Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

I secondi cinquant’anni nel ricordo di un protagonista


Parole chiave: Presidente Cicogna Furio, Presidente Spadolini Giovanni, Rettore Dell’Amore Giordano, Rettore Gasparini Innocenzo, Rettore Guatri Luigi, Gestione finanziaria, Piano Bocconi 2000

Marzio Romani intervista Luigi Guatri

Da più di mezzo secolo Luigi Guatri vive in simbiosi con l’Università Commerciale Luigi Bocconi, occupando ruoli eminenti in seno all’istituzione milanese che, proprio quest’anno, compie un secolo di vita: studente, assistente, professore incaricato prima e ordinario in seguito, membro del Consiglio d’Amministrazione, consigliere delegato, Rettore, vicepresidente; un cursus honorum realizzatosi in oltre cinquant’anni al servizio dell’Università.

L’intervista fatta a lui è, in realtà, un’intervista idealmente fatta alla Bocconi e alla seconda metà della sua vita, durante la quale il peso e il ruolo dell’Ateneo a Milano, nel Paese e in Europa, hanno registrato sostanziali progressi.

 

D. Cominciamo dall’inizio; da quando, poco più che ragazzino, Luigi Guatri arriva in Bocconi per la prima volta. Perc sceglie l’Università Commerciale Luigi Bocconi? Che peso ha avuto la scuola milanese nella sua formazione? E quali personaggi (compagni di corso, assistenti; professori) sono stati i suoi referenti ideali?

R. Ho messo piede per la prima volta in Bocconi nell’estate del ’45. Abitavo allora a Treviglio e sono giunto, ricordo, con un amico, anche lui intenzionato a iscriversi. Siamo arrivati a Milano e, da buoni provinciali, guardando vecchie carte della città, siamo andati a finire in largo Treves, dov’era la vecchia sede della Bocconi.

Lì ci hanno detto: «Guardate che l’Università non è più qui, ora è a Porta Ludovica». Alla fine sono arrivato in via Sarfatti e mi sono iscritto alla facoltà di Economia e Commercio.

Era un’idea che era maturata in me da tempo. Lo stato di guerra e l’impossibilità di uscire da Treviglio mi avevano infatti costretto a studiare ragioneria all’istituto tecnico, l’unica scuola superiore della cittadina. Una scelta obbligata ma sofferta, poiché le mie aspirazioni sarebbero state per il liceo classico, verso il quale mi spingevano tutti i professori. Provenendo dall’istituto tecnico, la facoltà di Economia e Commercio era appunto una scelta obbligata.

Perché la Bocconi? Nella mia famiglia non c’era una vocazione specifica e non mi vennero quindi date indicazioni in questa direzione; era proprio una mia scelta personale. Forse la spinta venne da una professoressa di Ragioneria, che era bocconiana e perciò «zappiana»: quasi certamente è stato attraverso il suo insegnamento che mi sono fatto una particolare immagine dell’Università Bocconi. (La stessa cosa, vedo, che accadde a Tancredi Bianchi due anni dopo, sempre a Treviglio.)

Arrivo dunque a iscrivermi. Si era appena usciti dalla guerra e ancora la Bocconi era senza i vetri alle finestre, colpita, veramente ferita dai bombardamenti; basta dire che, arrivando da Porta Ludovica, quando si scendeva dal tram 2 si dovevano ancora sormontare masse di macerie e superare montagne di terra per arrivare all’entrata dell’Ateneo. Questo è l’inizio.

 

D. Cosa trovasti qui e che impressione avesti di questo ambiente?

R. Devo dire che, in quei giorni, io non ebbi molti contatti con quelli che tornavano dalla guerra. Ho sentito in seguito qualcuno riferire episodi risalenti ai primi mesi del dopoguerra, ma noi giovani (avevo diciassette anni o poco più) cogliemmo molto poco di quanto era accaduto in quel periodo difficile.

La gente desiderava seppellire il passato e aveva voglia di fare, aveva voglia di mettersi sotto; bisognava ricostruire il Paese, ma soprattutto bisognava costruire se stessi e immaginare il proprio avvenire. E ho un ricordo dei miei compagni – alcuni dei quali poi ho seguito nella vita, altri ho perso di vista – che si riallaccia sempre al desiderio di fare; si trattava in genere di ragazzi seri e impegnati che erano qui per studiare. Avevano, naturalmente, anche voglia di divertirsi come tutti i giovani; tuttavia il sentimento prevalente era la «voglia di fare».

 

D. La speranza di un mondo diverso in quel momento sorreggeva un po’ tutti e soprattutto i giovani, credo, che furono spinti a fare del loro meglio per crescere assieme al Paese. Ma, oltre a questo, la Bocconi era un mondo straordinariamente affascinante per un ragazzo di provincia: c’erano docenti di notevole levatura e di grande carisma. Quali ti colpirono di più?

R. I due personaggi dominanti, che più vivamente sono rimasti nel mio ricordo, sono Giovanni Demaria e Gino Zappa. Erano al tempo stesso autorevoli e affascinanti.

Zappa era già alla fine della sua carriera e solo una volta al mese (per cinque giorni di seguito) veniva qui a fare lezione. Abitava a Venezia, dove per anni aveva insegnato come ordinario a Ca’ Foscari dopo aver lasciato la Bocconi negli anni ’30. In un’auletta del 2° piano (dove oggi è la sala Consiglio) non eravamo più di venti­venticinque persone a seguire le sue lezioni. Lui insegnava al secondo anno mentre al primo anno (allora la materia era Ragioneria) l’insegnamento era assegnato a Carlo Masini e a Napoleone Rossi.

Demaria, che insegnava Economia politica sia al primo che al secondo anno, era l’altra figura carismatica. Fra gli insegnamenti di questi due personaggi, alla fine, quando decisi di orientarmi verso una vita di studio, rimasi lungamente incerto; poi la scelta della tesi mi indirizzò definitivamente verso l’Economia d’azienda.

 

D. La scelta della tesi non stata è quindi casuale, come capita in molti casi.

R. È stata una scelta ponderata. Avevo limitato il campo a Economia politica ed Economia aziendale e, alla fine, optai per la seconda disciplina. E feci la mia tesi sulle imprese cotoniere.

 

D. Imboccasti così il sentiero sul quale Zappa da tempo avviava i suoi migliori allievi. Probabilmente la tua fu una delle ultime tesi che riguardarono un particolare settore produttivo. Anche i giovani delle generazioni precedenti; come Caprara e Masini, mi pare, furono da Zappa spinti su questa stessa strada. Ovviamente la tesi andò bene e altrettanto ovviamente ti proposero di continuare a studiare.

R. Sì, continuai su quella strada. Anzi, su insistenza di Palazzina, feci anche domanda per la Borsa Stringher, messa a concorso dalla Banca d’Italia, e la vinsi.

 

D. Probabilmente tu fosti uno dei primi bocconiani a vincere la Borsa Stringher.

R. Credo di sì. Palazzina, che ambiva vedere un bocconiano vincere la borsa e mi conosceva benissimo, come del resto conosceva tutti gli studenti, mi spinse a fare domanda.

Nel frattempo, nell’aprile del ’49, ancora studente (mi laureai nella sessione estiva del quarto anno) fui chiamato all’Ufficio Studi della Montecatini: Ferdinando di Fenizio, che allora insegnava Politica economica alla Bocconi ma era anche direttore dell’Ufficio Studi Economici della Montecatini, mi aveva offerto questo posto. Tieni presente che le lezioni di Politica economica erano frequentate da poche decine di persone, che si conoscevano bene non solo fra di loro, ma anche con i docenti.

Io accettai, ma avevo comunque ferma l’idea di continuare a studiare con Zappa alla Bocconi. Era un desiderio fortemente radicato, e in questo senso andavano anche i libri che, nel frattempo, avevo scritto e pubblicato con Giuffrè.

Verso la fine di quell’anno, però, Zappa ottenne (cosa che allora era considerata straordinaria) la possibilità di assumere un assistente effettivo di Ragioneria e mi chiese se volevo occupare quel posto. Aderii subito. Così lasciai l’Ufficio Studi della Montecatini e iniziai anche una mia attività professionale come commercialista.

 

D. Nel frattempo avevi vinto il concorso per la Borsa Stringher che, mi pare, imponeva la definizione di un progetto di ricerca da condursi in una prestigiosa università straniera. Che cosa successe?

R. Successe che, quando la Banca d’Italia mi diede la bella notizia, io ringraziai, ma comunicai la mia intenzione di non usufruire della borsa di studio. Quindi la Borsa Stringher fu un bell’episodio, ma senza seguito nella mia vita.

 

D. Il passaggio dall’altra parte della barricata, sia pure quale giovanissimo assistente, fu sicuramente molto importante nella tua carriera. Cosa comportava, allora, fare l’assistente alla Bocconi, tenuto anche conto del fatto che eri l’unico assistente? Probabilmente un carico didattico non da poco.

R. Sì, un carico didattico notevole. Incominciai, nel novembre 1949, a insegnare Ragioneria al primo anno, a fianco di Napoleone Rossi; e l’anno seguente, nel 1950­1951, insegnai anche al secondo anno a fianco di Carlo Masini. L’uno e l’altro erano, per me, dei fratelli maggiori (avevano 12­13 anni più di me).

Avevo scritto, nel frattempo, un paio di libri: uno, lo ricordo, sui «Rendimenti», che piaceva molto a Zappa, tanto che lo inserì nei programmi che insegnavo insieme alle teorie tradizionali del «Reddito», cioè al testo classico zappiano.

 

D. Da una parte si apriva la strada della professione e dall’altra quella della ricerca e della didattica. E in quest’ultima direzione c’erano ulteriori scelte da fare e probabilmente era il momento di decidere il percorso scientifico da seguire: perc optasti per la disciplina che allora si chiamava Tecnica industriale e non per Ragioneria o Tecnica mercantile?

R. La Tecnica industriale era una delle quattro, cinque discipline dell’Economia aziendale: prima che inter­ venissero le specializzazioni spinte (dagli anni ’70 in poi) noi docenti aziendalisti eravamo, senza particolari problemi, in grado di coprire tutte le aree dell’Economia aziendale.

In Bocconi io insegnai Ragioneria nei primi anni; poi, alla prima opportunità che mi si presentò, e cioè quando nel ’53 Aldo Amaduzzi mi propose di assumere a Genova l’incarico di Tecnica industriale, passai a quella disciplina e rimasi orientato su questo settore anche ai fini della carriera accademica.

 

D. È stata una carriera molto veloce.

R. Sono partito forse molto giovane. Zappa mi mandò al primo concorso a cattedra del dopoguerra, nel 1950 (avevo 23 anni). Non vinsi la cattedra di Ragioneria ma, come si usava allora, ottenni dalla commissione il «riconoscimento» della maturità scientifica (oggi si direbbe l’«idoneità», ma non è proprio la stessa cosa, nel senso che significava di più).

In sostanza un giudizio favorevole ma forse prematuro, che per qualche anno pesò su di me come una cappa di piombo. Ero giovane ma ero «maturo»! La chiamata a Genova di Aldo Amaduzzi mi tolse da questa condizione ambigua. Fu la mia prima responsabilità diretta: a 26 anni ero il docente di Tecnica industriale e commerciale dell’Università di Genova!

 

D. Certo a quei tempi non era facile fare carriera.

R. I concorsi c’erano ogni 3 o 4 anni e quindi le occasioni erano abbastanza rare. Io sono sempre rimasto legato alla mia Università, come docente e come studioso, operando nei primi centri di ricerca. Non ho mai lasciato la Bocconi, anche se ho insegnato in altri due atenei: prima come professore incaricato, come si diceva allora, a Genova e poi, una volta vinta la cattedra, nel ’60, a Parma.

 

D. Dove ci siamo incontrati, perc stavo finendo l’università in quegli anni. Ma torniamo alla Bocconi. Gli anni ’60 furono un momento importante per l’Ateneo, dove si realizzò un cambio generazionale a differenti livelli. Zappa era già uscito da tempo di scena; ma ora era la volta di Palazzina, di Croccolo, di Sapori. Della vecchia guardia rimasero solo Demaria e Dell’Amore (che però era più giovane del grande economista) ed entrarono alcuni giovani cattedratici come Mignoli, di Fenizio, Gasparini, Masini, mentre a capo dell’amministrazione Carlo Baccarini era subentrato a Girolamo Palazzina. Ma, soprattutto, quello fu il momento in cui gli studenti diventarono un soggetto politico; il momento in cui smisero di tacere e cominciarono a farsi sentire. La mia impressione è che tutto questo sommovimento, in un primo momento, venne sottostimato dalle autorità accademiche. Per 4 o 5 anni, almeno sino alla fine del rettorato Sapori, non accadde quasi niente; ma non v’ è dubbio che il clima era profondamente cambiato all’interno dell’Università.

R. Quel che dici è vero; in effetti io non ho nessun ricordo personale, se non per cose secondarie, di contestazioni studentesche in quel periodo. Anche dal punto di vista didattico non successe quasi niente; bisogna arrivare verso la fine degli anni ’60, per ricordare fatti precisi.

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D. Quello è stato un momento molto importante, perché li si dissolse la visione, direi paternalistica, che Sapori e molti altri docenti avevano della Bocconi. Sapori si considerava un po’ il padre dell’Università e dei suoi studenti. E quindi gli ultimi 3 o 4 anni furono per lui molto pesanti e forse pieni d’amarezza.

R. Purtroppo sì: furono anni difficili per lui, così come per Dell’Amore, che gli succedette nella carica.

 

D. I più difficili furono in effetti quelli di Dell’Amore, che divenne Rettore in un periodo molto tribolato; fu posto alla testa dell’Università nel momento in cui iniziava la contestazione studentesca, costringendo il corpo docente a interrogarsi sul futuro della Bocconi e ad avviare tutta una serie di processi che avrebbero innovato profondamente l’Ateneo. A posteriori bisogna riconoscere che la Bocconi reagì piuttosto bene alla contestazione: dopo le prime difficoltà e in un clima di grande tensione furono avviate riforme destinate a segnare pesantemente (in senso positivo naturalmente) il futuro dell’Ateneo. Ti va di riflettere un attimo su quegli anni?

R. Certamente, anche se devo premettere che vissi la cosa abbastanza ai margini poiché rimasi fino al ’69 professore ordinario a Parma. Ricordo quindi più quanto avvenne a Parma, in quel periodo, perché è il fatto di essere nel corpo accademico che ti fa vivere più direttamente le situazioni. I momenti drammatici che si verificarono in Bocconi furono da me vissuti in modo indiretto. Ho dovuto fare i conti, naturalmente, con la contestazione studentesca, come tutti, ma non l’ho vissuta in prima persona. Ricordo bene invece come la visse Dell’Amore, e Scalfi in seguito.

 

D. L’episodio secondo me centrale nel 1968 fu la chiusura della facoltà di Lingue. L’idea di puntare tutto sulla facoltà di Economia, cioè di potenziare Economia e di chiudere Lingue, fu una decisione veramente drammatica. Da quel che io ho capito attraverso la lettura dei documenti, la stessa venne presa da Dell’Amore e da Cicogna senza consultare nessuno. Come reazione all’occupazione di Lingue, dal marzo al luglio del ’68, i due riunirono il Consiglio di Amministrazione e comunicarono la loro decisione di chiudere la facoltà di Lingue. Te ne ricordi? Anche quello fu un periodo molto drammatico.

R. Riflettendo, a posteriori, sulle ragioni che portarono alla chiusura della facoltà di Lingue, credo si possano identificare nella necessità di concentrare tutte le risorse sulla facoltà di Economia, scelta che poi si dimostrò, nel tempo, molto proficua.

Dubito però che quella sia stata la ragione scatenante a fine ’68: vi fu invece, quasi certamente, il desiderio di riportare l’ordine nella vita universitaria, turbata da continue contestazioni e occupazioni.

Con ogni probabilità, nel disegno dei due protagonisti (Dell’Amore e Cicogna), giocarono ambedue le motivazioni.

 

D. Ho ritrovato una lettera di Gasparini nella quale, con il tono suadente che lo connotava, egli scriveva a Dell’Amore chiedendogli conto dei motivi della soppressione della facoltà di Lingue e, fra l’altro, affermava: «Come preside della facoltà di Economia e membro del Senato accademico, apprendo solo ora, e dai giornali, delle decisioni assunte dal Consiglio d’Amministrazione».

R. Noi, come docenti, non sapemmo niente; ripeto, io ho studiato il problema a posteriori, cercando di trovare una spiegazione razionale a quanto accadde.

Tuttavia è vero che, con le carenze di spazi e di mezzi che abbiamo avuto negli anni successivi, la decisione si rivelò un intervento giusto e un rimedio efficace.

 

D. Nel lungo periodo la scelta si rivelò sicuramente felice; ma nel breve essa fu fonte di problemi a non finire. Mentre a Lingue, di fatto, l’occupazione fu molto dura, a Economia si cominciò a riflettere seriamente sulla possibilità di riformare la monolitica laurea in Economia e Commercio in due corsi di laurea differenti: in Economia aziendale e in Economia politica. La decisione fu il frutto di un gioco complesso delle parti: degli aziendalisti da una parte e degli economisti dall’altra. Nel caso degli aziendalisti, accanto a Giordano Dell’Amore, Giorgio Pivato e Carlo Masini, erano presenti Vittorio Coda, Roberto Ruozi e alcuni altri giovani freschi di laurea. Hai partecipato anche tu a queste riunioni?

R. Ho partecipato attivamente, tra il ’69 e il ’72, all’elaborazione di quei progetti con Dell’Amore, che teneva le fila, Pivato e Masini.

 

D. Il progetto elaborato in quell’occasione era estremamente innovativo. Furono messi a punto due piani: un piano per il breve periodo e uno per il lungo periodo. Nel ’69 fu approvato il piano a breve termine, con il primo biennio comune e il secondo diviso in Economia aziendale ed Economia politica. Qualche anno più tardi venne varato invece il piano a lungo termine: tre semestri comuni, la spaccatura tra Economia aziendale ed Economia politica. E di si cominciò a riflettere sulla possibilità di dare vita a tutta una serie di indirizzi specializzanti; come quello economico-industriale, quello creditizio, quello professionale ecc.

R. Ricordo che, in quegli anni ’70, la novità più importante fu la distinzione fra Economia aziendale ed Economia politica. Quella fu l’innovazione fondamentale. Essa venne assunta da molte altre facoltà di Economia negli anni successivi: è stata quindi un’innovazione di notevole importanza e di grande seguito.

 

D. Bisogna dire che la Bocconi ha fatto veramente scuola. L’altra cosa importante che si realizzò fra il ’69 e ’72 fu la Scuola di Direzione aziendale, che si sostituì al vecchio Corso serale per dirigenti d’azienda nato nel ’54.

R. Sì, allora c’era solo un corso serale di specializzazione; lo ricordo perché io vi ho sempre partecipato, come docente, fin dall’inizio: insegnavo la materia dei Costi di produzione. I corsi erano serali e si insegnava anche a persone mature, persone che già lavoravano nelle aziende. Allora sulla formazione post laurea in Italia non c’era assolutamente niente e anche questo corso era, in realtà, una iniziativa abbastanza modesta, per quanto di successo.

 

D. Infatti nel ’69 si decise di sospenderlo temporaneamente e, dopo un anno di riflessione, si ripartì con una iniziativa completamente nuova. Nella creazione della quale i giovani ebbero un ruolo centrale. Qual era il modello che avevate come riferimento pensando alla SDA?

R. Quando nacque la SDA, si sentiva l’esigenza che la Bocconi entrasse decisamente anche nel segmento della formazione culturale post laurea. Dal momento che non c’era niente in Italia, o pochissimo, si doveva e si poteva colmare il vuoto. C’era la possibilità di farlo e la scelta ebbe infatti successo.

 

D. Molte persone hanno contribuito a progettare la SDA, ma la persona che diede l’apporto maggiore fu Demattè. È esatto?

R. Dell’Amore ne fu il promotore e il massimo sostenitore: ricordo che, in Consiglio d’Amministrazione, non perdeva occasione di parlare della SDA. Ma il manager fu Claudio Demattè. Un giovane docente dotato anche di grandi capacità imprenditoriali.

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D. Gli anni ’70 sono anche gli anni in cui cominciano a proliferare i centri di ricerca. Fino a quel momento ne esisteva uno solo, il vecchio Istituto di Economia delle fonti d’energia, voluto da Dell’Amore, di cui tu fosti segretario (oltre naturalmente al Centro sulle Borse Valori dedicato alla memoria di Lorenzetti, che gestiva Pivato). Come sorse l’idea dei centri?

R. La ricerca stava faticosamente mutando da fatto personale dei docenti a processo organizzato e quindi dotato di mezzi propri (prima di allora nessun docente della Bocconi era stato mai dotato di una lira per scopi di ricerca).

L’attenzione di Dell’Amore e di Cicogna si concentrò su di me: forse ero, tra i giovani docenti, quello più impegnato nella ricerca. Mi fecero, perciò, dapprima segretario del Centro (erano gli ultimi anni ’50), il cui direttore fu Dell’Amore (e presidente l’on. Pella). Verso la fine degli anni ’60 ne divenni direttore.

L’Istituto per le fonti d’energia fu il primo a darsi una organizzazione, con spazi, con mezzi, con un proprio bilancio e così via. Possiamo dire che questa impostazione pose le basi del successo dei decenni successivi, il cui merito va a Sergio Vaccà, che, alla fine degli anni ’70, con l’appoggio di Gasparini, proposi alla direzione del Centro.

 

D. Secondo me l’anno più terribile per la Bocconi fu il ’73, l’anno in cui uccisero Roberto Franceschi. Quello fu sicuramente un momento traumatico e doloroso per tutti e in particolare per quanti vivevano in Università.

R. La morte di Franceschi fu un fatto traumatico per l’Università e per tutti noi. È doloroso pensare che la nostra Università, nata per aiutare i giovani a crescere e a maturare, possa essere diventata il luogo dove un giovane ha perso la vita. Fu una lacerazione profonda nella vita del nostro Ateneo ed è ancora doloroso parlarne.

 

D. In quel difficile 1973 si evidenziano anche i primi problemi economici per l’Università, se non sbaglio.

R. Sì, questo è un problema che fino ad allora era stato sottaciuto. Anche nei documenti ufficiali appare tra le righe, appena accennato. Il fatto è che cominciò a farsi sentire il deterioramento dei ricavi, che da vari anni non si adeguavano all’inflazione; mentre i costi erano cresciuti ben più dell’inflazione.

 

D. Quali strade furono battute per ridare fiato alla Bocconi e rilanciarla finanziariamente?

R. Ricorderò le cose così come le ho vissute io. Nel ’74 le difficoltà economiche diventarono rilevanti; nessuno all’esterno lo sapeva, e anche io conobbi la situazione solo quando mi venne chiesto di assumere la carica di consigliere delegato.

La prima idea che venne, la prima soluzione immaginata, fu quella di far fronte alla crisi creando nuovi prodotti didattici, introducendo corsi innovativi. Sono appunto gli economisti, e in prima linea Gasparini, che studiano il problema e propongono il DES (il corso di laurea in Discipline economiche e sociali).

L’idea del DES, che fu una innovazione significativa, dal punto di vista finanziario si rivelò solo un’illusione: non risolse e, anzi, aggravò i problemi, poiché si trattava di un corso molto qualificante ma con pochi studenti, quindi molto costoso.

La scelta di Cicogna fu allora quella di trovare qualcuno, qualche mecenate, che supportasse la Bocconi. In Italia, però, il mecenatismo fatica ad attecchire; specialmente se ti proponi l’obiettivo, come noi abbiamo tentato, di trovare 50 o 100 società o persone disposte a darti un contributo.

Fu così che Cicogna chiese aiuto a Roberto Calvi (allora presidente del Gruppo Banco Ambrosiano), il quale prese a cuore la questione e alla nostra Università riconobbe un contributo economico di 500 milioni all’anno. Negli anni ’70 non era una cosa da poco: fu un contributo decisivo per sorreggere il bilancio della Bocconi.

Su quella esperienza però non amo dilungarmi, per le terribili vicende personali del banchiere. Debbo comunque riconoscere che Calvi non influenzò in niente la politica della Bocconi: diede, ma non pretese alcunché.

 

D. Credo sia giusto riconoscerlo e ricordarlo.

R. Sì, non ha mai preteso niente. Forse ambiva a una laurea, forse aveva la speranza di avere un giorno la laurea honoris causa. Che noi non gli demmo perché non volevamo infrangere una regola: la laurea ad honorem non era stata data a nessuno, e non venne data a nessuno per tutto il secolo.

A ogni modo anche la munifica elargizione di Calvi non fu sufficiente. Fu quello il momento in cui Cicogna mi chiamò (lui mi ricordava come docente e io lo conoscevo per qualche incontro professionale, perché era un grande industriale ed era anche il presidente dell’Assolombarda) e mi fece una proposta singolare: entrare nel Consiglio d’Amministrazione e prendere in mano la situazione.

Debbo dire che non me l’aspettavo affatto. Rispondere non fu facile: in fondo si trattava, per me, di trasferire parte del non molto tempo di cui disponevo (anche per rilevanti impegni professionali) dall’attività di docente a quella di manager.

 

D. Cicogna era un bel personaggio, doveva essere un uomo estremamente duro e deciso.

R. Era l’industriale vecchio stampo, vecchio stile, capace di comandare. E aveva un grande amore per la Bocconi.

 

D. Libero Lenti parla di lui come del «sovrano» della Bocconi. In realtà al governo della Bocconi c’era una diarchia: Cicogna e Dell’Amore. Io Dell’Amore non l’ho conosciuto: era un uomo probabilmente schivo, che conoscevano bene solo gli amici, però anch’egli indubbiamente lasciò un segno.

R. Credo che sia corretto parlare di una diarchia; anche se, forse, pesava più Dell’Amore. Che era personaggio di grande rilevanza, noto studioso, persona profondamente corretta.

 

D. C’è un altro personaggio che appariva poco ma che ebbe un grande peso, soprattutto la forza di creare una scuola destinata a dominare gli studi di Economia aziendale: mi riferisco a Carlo Masini. Quest’omino apparentemente mite era, in realtà, estremamente determinato: creò una grande scuola e impose il suo teorema zappiano un po’ in tutta Italia.

R. Per certi aspetti il teorema venne spinto alle estreme conseguenze. D’altro canto lui era un po’ un estremista sul piano scientifico, come lo era sul piano religioso. Certamente ha avuto un grande successo e ha creato una scuola importante. Per lui ho sempre nutrito un grande rispetto.

 

D. Torniamo al problema finanziario: come l’hai risolto? Calvi fu una meteora che uscì presto di scena.

R. Con Cicogna rimasi un anno o due, perché nel 1975 Cicogna muore. Nel mio ricordo i problemi finanziari e i modi per risolverli li ho condivisi soprattutto con Spadolini (con l’assistenza quotidiana di Enrico Resti, il direttore amministrativo subentrato a Carlo Baccarini), con il quale ho collaborato molto più a lungo.

In ogni caso, sia con l’uno che con l’altro, ci eravamo chiaramente posti un problema: toglierci dalla dipendenza economica esterna, cioè dalla necessità di avvalerci di contributi esterni. Dovevamo liberarcene al più presto possibile per non correre il rischio, con il passare del tempo, di esserne condizionati.

 

D. La cosa curiosa è che tutti hanno sempre pensato che la Bocconi fosse l’Università della Confindustria, e invece mi pare di capire che gli industriali non abbiano mai dato molto.

R. No, niente di importante. Ma torniamo alle scelte operate per superare la crisi finanziaria e rilanciare l’Università.

Ricordo che un giorno dissi a Cicogna: «Bisogna che prepariamo un piano strategico a 10 anni». E Cicogna mi rispose: «Faccia pure, anche se in un mondo come quello di oggi, in cui è difficile fare previsioni anche a un solo anno di distanza, non vedo come si possa fare una previsione di lungo termine». E io: «Non voglio fare una previsione, ma una programmazione, che è un’altra cosa».

In realtà, ciò che mancava era proprio la capacità di immaginare obiettivi precisi e di formalizzare, tradurre le strategie in piani. Le decisioni erano prese sulla base delle intuizioni personali. Era necessario, invece, elaborare dei piani; e studiare dei piani vuol dire coinvolgere le persone, compresi i docenti; farle partecipare alle scelte per il futuro. E siccome chi fa un piano deve poi realizzarlo, deve stare molto attento a ciò che propone.

Nacque così l’idea di studiare le strategie per il futuro e di tradurle in «Piani». Ed è questo l’apporto nella conduzione dell’Università del quale mi sento più orgoglioso: forse anche perché i piani ebbero in genere successo (e di questo il merito va a molte persone).

 

D. Questo è stato sicuramente un grande cambiamento: perché, in fondo, fino alla fine degli anni ’50 tutto era affidato a Palazzina e quindi la Bocconi era proprio un’ azienda familiare. È questo il momento in cui l’azienda familiare si trasforma diventando anche impresa, oltre che università?

R. Sì, lo diventa per necessità! Il bilancio non regge più; bisogna quindi cambiare i criteri, e anche per questo probabilmente la mia idea di una gestione più di tipo manageriale che familiare, che coinvolga più persone, ha successo. È stata la necessità a farla passare.

 

D. Con l’arrivo di Spadolini si apre un periodo centrale della nostra storia. Ma forse è il caso di indugiare un momento sul breve rettorato Scalfi; un periodo molto difficile che mise il giurista a dura prova. Doveva essere il ’74-75, se non mi sbaglio.

R. Esatto. Esce Dell’Amore, che aveva fatto molto ma era ormai stanco, e gli subentra Gianguido Scalfi, fine giurista e gentiluomo tutto d’un pezzo.

 

D. Scalfi era uomo di grande rettitudine, di grande intelligenza. Aveva però una visione di fondo della vita che non ammetteva compromessi. Purtroppo quello era un momento che richiedeva grande elasticità, imponeva compromessi, esigeva mediazione.

R. E il grande mediatore fu subito chiamato in causa: Innocenzo Gasparini.

 

D. Saltando di palo in frasca: Spadolini venne eletto presidente automaticamente, essendo già vicepresidente, o c’era qualcuno dietro a questa scelta? Se ripenso a Spadolini mi viene da dire che l’uomo politico fu per la Bocconi degli ultimi trent’anni quello che Gentile era stato nel periodo 1932-1944.

R. Fu una scelta, non fu un fatto automatico, anche se si può dire che Cicogna avesse già in pectore Spadolini come suo successore. Spadolini, consigliere nominato dal ministero della Pubblica istruzione, era stato eletto vicepresidente – in quel periodo facevo già parte del Consiglio, e non ricordo che ci siano state altre candidature – e la sua candidatura era diventata naturale. I tempi erano a tal punto difficili dal punto di vista finanziario che, quando accettò, il governatore Baffi, membro del Consiglio, lo ringraziò «per il suo coraggio».

 

D. E lui, che evidentemente ci teneva, dimostrò sempre un grande amore per questa istituzione.

R. Sì, lui ci teneva, senza dubbio, ma ci ricambiò con grande affetto e grande impegno.

 

D. Spadolini e Gasparini furono un’ altra accoppiata, direi, vincente. Spadolini con il suo carattere forte e Gasparini con la sua grande capacità di mediazione. Ma a essi aggiungerei Guatri, poiché in realtà non fu un’accoppiata a vincere, ma una squadra formata da queste tre persone.

R. Lavorai bene con loro, perché ci integrammo molto bene, in una chiara divisione dei ruoli e in un clima di grande collaborazione.

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D. Con Gasparini, preside prima e Rettore poi, prese l’avvio una stagione di riforme, favorita anche dal declinare della contestazione, che Gasparini riuscì comunque a controllare. Io devo ammettere che, più ci penso, più rivaluto quest’uomo: aveva un fare da Monsignore, con grandi vedute e soprattutto grande onestà.

R. Sì, Gasparini riuscì a controllare la contestazione e questo fu senza dubbio un suo apporto fondamentale. Io di quelle vicende non mi sono quasi mai occupato, se le sbrigava interamente Gasparini; e anche Spadolini aveva grande fiducia in questa sua capacità, fiducia assolutamente ben riposta.

 

D. Torniamo un attimo su Guatri scienziato e docente. Siamo nel ’74 e sono passati venticinque anni da quando scrivesti il tuo primo libro e iniziasti la carriera accademica. Quali strade hai battuto in questo periodo?

R. Nei primi anni mi occupai soprattutto dei costi di produzione, uno dei punti delicati nella impostazione zappiana. Zappa aveva assunto una posizione che, vista nell’ottica internazionale, appariva incomprensibile: egli negava, nella sostanza, la possibilità di calcolare i costi di singoli prodotti.

Studiai per parecchi anni e scrissi anche due libri nei quali, in realtà, cercavo di spiegare il pensiero di Zappa come un contributo critico all’affinamento dei calcoli e dei metodi di rilevazione: ma concludevo che i calcoli andavano comunque fatti, come del resto in tutto il mondo si comportavano le aziende.

Un giovane e colto economista, Tullio Bagiotti, scrisse che io stavo demolendo le tesi zappiane «in pieno ossequio al Maestro». Di questo Zappa si inquietò molto contro Bagiotti, come pure Dell’Amore.

Zappa, su questo punto, era in disaccordo con le mie tesi. Anzi, prima di morire me lo scrisse, pur aggiungendo che apprezzava molto il mio lavoro, che poteva aprire nuove vie alla ricerca del futuro. Ma non cambiò per nulla la sua impostazione.

Allora, e per alcuni anni, il tema dei costi rimase centrale; poi si aprì un nuovo fronte – e la cosa nacque da una richiesta della Bocconi e, direi, soprattutto di Dell’Amore – quello del marketing, una disciplina quasi sconosciuta in Italia.

Alla fine degli anni ’50, comunque sicuramente con un primo libro nel 1960, affrontai questo tema; e poi ancora negli anni ’70, quando insegnai il marketing in varie università, perfino alla Cattolica.

 

D. Questa parte è molto importante. Io ricordo che in un Consiglio di facoltà della Bocconi, proprio a fine anni ’50, qualcuno propose di introdurre Marketing e qualcun altro, Demaria probabilmente, si oppose risolutamente alla cosa. C’era quindi un rifiuto di dare spazio a questa disciplina che poi ebbe grande successo?

R. No, quel che dici è eccessivo. Il problema è che tale disciplina non si poteva formalmente introdurre perché il ministero non accettava una etichetta anglosassone e dovemmo adottare altre etichette formali. In Bocconi teoricamente insegnavo Tecnica commerciale e praticamente addestravo gli studenti al marketing.

Poi ci fu un periodo, nei primi anni ’60 (questo è un episodio che pochi conoscono), in cui assunsi l’incarico alla Cattolica.

Alla Cattolica c’era Tommaso Zerbi, che mi pregò di tenere in contemporanea anche l’incarico di Tecnica industriale e commerciale; cosa che feci.

Successivamente, mi pare nel ’63 o ’64, Zerbi cercò di farmi chiamare alla Cattolica e fece bandire il trasferimento della cattedra, che fu celermente pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale». Questo mi avrebbe consentito di trasferirmi da Parma a Milano.

Andai allora da Dell’Amore a chiedergli il permesso di andare per qualche anno alla Cattolica e lui me lo rifiutò: «Se vai alla Cattolica» mi disse «ti si chiude la strada per la Bocconi. Tieni pure l’incarico per qualche tempo, questa è una cortesia che possiamo fare, ma, se tu accetti la cattedra, allora…».

E mi salutò assicurandomi che m’avrebbe chiamato in Bocconi al più presto. Non presentai alcuna domanda in Cattolica e nessun altro la presentò. Poi passarono cinque anni.

 

D. Torniamo alla Bocconi. Con Gasparini Rettore, ci si avviò timidamente sulla strada della internazionalizzazione; si cominciò a pensare che la Bocconi dovesse guardare anche all’estero.

R. Sì, infatti, timidamente e con i mezzi di allora, però questa fase ebbe inizio. Se ne parlò a lungo e si cominciarono a studiare i primi programmi.

 

D. Negli anni ’70 prese anche forma il «prodotto» più innovativo del dipartimento di Economia, il corso di laurea in Discipline economiche e sociali (DES). Fu, questa, una risposta alla SDA inventata dal dipartimento di Economia aziendale, o si trattò di una scelta autonoma?

R. L’idea era di fare un prodotto particolarmente qualificato e innovativo; pensato non tanto come risposta al successo della SDA, quanto come volontà di nuove sperimentazioni didattiche.

SDA e DES si possono considerare due esperienze sinergiche, che rappresentarono un momento di crescita per tutta la Bocconi e un punto di riferimento per tutto il sistema universitario italiano.

 

D. E veniamo agli anni del rettorato Guatri. Qui si decisero alcune cose importanti. Da una parte, a livello nazionale, prese l’avvio la riforma universitaria e dall’altra, alla Bocconi, si presero numerosi provvedimenti innovativi. Luigi Guatri, a mio avviso, è stato personaggio anomalo della storia dell’istituzione: è nominato Rettore, ma continua a fare il consigliere. Ci furono problemi nel polarizzarsi delle due cariche in una stessa persona? Come dire, come fu possibile la doppia maschera?

R. Sono stato consigliere delegato per venticinque anni; all’interno di questo periodo, e per un tempo molto più limitato, feci anche il Rettore. La coesistenza delle due cariche durò cinque anni solo.

A chiedermi di fare il Rettore fu Spadolini. Me lo chiese quando improvvisamente si ammalò e poi morì Gasparini.

Gasparini sarebbe rimasto a lungo, perché la nostra era una combinazione felice sulla quale nessuno discuteva. Io con Gasparini mi integravo molto bene, anche per il nostro diverso approccio ai problemi. Il problema successorio, che nessuno si era mai posto, nacque improvvisamente, dalla sera alla mattina. Quando si pose, Spadolini chiese se mi sentivo di «fare il Rettore, a condizione di tenere anche il posto di consigliere delegato». Presi un giorno di tempo, comunque gli diedi molto rapidamente una risposta, anche se per me fu una scelta delicata e difficile. Il ruolo di consigliere delegato lo sentivo meno impegnativo e in effetti non occupava tutto il mio tempo; avevo un’attività professionale importante e fare anche il Rettore voleva dire doverla trascurare per alcuni anni. Quindi i miei dubbi e i miei problemi erano legittimi.

Però, alla fine, gli diedi una risposta positiva. Ciò detto, debbo aggiungere che non ho mai avuto grandi problemi con questo abbinamento. Certo, era un abbinamento che non poteva durare a lungo; anche nelle mie intenzioni doveva essere di pochi anni, il tempo di lasciare crescere qualche persona che potesse sostituirmi.

 

D. Il rettorato Guatri fu momento di grande progettualità, quella progettualità alla quale ti riferivi prima, che raggiunse il suo apice con il «Piano Bocconi 2000», che si pose due obiettivi: quello di rinnovare, direi completamente, l’Università sia dal punto di vista didattico-scientifico sia dal punto di vista degli spazi. Come nacque questo progetto? A chi va il merito del grande lavoro di riflessione che c’è dietro?

R. Come ti dicevo, ho sempre creduto nella necessità di pensare e di formalizzare «piani». Ricordo che, nella fase iniziale, mi aiutarono Roberto Ruozi e Vittorio Coda, con i quali formulai un primo piano negli anni Settanta, nel quale cercavamo di delineare le strategie di base. Per la SDA mi rivolsi a Claudio Demattè.

Ora però il compito mi era facilitato dal fatto che ero anche Rettore. Il lavoro venne svolto con un ristretto gruppo di docenti, in modo che coloro che collaboravano si sentissero poi impegnati nella realizzazione. lo contavo molto sui direttori d’istituto. E in questo ruolo vi partecipò Mario Monti, al quale sarebbe poi toccato il compito di renderlo operativo.

Il piano, la cui stesura ci impegnò per alcuni anni, comprendeva anche il progetto edilizio; anzi, il ritardo nella realizzazione fu in gran parte legato proprio ai tempi lunghi dell’edilizia.

 

D. Non si erano previsti i tempi della burocrazia pubblica e la dura opposizione del Comitato di Quartiere.

R. Cose abbastanza singolari, che allora sottostimammo.

 

D. Alla fine, in realtà, anche il quartiere viene a beneficiare delle opere realizzate. A uno squallido deposito di corriere si è sostituito un bell’edificio con un grande spazio verdeMa non ci fu solo il Piano Bocconi 2000 a qualificare il rettorato Guatri. Ci furono l’accelerarsi del processo di internazionalizzazione, la creazione di un’organizzazione incaricata dell’immagine Bocconi, la riorganizzazione dell’amministrazione. Quando io arrivai a Milano, pochi funzionari e impiegati (Resti, Dubini, Rambelli, le signore Galli e Giudici ecc.) curavano tutti gli aspetti amministrativi. In fondo era ancora la famiglia di Palazzina; dagli anni ’80, invece, la struttura burocratica si è fatta più complessa ed è cresciuta in notevole misura.

R. Sì, la ricerca di nuove competenze impose il ricorso al mercato del lavoro. Per esempio, la comunicazione fu affidata a Mirka Giacoletto Papas, che veniva da un gruppo industriale importante. Insomma, cercammo anche di acquisire alcune specifiche competenze dall’esterno.

 

D. Un discorso non dissimile vale per l’editoria. Anche si parti con una joint venture con la Giuffrè, per arrivare poi a una casa editrice bocconiana, e questo fu un salto di qualità notevole. Naturalmente tutto ciò dovette incrementare i costi, impose rilevanti investimenti. Qual è il segreto che consenti di sostenere questi costi? Come fece la Bocconi a passare dalla povertà alla ricchezza? L’aumento delle tasse universitarie fu importante, ma ci dovette essere anche la capacità di gestire al meglio queste entrate.

R. L’idea fondamentale è in fondo stata quella di far pagare i servizi offerti per quello che valgono. Questo tu lo sai bene, ma vale la pena di ricordarlo; quindi alzare le tariffe consentendo, tuttavia, l’accesso a tutti. A questo, appunto, servirono le fasce di reddito in base alle quali stabilimmo l’importo delle tasse universitarie. In questo settore l’apporto di Gasparini fu determinante. Tutti gli anni, ad esempio, ci trovavamo con i rappresentanti degli studenti per comunicare loro le decisioni sulle tasse per il nuovo anno accademico, e lì la presenza di Gasparini e del suo savoir faire erano fondamentali.

In fondo il bilancio della Bocconi lo risanammo in 4 o 5 anni, cioè in un periodo abbastanza limitato. Perciò già dai primi anni ’80 potemmo cominciare a pensare al progetto edilizio.

Il fatto che poi il progetto edilizio abbia portato via tanto tempo è stato, dal punto di vista finanziario, una fortuna, perché nel frattempo potemmo accumulare risorse e sopportare più agevolmente i costi. Abbiamo potuto accumulare, nel tempo, cospicue riserve e ottenere finanziamenti a tassi molto favorevoli, e così predisporre tutte le condizioni necessarie alla buona riuscita dell’operazione.

 

D. Questo è stato molto importante. Non so se si possa dire, ma la mia impressione è che ci sia stata anche una gestione molto intelligente e molto accurata di questi accantonamenti.

R. Abbiamo cercato anche di farli fruttare, come è normale.

 

D. Riprendiamo il nostro viaggio nel tempo. Forse, prima di parlare del rettorato Monti, sarebbe interessante avere un tuo giudizio sul rettorato Guatri.

R. Francamente non riesco a separare la mia funzione di consigliere delegato che, ripeto, è durata 25 anni, da quella di Rettore. Poiché le due cose si sono sovrapposte, diventa difficile separarle. L’unica cosa che posso dire è questa: ebbi la possibilità, mettendo insieme le due cariche, di operare più speditamente. Per esempio, nella pianificazione del futuro.

Vorrei, inoltre, insistere sul fatto che in tutte le scelte importanti ho sempre cercato di coinvolgere le perso­ ne. In questa fase voglio ricordare Mario Monti e Roberto Ruozi, così come Vittorio Coda e vari altri. Ma non voglio fare il lungo elenco di quanti hanno partecipato alla formazione del piano. E in quei cinque anni, forse in particolare negli ultimi tre, dopo avere imparato un poco il mestiere di Rettore, riuscii a completare quel progetto a lungo termine che la Bocconi sta oggi realizzando. Certo, però, ora che il progetto volge a esaurimento, è il momento di fare un altro piano che interessi il prossimo decennio.

 

D. Rimangono gli ultimi 10-12 anni, che sono quelli più vicini a noi, quelli più conosciuti e sui quali si può forse dare un giudizio più sintetico. Cominciamo con il rettorato Monti. Cambia il gruppo al comando della Bocconi: la nuova terna è Spadolini-Guatri-Monti, che pare essere una terna molto funzionale, con una precisa divisione delle competenze. Ma mi pare che ci sia stato qualcosa di più di una semplice intente cordiale: fra i tre nacquero anche rapporti amicali, che non possono non aver favorito una gestione più efficiente dell’istituzione.

R. Devo dire che sono sempre stato un grande estimatore dell’opera di Monti, quindi ho concorso alla sua nomina a Rettore e poi a presidente di questa Università e sono convinto di avere dato un contributo importante alla Bocconi con queste scelte. Questo è il mio intimo convincimento, che rendo noto non perché questa intervista deve essere pubblicata, ma perché è l’espressione del mio reale stato d’animo.

 

D. Ma questo è evidente, debbo dire. La mia impressione è che negli ultimi anni, oltre ai personaggi sinora citati, uno spazio centrale fra quanti hanno dato molto alla Bocconi vada riservato a Roberto Ruozi. Mi pare che ci sia una grande continuità fra Guatri, Monti e Ruozi: il progetto iniziale, preparato dal primo, venne portato avanti con grande determinazione dal secondo e realizzato dal terzo.

R. Certamente Ruozi, con le sue eccezionali capacità decisionali e la sua franchezza, ha dato un contributo importante alla felice conclusione della vicenda. Non solo. Ha anche studiato e avviato – dando concreta dimostrazione di quella capacità di fare piani strategici, quindi di lungo periodo, di cui parlavamo dianzi – la riforma universitaria, addirittura prima che essa prendesse corpo a livello ministeriale.

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D. Io proverei a chiudere questa nostra chiacchierata su una domanda: come vedi la Bocconi di oggi e di domani, rispetto a quella di ieri, alla luce del lungo percorso durato mezzo secolo?

R. Per completare il discorso sul secolo che si è appena chiuso, vale la pena di ricordare che io sono stato uno dei fautori della chiamata, come consigliere delegato, di un vero manager, Giovanni Pavese, e anche questa è una novità ed è un dato importante per la Bocconi del futuro. È una rottura della continuità, la presenza di un consigliere delegato full time e d’estrazione aziendale: gli approcci di tipo familiare o paternalistico non sono più concepibili. Oggi occorre, e ancor più occorrerà domani, una gestione veramente manageriale e ciò si è ottenuto ricorrendo a un uomo che viene dalla direzione generale di banche e istituzioni finanziarie; che ha, insomma, tutte le caratteristiche del manager completo.

Questo secondo me è un ingrediente molto importante che darà, al di là delle persone, una spinta ulteriore alla Bocconi del futuro.

 

D. Un ultimo elemento importante di cambiamento è legato al fatto che da una piccola équipe di professori incaricati, oggi si è passati a 60 ordinari; e il numero è destinato a crescere ulteriormente. In quale misura questo cambiamento inciderà sulle sorti future dell’Università? Fino a poco tempo fa ogni decisione era affidata ai professori; i quali, si deve ammettere, non si sono comportati male. Il nuovo «assetto di poter saprà essere altrettanto innovativo e capace di mantenere alto il prestigio di questa Vecchia Signora, come sempre accadde in passato?

R. È evidente che la funzione dei professori è e rimane importantissima; penso però che a fianco dei professori ci vogliano, oggi, anche dei manager, cosa che appunto abbiamo fatto negli ultimi anni. La funzione manageriale (la Bocconi è ormai come una grande azienda) è importantissima, fermo restando che la funzione dei professori, trattandosi di una Università, è e rimane fondamentale.

Devo dire che è stata una positiva casualità storica che qui siano comparsi alcuni professori, fra i quali immodestamente mi inserisco, capaci di coniugare l’insegnamento con la gestione di una grande istituzione culturale. Ma si tratta appunto di una casualità, e, come tale, difficilmente ripetibile.

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