dialogo tra studenti e docenti, i più avvertiti fra questi ultimi compresero che esistevano spazi di manovra e si fecero in quattro per ampliarli e per segnare con le riforme una nuova stagione di crescita dell’Ateneo milanese. In questo favoriti anche dal progetto governativo di riforma dell’intero sistema universitario, la cui pubblicazione, data ormai per imminente, aveva acceso un ampio dibattito sull’autonomia che, nello stesso, sarebbe stata riconosciuta alle università libere.

Decisamente pessimista a questo proposito era Carlo Baccarini, che alla morte di Croccolo aveva assunto la carica di amministratore delegato:

«L’Università Bocconi nata fuori del rigido sistema dell’epoca, come privata iniziativa, compì un vero atto rivoluzionario che in breve tempo trascinò dietro di sé tutto l’ordinamento degli studi economici superiori […]. Ma, purtroppo, i tempi stanno cambiando. Siamo alla vigilia di una riforma universitaria che, soffocando ogni libera iniziativa, coinvolgerà anche la nostra Università trasformandola da una scuola superiore di ricerca scientifica in una scuola universitaria di massa e come tale anonima, “provinciale”, non differenziata né differenziabile. Che la riforma universitaria, dopo tanto travagliato cammino, si faccia è cosa ormai indubbia, che questa riforma sia il frutto di un compromesso politico deteriore, è cosa ormai notoria, e che la Bocconi, se sceglierà di far parte del sistema, rischierà di perdere il suo invidiabile prestigio è più che probabile».

Di fronte al dilemma: se rimanere nel sistema, «andando incontro ad un fatale declino, o peggio, per sopravvivere essere incorporata, come facoltà, in una Università statale»; oppure «ritornare alle origini, uscendo dal sistema e dando vita, ancora una volta, ad una scuola superiore libera, indipendente, autosufficiente, non legata al sistema statale, al solo scopo di preparare giovani ad affrontare la vita scientifica senza bisogno di ricorrere a un diploma dottorale che oggi non ha più alcun senso tanto è andato al ribasso», Baccarini non aveva dubbi e dichiarava senza mezzi termini: «[…] se stesse a me decidere non esiterei neppure un momento per scegliere la seconda soluzione: fuori dal sistema statale»[3].

La sua posizione rispecchiava quella di una parte del Consiglio di facoltà, dove gli economisti e giuristi si schieravano a favore di «una Scuola universitaria autonoma, fuori dal sistema statale»[4], a differenza del «gruppo degli aziendalisti che fanno capo al Rettore, [che] non ha preso una netta posizione in un senso o nell’altro. Alcuni, pur riconoscendo la necessità di introdurre innovazioni sostanziali […], sono incerti sulla strada da seguire e temono che un’uscita dal sistema torni a svantaggio dell’Università. Altri non portano alcun elemento utile alla discussione, limitandosi ad avanzare proposte attinenti alla funzione esclusivamente didattica della Università»[5].

La posizione di Dell’Amore e dei suoi alleati condizionò profondamente le scelte dell’Università, facendo rientrare il proposito di portare la Bocconi fuori dal sistema universitario nazionale; ma non bloccò, anzi accentuò, il dibattito sul ruolo e la missione dell’Ateneo, che procedette intenso nel biennio successivo.

«Una Università è libera nella misura con la quale propone in modo originale soluzioni nuove al problema della formazione della cultura»: in questo senso e con questo spirito, sia pure su posizioni differenti, il corpo docente della Bocconi si mosse alla ricerca di nuove soluzioni alla domanda di mutamento che impetuosamente investiva l’istituzione. Risposte che, in parte, erano già implicite nelle scelte che avevano rotto il monolitismo della facoltà di Economia e Commercio e che avevano interessato in particolar modo il corso di laurea in Economia aziendale, suddiviso a sua volta in diversi indirizzi funzionali alle esigenze di specializzazione provenienti dal mondo delle imprese e in questo coadiuvato anche dalla rinnovata Scuola di Direzione Aziendale.

Anche gli economisti avevano accettato questa impostazione, seguendo la strada della specializzazione degli studi, sebbene con minore soddisfazione e con minor profitto rispetto agli aziendalisti. Lo avevano fatto in nome della tradizione che voleva strettamente avvinti gli studi economici e quelli aziendali; pur non nascondendo la loro contrarietà verso una formula la cui sperimentazione non aveva dato i risultati che si aspettavano e che, per di più, si rivelava incapace di rispondere alle esigenze profonde delle loro discipline:

«La struttura economica, per il modo in cui si è evoluta dopo l’ultima guerra e sulla base della Costituzione del 1947, ed il grado crescente di complessità della nostra società, implica l’esigenza di una preparazione diversa dalla tradizionale […]. Con queste esigenze formative non si conciliano né la differenziazione delle materie nei vari corsi né la specializzazione dei corsi di laurea […]. La diversa finalità tra orientamento aziendale ed economico-politico si accompagna ad una diversa struttura del corso di studi e si riflette in un diverso metodo di insegnamento. È naturale conseguenza di queste constatazioni che un corso di laurea in economia […] implichi: l’impegno dello studente di partecipare in modo continuativo all’attività didattica e, nel corso del secondo ciclo, all’attività scientifica della scuola; il correlativo impegno del docente a considerare una vocazione primaria la ricerca e l’insegnamento; l’individuazione delle materie oggetto di studio in grandi temi (es. economia politica, diritto dell’economia, metodi quantitativi, storia economica), proponendo, dopo i corsi istituzionali del primo ciclo, oltre a corsi monografici, la partecipazione del discente all’attività di ricerca scientifica da svolgere in modo integrato tra i docenti».

Caduta l’idea di separare i destini dell’Università commerciale da quelli del sistema universitario nazionale[6], i firmatari del «manifesto» (Francesco Brambilla, Aldo De Maddalena, Innocenzo Gasparini, Ariberto Mignoli, Adalberto Predetti e Gianguido Scalfi) proposero di togliere di mezzo l’anomalia tutta italiana che legava il corso di business a quello di economics, separando anche materialmente i due percorsi formativi, con la creazione di due distinte unità (facoltà o dipartimenti) «entrambe impegnate a collaborare nel comune interesse della nostra Bocconi», alle quali affidare il compito di gestire autonomamente corsi di laurea: il corso di Economia aziendale, connotato da tendenza alla specializzazione e alla differenziazione delle discipline, la Scuola di Direzione Aziendale e l’Istituto di Economia delle fonti di energia sarebbero andati agli aziendalisti; quello di Economia politica, opportunamente ripensato, assieme alla Scuola di Statistica e di Demografia, sarebbe invece toccato agli economisti.

La proposta, presentata al C.d.F. nella seduta del 19 aprile 1972, trovò ampie adesioni nel corpo accademico, aprendo così la strada a un ulteriore corso di laurea, messo a punto da un gruppo di studio presieduto dallo stesso Dell’Amore e composto da Carlo Baccarini, Innocenzo Gasparini, Gianguido Scalfi e Paolo Baffi. Pensato ab initio come sostitutivo del corso di laurea in Economia politica (CLEP), esso si sarebbe, in realtà, affiancato a quest’ultimo e si sarebbe fondato su uno studio generalistico, di natura interdisciplinare, condotto su grandi temi, in una continua interazione docente-discente, coordinato all’interno di «un comune progetto di lunga scadenza, discusso e concordato nell’ambito del consiglio di dipartimento, attorno al quale lavoreranno gli economisti, i giuristi, gli storici e gli statistici componenti il dipartimento stesso»[7].

Nell’idea dei «padri fondatori» del corso di laurea in Discipline economiche e sociali (DES), la Bocconi avrebbe dovuto sviluppare conoscenze atte a formare un particolare tipo di laureato, capace di coniugare con altrettanta competenza gli aspetti quantitativi e quelli qualitativi dei fenomeni economici. Quella immaginata era: «Una scuola in cui prevalga, in assoluto, la ricerca scientifica su base umanistica nel senso più ampio della parola, articolata in due cicli [si veda la Tabella 15]: il primo di due anni che deve fornire una gamma di insegnamenti propedeutici a fini formativi; un secondo ciclo della durata di tre anni, durante il quale, acquisite le ulteriori conoscenze ed i necessari strumenti scientifici, tende ad assumere peso prevalente la partecipazione della ricerca integrata»[8].

 

Tabella 15 Discipline obbligatorie previste per il corso in Discipline economiche e sociali (DES)

Primo ciclo

Secondo ciclo

Principi di logica e filosofia (esame della struttura logica degli insegnamenti fondamentali ad opera dei singoli docenti per coglierne problemi e principi generali)

Storia economica e sociale

Metodi quantitativi (matematica e statistica)

Diritto dell’impresa e della società

Economia politica

Economia politica

Storia

Ricerca operativa

Istituzioni di diritto

Econometrica

Sociologia

Demografia

 

I tempi non erano tuttavia ancora maturi per l’entrata in vigore del DES: l’ambiente universitario milanese ancora troppo coinvolto in posizioni contestative e per di più, di lì a poco, sconvolto da quella tragedia che fu l’uccisione di Roberto Franceschi, un evento che lasciò indelebili cicatrici sul corpo dell’istituzione e nell’animo di quanti vissero quel difficile momento, non era ancora pronto ad accogliere le novità proposte.

Ma il seme era gettato e le innovazioni prodotte dal salutare trauma della contestazione e dalla convinta e intelligente risposta di un piccolo gruppo di docenti avrebbero aperto alla Bocconi la strada del rinnovamento e ne avrebbero rafforzato l’eccellenza: una strada che le avrebbe permesso di superare agevolmente il decennio successivo e di presentarsi alla soglia degli anni Ottanta profondamente rinnovata nell’offerta didattica e nelle strutture scientifiche.


1

ASUB. Busta O. Università Bocconi. Mozione votata dall’assemblea degli studenti d’economia il giorno 28/10/1969.

2

Ibidem. La mozione, votata dalla maggioranza degli occupanti, metteva in minoranza i gruppi più radicali, bollandone le proposte come «ripetizioni fiacche degli errori già commessi all’Università di Stato […], dove la gestione dei gruppetti dell’estrema sinistra si è dimostrata incapace di produrre sostanziali riforme nella vita universitaria» e contrapponendo alle stesse quelle «della sinistra democratica che facendo appello a tutta la base bocconiana vede la possibilità di sbloccare la situazione della società e dell’Università solo attraverso un’avanzata strategica di riforme che coinvolga le masse popolari, i tecnici, gli studenti, gli intellettuali nella lotta democratica e parlamentare. Dopo l’esperienza contraddittoria delle occupazioni, gli studenti della sinistra democratica individuano nella contrattazione con il corpo docente, nella lotta articolata istituto per istituto, insegnante per insegnante, l’unica via di uscita alla crisi del nostro Ateneo». Il testo in questione è riportato anche sull’«Avanti!» del 29 ottobre 1969 in un articolo dal titolo Una piattaforma democratica per gli studenti bocconiani.

3

Ibidem. La lunga citazione, ancora una volta, mi è parsa molto più atta di qualsiasi parafrasi a ricreare il clima di quei giorni. Il direttore amministrativo concludeva la sua perorazione con queste frasi: «Un atto di coraggio, come fu un atto di coraggio quello di coloro che promossero la creazione della Bocconi. Un atto di coraggio largamente premiato dal successo raggiunto nell’arco di un breve corso di anni. Non Università di massa, dunque, ma una Scuola superiore altamente qualificata, destinata a quei pochi che desiderano non conquistare con poca o senza fatica una qualifica svalutata in partenza, ma conseguire una solida preparazione che permetta loro di affrontare da esperti i più veri ed alti problemi della vita economica».

4

ASUB. 3/b/2/c. «Progetto istituzione nuova laurea DES», 1972. Nel documento in questione, facendo riferimento a un sondaggio operato l’anno precedente fra gli ordinari dell’Ateneo, si osservava come «mentre i docenti delle materie aziendali giudicano positivamente sia la specializzazione, sia il frazionamento delle materie in corsi dì esame […]; i docenti delle materie economiche e giuridiche prospettano […] un corso di laurea in economia […] che potrebbe essere realizzato da una università libera o dal di fuori dell’ordinamento giuridico delle Università, cioè rilasciando un titolo che si qualifica per la bontà e la serietà degli studi».

5

Ibidem. Di parere contrario era anche il movimento studentesco, secondo il quale: «L’abolizione legale del titolo di studio, vorrebbe dire trasformare la Bocconi in un campus o ghetto, vorrebbe dire nei fatti il numero chiuso, vorrebbe dire cancellare qualsiasi spazio democratico di dibattito e il totale asservimento dell’università agli interessi padronali, vorrebbe dire trasformare l’iter di studio praticamente in training aziendale, vorrebbe dire “liquidare” tutti gli studenti sinora iscritti, gettandoli in una dequalificazione ancora più spinta». Movimento studentesco, A proposito della chiusura della Bocconi (ASUB. Archivio Gasparini. Cartella questioni facoltà e movimento studentesco).

6

Anche se, ancora nella seduta del C.d.F. del 19 aprile 1972, Gianguido Scalfì sottolineava, ottenendo numerosi consensi: «Il disagio e le difficoltà di una Università nella quale è divenuta ormai preponderante la componente didattica, è ormai vivamente sentito. Poiché sul cammino intrapreso l’Università attuale non può che approfondire questo aspetto scolastico, proprio una Università libera deve porsi la domanda se non sia necessario ritornare una Università che si rivolge prevalentemente alla ricerca e, intorno ad essa, alla preparazione di nuovi ricercatori. In simile orientamento i corsi tornerebbero ai grandi temi, e si invertirebbe la tendenza alla proliferazione di corsi di materie specifiche che sono parte di materie più generali».

7

ASUB. Busta 3/b/2/c. Innovazioni sull’insegnamento e sull’organizzazione dell’Università Bocconi.

8

ASUB. Busta 3/b12/c. «Innovazioni sull’insegnamento», cit.

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