Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

Contrasti, tensioni, problemi alla fine degli anni Cinquanta


Parole chiave: Rettore Sapori Armando, Demaria Giovanni, Baccarini Carlo, Segreteria, Di Fenizio Ferdinando, Personale tecnico-amministrativo

Il 26 novembre 1957 «Il Mondo» pubblicò un lungo articolo dal titolo La «Bocconi» legata, a firma Nello Finocchiaro, che gettò nella costernazione il direttore amministrativo e creò molto imbarazzo e qualche irritazione fra i membri del corpo accademico e del Consiglio di Amministrazione. L’autore, ricordata la genialità del progetto e l’oculatezza delle scelte fatte da Ferdinando Bocconi e da Leopoldo Sabbatini, indicava negli anni ’20 l’età dell’oro della scuola[1] e leggeva i decenni successivi come un lungo periodo di declino durante il quale «all’antifascismo di marca liberale, sostenuto da ragioni economiche» dei professori della Bocconi era mancata «la spinta di quelle esigenze politiche e morali che, sole, avrebbero potuto dare a quell’atteggiamento un più chiaro significato di opposizione al regime»; mentre il conservatorismo scarsamente illuminato che ne era seguito aveva dato solo parziale risposta alle rinnovate esigenze dell’economia italiana, limitandosi «a soddisfare gli interessi di determinati gruppi economici, i quali non si identificano con gli interessi generali della collettività».

Il giornalista, di fatto, rimproverava ai docenti e agli amministratori in carica di essere la longa manus di Confindustria e di piegare le superiori esigenze dell’Università a quelle del potere economico, del quale alcuni di loro (Cicogna e Faina, in particolare) erano eminenti rappresentanti. A prova di ciò, oltre alla peculiare composizione del C.d.A., egli adduceva la mancata pubblicità dei bilanci, che imputava alla necessità di occultare i contributi erogati da determinati gruppi economici; quegli stessi che, a suo avviso, avevano spinto l’Università a privilegiare le discipline aziendali, a discapito di quelle più strettamente economiche[2].

L’articolo continuava denunziando l’assoluto vantaggio degli studenti benestanti nei confronti di quelli meno economicamente dotati; i problemi connessi alla docenza (lo scarso numero degli ordinari e la rilevante presenza di incaricati e assistenti mal pagati e scarsamente motivati); la disorganizzazione di alcuni servizi e via enumerando.

Critiche non dissimili furono mosse al corso di laurea in Lingue e Letterature straniere: un solo ordinario per una popolazione studentesca in continua crescita; un piano di studi scarsamente innovativo[3] che, se pur garantiva agli studenti una preparazione superiore a quella dei laureati di altre scuole, risultava inadeguato alle richieste di «tecnici delle lingue da parte di organismi politici ed economici internazionali e dalla evoluzione dell’industria e dei commerci in campo interno»; una organizzazione dei corsi non all’altezza della fama dell’Università ecc.

Anche fra gli studenti di Lingue erano rilevabili stridenti differenze: «[…] qui il 90% degli allievi è di sesso femminile […]: un gran numero di maestre; le quali, avendo la possibilità di accedere alla Bocconi senza concorso, tentano di sfruttare l’occasione per migliorare le prospettive della loro carriera [e] una minoranza di allieve, quasi tutte provenienti dai Licei e appartenenti alle famiglie della ricca borghesia lombarda, che frequentano l’Università perché ritengono che la conoscenza delle lingue sia di moda. Rimane quel 10% di allievi, che appartengono al sesso maschile. Di questi si può dire che sono i più sensibili al problema di svecchiare la facoltà».

Lo scritto si chiudeva riconoscendo al C.d.A. una particolare sensibilità «agli stimoli del progresso industriale»; ma segnalando nel contempo i pericoli insiti nell’ordinamento di una scuola che, essendo privata, aveva finito col privilegiare le relazioni «tra amministrazione della scuola e grandi imprese economiche», subordinando alle stesse l’intera «attività pedagogica» dell’Ateneo.

Ce n’era abbastanza per aprire un pesante contenzioso con la prestigiosa testata; ma le mezze verità contenute nell’articolo dovettero indurre le autorità accademiche alla prudenza e a privilegiare la strada della risposta indiretta. Oltre tutto c’era la netta impressione che l’ispiratore dello scritto fosse qualcuno abbastanza addentro alle cose dell’Università e si temeva che reazioni troppo scoperte avrebbero innescato pericolose polemiche, che avrebbero finito col mettere in discussione il buon nome della Bocconi in misura ben superiore a quella dell’articolo incriminato. D’altro canto, si riteneva che una precisa smentita alle illazioni del giornalista fosse leggibile nei fatti e in particolare nella decisione, assunta proprio in quell’anno, di destinare le due nuove cattedre previste in organico proprio a quelle discipline che si dicevano osteggiate e tenute da parte: a Statistica metodologica la prima (sulla quale, di lì a poco, sarebbe stato chiamato Francesco Brambilla) e a Politica economica e finanziaria la seconda, per la quale si pensava a Ferdinando di Fenizio o a Valentino Dominedò.

Diversa fu invece la reazione degli studenti che, punti nel vivo dalle disinvolte osservazioni, contrattaccarono attraverso «Il Bocconiano»[4]: dopo essersi chiesti cosa avesse indotto un importante «settimanale politico-economico e letterario a discreditare studenti, docenti e Università Bocconi (più “libera” che “privata”) per un’intera pagina», essi rilevavano l’inesattezza di molte delle affermazioni fatte, rivendicavano la completa indipendenza dell’Università da «poteri forti» e ponevano l’enfasi sulla centralità della teoria e della politica economica nella formazione del laureato e sul ruolo dell’Università quale «fucina inesauribile di spiccate personalità dello studio, nel campo dell’economia, della politica e delle finanze».

Sullo stesso numero del giornale universitario Vittorio Enzo Alfieri, in una lettera aperta indirizzata a Mario Pannunzio, direttore de «Il Mondo», assumeva invece le difese del corso di laurea in Lingue, dando risalto all’alto livello degli insegnamenti impartiti e all’ottima preparazione degli allievi e sottolineando l’interesse che il mondo economico dimostrava nei confronti dei laureati in Lingue della scuola milanese.

Anche Armando Sapori, nel discorso d’apertura dell’anno accademico 1957-58[5], prese implicita posizione sulla questione dichiarando, cifre alla mano (era la prima volta che un Rettore accennava ai risultati di bilancio dell’istituzione), che la Bocconi doveva la sua indipendenza proprio alla sua autonomia finanziaria[6], che la rendeva libera da vincoli pubblici, da ingerenze e da interessi di singoli, gruppi o fazioni. Una libertà preziosa, che però trovava precisi limiti nell’ordinamento generale dell’istruzione superiore, il quale imponeva, anche all’Ateneo milanese, «un piano di studio conforme a quello delle Università di Stato, che non può subire varianti. Così potessi modificarlo! E non, s’intende, per suggerimento di chicchessia, eventualmente desideroso di poter disporre di giovani dottori preparati per determinate funzioni [corsivo mio]; ma per l’esperienza dei miei 25 anni di insegnamento, inseriti nel più che cinquantennale ciclo di vita dell’Università»[7].

Per un messaggio rivolto a un pubblico meno vicino all’Università si ricorse invece alla stampa amica; e il risultato fu un lungo articolo su «La Settimana Incom» dove, prendendo spunto dall’anomala presenza femminile alla testa del Consiglio d’Amministrazione della Bocconi, il giornalista ripercorse la storia dell’Ateneo, ricordandone le origini, la notorietà acquisita grazie al prestigio del corpo accademico, l’antifascismo liberale dei membri più eminenti, la coraggiosa presa di posizione di Demaria al convegno di Pisa del ’43, e finì ricordando le scelte innovative del dopoguerra, le originali forme di finanziamento adottate, la modernità del pensionato. Tutti elementi che, a suo avviso, contribuivano a fare dell’Ateneo milanese «una fetta d’America tra il verde di Parco Ravizza […], una università come quelle che ammiriamo nei documentari dell’USIS e dove s’allevano, nel ronzio di fantastiche calcolatrici elettroniche, i futuri quadri dirigenti dell’economia italiana»[8]. Da un estremo all’altro insomma.

L’avrebbe seguito, due mesi più tardi, sempre sullo stesso settimanale, un ulteriore contributo[9] in cui si paragonava la Bocconi a un’isola felice, non coinvolta nel marasma finanziario del sistema universitario statale, dotata di un’ottima biblioteca, di un pensionato funzionale e accogliente, di un efficiente circolo studentesco, di consistenti borse di studio e via discorrendo. Una Università così libera da permettersi, pur essendo così liberale, quale Rettore un senatore del Fronte popolare, che la nomina all’alta carica aveva spinto a mettere da parte ogni ambizione politica per dedicarsi interamente alla gestione dell’istituzione.

I due articoli erano, però, troppo encomiastici e di parte per far da efficace contraltare a quanto aveva scritto «Il Mondo». Occorreva il giudizio di una voce libera e indipendente. E il colpo grosso lo fece il vecchio direttore della segreteria coinvolgendo nella polemica una firma famosa, un giornalista noto per la sua incorruttibilità, la sua indipendenza e le posizioni anticonformiste che assumeva: Indro Montanelli, che la Bocconi conosceva bene, non mancò di rimettere le cose al loro posto, chiudendo così definitivamente la questione.

Un ulteriore scontro a mezzo stampa si ebbe, nel marzo dell’anno successivo, fra l’amministratore delegato e i dirigenti del «Circolo Bocconiano». A innescare la polemica fu un servizio che la televisione dedicò alla vita degli ospiti del pensionato. Nel corso dello stesso Italo Munari, sollecitato da un intervistatore, negò l’esistenza di un severo regolamento interno, come sostenevano invece gli studenti, e dichiarò che gli ospiti godevano della massima libertà di movimento, di giorno e di notte; che l’istituto era dotato di impianti sportivi d’avanguardia e che i pasti erogati erano variati e abbondanti. Quasi a illustrare le sue affermazioni, sullo schermo scorrevano immagini che mostravano studenti che si allenavano al pugilato in palestra, che strimpellavano la chitarra o facevano cori nella hall.

L’encomiastica presentazione dell’istituzione, fatta dal direttore del pensionato, suscitò le risentite reazioni degli studenti, che, in realtà, avevano qualche critica da muovere alla stessa; inducendo il presidente del Circolo Bocconiano a inviare una lettera aperta[10] alla RAI e ai maggiori quotidiani nazionali, nella quale si rettificavano alcune delle affermazioni di Munari e, di fatto, si metteva sotto accusa la gestione del pensionato, considerata eccessivamente repressiva, paternalistica, parziale, poco trasparente e via discorrendo. La lettera in questione, apparsa anche su «Il Bocconiano», spinse Alessandro Croccolo, a nome del C.d.A., a prendere posizione contro accuse giudicate infondate e discutibili. L’amministratore delegato non negava l’esistenza di severe norme che ritmavano la vita degli ospiti e ammetteva una certa monotonia nel vitto; ma sosteneva non solo la liceità, ma addirittura la necessità di una vita comunitaria minuziosamente regolata, l’unica che, oltre a salvaguardare il tacito patto siglato con le famiglie degli ospiti, avrebbe permesso la serena permanenza degli stessi e il proficuo svolgimento degli studi[11].

A ogni buon conto, al di là delle capziose interpretazioni di taluni giornali o delle enfatiche lodi di altri, non v’è dubbio che, alla fine degli anni ’50, alcune questioni rimanevano insolute rischiando di avvelenare gli animi di docenti e studenti. Aperto era il contenzioso fra Demaria e il Consiglio di Amministrazione che aveva portato, anni prima, l’organo direttivo a sollevarlo dal governo dell’Università, e che il tempo aveva ulteriormente aggravato[12]; aperta era la questione del corso di laurea in Lingue e Letterature straniere, che necessitava di essere potenziato e del quale il corpo docente, invano, richiedeva la trasformazione in facoltà; aperto rimaneva il contrasto tra il direttore dell’Istituto di Economia e una parte degli studenti, che mal sopportavano che il suo esame avesse come premessa inderogabile un’indagine condotta su serie storiche di prezzi, secondo parametri che lo stesso Demaria aveva predeterminato[13]. Ricerca che, dai più, era vissuta come una vera e propria «angaria», piuttosto che come un’indispensabile presa di contatto con la disciplina[14].

Delle ansie e delle proteste degli studenti si era fatto portavoce il giornale universitario, che più volte era intervenuto contro tale prassi. Sandro Gerli, per non fare che un esempio, che evidentemente aveva già sostenuto l’esame di Economia, trasfondeva in un lungo articolo ad usum matricularum le sue esperienze di lavoro di gruppo[15]:

«Alcuni giorni addietro mi capitò, senza volerlo, di trovarmi mischiato ad una folla di matricole, che usciva da una delle nostre vaste aule di recente riammodernate dopo aver avuto il primo contatto con il Professore Demaria. L’atteggiamento psicologico generale che trovava espressione nelle forme verbali del colorito linguaggio studentesco era dominato dalle note dello stupore, dell’incertezza e di quel vago disagio che si afferma quando non si è capito qualche cosa e non si sa che fare […]. Riandando all’esperienza passata mi venne fatto di pensare alla “collaborazione entusiastica dei gruppi di lavoro” di cui parla il Professor Demaria nel volume quarto dei Materiali per una logica del movimento economico (pag. 39) ed al reale atteggiamento di scarso interesse della quasi totalità dei bocconiani che vi lavorano […]. Di fatto potrei essere d’accordo sull’espressione collaborazione entusiastica soltanto nel caso che l’aggettivo, entusiastica, fosse sinonimo di “totalitaria”; ma se esso s’intende nel reale significato di spontanea e gioiosa partecipazione ai gruppi di lavoro, allora sono costretto a ritenere perlomeno opinabile tale affermazione dal momento poi che i lavori sono imposti come conditio sine qua non per il sostenimento dell’esame di economia. Non sono venuto su tale argomento con l’intenzione di esaminare l’aspetto psicologico della questione “lavori di economia”, ma per mettere in luce l’atmosfera generale, già di per se stessa molto significativa, entro la quale si svolge l’attività di tali gruppi ed in conformità alla quale si verificano fatti di una notevole gravità a causa di uno stato di difficoltosa comprensione su cui sono impostate le reciproche relazioni fra studenti e, nel caso specifico, professore Demaria […]. Lo stimolo a dar libero corso alla penna mi è venuto semplicemente dal desiderio di esporre taluni fatti da me e ritengo da molti altri constatati. Innanzitutto, allo studente viene affidato un lavoro di ricerca per il quale necessiterebbe la conoscenza di uno schema metodologico d’indagine, sia pure elementare, di cui esso è completamente sprovvisto, al fine di non ficcare a casaccio il capo entro libri, annuari, riviste e per poter compiere una preventiva discriminazione qualitativa delle fonti […].

Venendo all’aspetto, diciamo così strumentale del processo attraverso il quale vengono eseguiti i lavori in oggetto, dobbiamo ancora riscontrare che gli studenti sono generalmente sprovvisti di quei pur elementari strumenti statistici dei quali si debbono servire per sottoporre ad una prima elaborazione i dati da essi reperiti. Già alla luce di tali verificabili premesse appare lecito avanzare delle riserve sui risultati delle ricerche condotte dai gruppi di lavoro. Il dubbio inoltre circa la validità dei suddetti risultati, e di per se stessi come forme di espressione di realtà e, soprattutto, come strumenti destinati ad assolvere la funzione di probante empirica di una teoria viene ulteriormente aggravato dalla conoscenza di taluni fatti. Si sa che più volte gli studenti per soddisfare le richieste del professore Demaria ed ottenere l’approvazione del lavoro, integrano le seriazioni da presentare, in alcuni punti lacunose, con dati inventati o suggeriti per associazione analogica con l’andamento generale della seriazione stessa, oppure modificando l’espressione diagrammatica della serie di dati onde ottenere un andamento più vicino ad uno ritenuto più “utile” o “comodo” […]. Pur essendomi riproposto di attenermi alla esposizione di dati di fatto e di non entrare in valutazioni di merito intorno all’organizzazione tutta dei “gruppi di lavoro”, non posso tuttavia esimermi dal rilevare che il troppo ridotto numero di ore dedicate dal Professore Demaria per ricevere gli studenti che devono dare relazioni sui propri lavori crea una situazione di rush hours e di disagio: disagio che finisce con il disamorare lo studente che nei pochi minuti di colloquio a sua disposizione non è materialmente in grado di esporre ciò che ha trovato e, soprattutto, ciò che pensa di poter e di dover fare, e di ricevere dal professore quei consigli e quei suggerimenti indispensabili a farlo sentire legato ad un logico filo di svolgimento dell’attività scientifica e di essa membro attivamente operante»[16].

Da quel che è dato di capire, anche di fronte al malcontento montante[17], Giovanni Demaria mantenne ben ferme le sue convinzioni secondo una logica che aveva così ben sintetizzato nel corso del burrascoso convegno pisano del ’43: «Mi chiudo nella mia torre d’avorio e dico che se uno studente si presenta al mio cospetto negando la verità dei nostri teoremi, io lo boccio»[18]. Un atteggiamento che assunse anche di fronte ai timidi appunti sull’argomento, mossigli in diverse occasioni dal Consiglio di facoltà. Demaria era probabilmente fatto così: quando era convinto di essere nel giusto, tirava diritto per la sua strada senza guardare in faccia nessuno.

Più complesso si presentava invece il contenzioso apertosi in quegli anni sulla organizzazione didattica della sezione di Lingue e Letterature straniere. Esso venne allo scoperto nel ’56 quando, in una riunione del «congresso degli studenti», fu approvato un ordine del giorno nel quale si chiedeva «alla suprema autorità accademica della Bocconi e al Consiglio che governa finanziariamente detta Università: l’incremento del numero degli assistenti retribuiti per permettere ai responsabili dei vari corsi di impegnarsi a condurre programmi veramente organici e rispondenti alle esigenze di una sezione lingue»; la sostituzione della prova dal latino con quella dall’italiano; il ripristino del corso di Pedagogia soppresso due anni prima; l’attivazione di un certo numero di complementari al fine di aumentare la gamma delle opzioni, che gli studenti giudicavano molto ristretta[19].

La riunione, chiusasi sulla proposta del presidente del Circolo Bocconiano di lasciar sedimentare i temi in questione e di ridiscuterli in maniera più serena e ponderata in successivi incontri, riprese invece il giorno seguente: nel corso di una burrascosa assemblea (spontanea?), tenutasi alla presenza dei professori di Lingue, fu votato un ordine del giorno, sottoscritto anche da una parte del corpo docente, che alle richieste precedenti aggiunse quella di trasformare il corso di laurea in facoltà e di dotare la stessa dei docenti di ruolo necessari al suo funzionamento[20].

Furio Cicogna, messo ufficialmente al corrente di tali richieste da una lettera «senza firma e senza data»[21], si affrettò a trasmetterla al Rettore, senza nascondergli la sua irritazione per le forme adottate. Il tono usato dagli scriventi non era, in realtà, troppo inurbano; ma il presidente del C.d.A. non intendeva mettere in discussione le scelte a suo tempo fatte e soprattutto non accettava pressioni di sorta: sarebbe trascorso un decennio prima che la trasformazione del corso di laurea in Lingue in facoltà fosse posta in discussione dal C.d.A.

Alcuni degli argomenti sollevati nel corso di quell’assemblea richiedevano, invece, attenta considerazione[22]; tanto più in un momento nel quale il problema della riforma universitaria era entrato nell’agenda del governo e, fra i vari provvedimenti in discussione, andava prendendo piede l’idea di aggregare i corsi di laurea in Lingue e Letterature straniere alle facoltà di Lettere e di Magistero e, di conseguenza, di sopprimere quelli tenuti presso le facoltà di Economia[23].

Per contrastare questa manovra, che avrebbe privato la Bocconi di 2.500 studenti e dei relativi contributi, oltre a esercitare pressioni sul governo avvalendosi dell’autorevole mediazione di Giuseppe Pella, si attuarono decisi interventi sulla didattica per consentire alla Bocconi di riaffermare il suo ruolo di insostituibile fucina di linguisti specialisti e di chiedere quindi, assieme a Ca’ Foscari, l’esclusione da ogni provvedimento tendente a sottrarle il corso di Lingue.

Tali interventi riguardarono gli insegnamenti fondamentali, che furono riorganizzati in istituti e seminari[24]; nei quali – lo ricordava Sapori nel discorso di apertura dell’a.a. 1959-60 – «i giovani, raggruppati per unità opportunamente selezionate […], si eserciteranno sui testi, faranno dettato, traduzione, composizione, conversazione. A questi seminari accudiranno per ora docenti italiani, in prevalenza i nostri migliori laureati; ma quanto prima gli studenti saranno assistiti, negli ultimi anni della lingua di specializzazione e di magistero, da lettori provenienti da Università straniere»[25].

Aria nuova si respirava anche nella facoltà di Economia dove Ferdinando di Fenizio, chiamato alla Bocconi sulla cattedra di Politica economica, aveva dato vita a diverse iniziative volte ad ammodernare l’Istituto a lui affidato e a farne un vero e proprio centro per lo studio degli effetti economici delle scelte politiche del governo e per l’analisi della congiuntura; argomento del quale, in quel momento, era considerato il maggior esperto in Italia: la sua fama di economista di valore, la sua integrità morale e la sua vicinanza al partito di maggioranza relativa avevano spinto diverse istituzioni pubbliche o private ad avvalersi dei suoi servizi[26], offrendogli cospicui mezzi di ricerca che egli girava regolarmente all’Istituto, che avrebbe voluto dedicato ad Attilio Cabiati[27], dove un gruppo di giovani (tra i quali Mario Arcelli, Giorgio Lunghini e Alberto Sdralevich)[28] andava facendo le prime esperienze nel campo della ricerca e nell’insegnamento e lo coadiuvava nella conduzione della rivista «L’industria», che di Fenizio aveva posto sotto il patrocinio dell’Università.

Rifiutata la condirezione del «Giornale degli Economisti», ripetutamente offertagli dal C.d.A., che sperava in tal modo di togliere spazio a Giovanni Demaria, i cui contrasti con l’organo di governo dell’Università erano sempre più insanabili, egli si era dedicato con entusiasmo alla ricerca di soluzioni praticabili ai primi sintomi di un malessere che, nella seconda metà del decennio, avrebbe interessato l’intero sistema universitario nazionale[29].

L’inizio degli anni ’60 stava, infine, preparando non marginali cambiamenti in seno all’amministrazione e alla biblioteca dell’Università. L’uscita di scena di Palazzina e di Pagliari aveva posto problemi di non poco conto nell’erogazione di servizi che, sino a quel momento, erano stati prestati in maniera soddisfacente, se pur poco ortodossa, grazie alla eccezionale personalità dei due precedenti direttori; i quali, per così dire, avevano forgiato gli uffici a loro immagine e somiglianza.

Ora il mutato assetto al vertice degli stessi rivelava i limiti – e soprattutto l’irripetibilità – di tale stato di cose; imponendo l’attivazione di procedure che consentissero di riorganizzarli in maniera meno personale. Alla direzione della biblioteca, affidata alla supervisione di Francesco Brambilla, venne assunto Franco Max che, al suo arrivo, trovò un arretrato di migliaia di volumi da schedare e che, dopo averli sistemati, decise di rinnovare lo schedario, che giudicava ormai superato, e di dotare la biblioteca di nuovi strumenti atti a supplire la prodigiosa memoria del suo predecessore.

Uno dei primi atti di Carlo Baccarini, assunto a capo dell’amministrazione, fu invece l’avvio di un’indagine sul funzionamento della stessa e la stesura di una lunga relazione che fu inviata al presidente del C.d.A.; il direttore amministrativo rimarcava la sostanziale funzionalità degli uffici a lui sottoposti, pur annotando alcune distorsioni nei servizi resi, e formulava proposte atte a eliminare le disfunzioni osservate: una certa disinvoltura della segreteria studenti nella «tenuta dei registri della carriera scolastica (poca chiarezza nelle scritture, sistemi di correzione non accettabili sui documenti di così delicata importanza, ecc.)»[30]; una approssimativa «compilazione dei verbali d’esame sia speciali che di laurea»[31] e l’assenza di scritture sistematiche relative alla riscossione di tasse e contributi, che «rendeva quasi impossibile compiere un qualsiasi controllo sulle somme che vengono riscosse dagli uffici, non rimanendo altra traccia che la semplice annotazione eseguita dall’impiegato addetto allo sportello, sulla domanda dello studente». La segreteria affari generali mancava invece di un protocollo della corrispondenza, di un archivio del personale e conservava in disordine gli «atti accademici»; mentre l’economato non redigeva alcun inventario del patrimonio, né produceva documenti atti a consentire un controllo di merito sugli acquisti.

Tutto questo, secondo Baccarini, era da attribuirsi alla cronica scarsità di personale, solo in parte compensata dal grande attaccamento alla Bocconi e dall’alta professionalità dello stesso. Quale esempio il direttore portava quello dell’unico fattorino esistente che, «oltre ad attendere al servizio di anticamera e alle richieste degli uffici, è adibito al servizio esterno (banche, posta, commissioni, ecc.): per buona parte della giornata gli uffici rimangono sprovvisti di personale subalterno e l’anticamera rimane non sorvegliata»[32]. Secondo Baccarini la rapida crescita dei compiti affidati all’amministrazione avrebbe richiesto un massiccio incremento del personale. Nel breve periodo egli limitava le sue richieste a una segretaria-dattilografa e a un altro inserviente; ma faceva presente che l’uscita di scena di Palazzina aveva comportato la fine delle sue incredibili economie e quindi imposto un consistente incremento della dotazione finanziaria della segreteria.


1

Il giornalista, come si potrà notare nel brano seguente, interpretava con una certa libertà la storia dell’istituzione: «Nel 1920, Luigi Einaudi dà vita a un Istituto di Economia, le cui pubblicazioni, gli “Annali di Economia”, conferiscono alla scuola un nuovo prestigio. Con la promozione a università la Bocconi moltiplica i suoi sforzi: sorgono istituti di statistica, di ricerche tecnico commerciali, di storia delle dottrine economiche, di diritto commerciale, di merceologia. Gli anni compresi tra il 1920 e il 1925 rappresentano il periodo aureo di queste attività. Le pubblicazioni degli istituti di ricerca della Bocconi fanno accorrere ad essa un numero sempre crescente di giovani studiosi e ai nomi dei vecchi docenti – i Loria, i Pantaleoni, i Del Vecchio – si aggiungono quelli non meno famosi di Pacchioni, Sraffa e De Maria [sic]».

2

«Oggi» si osservava «la Bocconi crea buoni amministratori, laureati che conoscono la ragioneria e le materie aziendali, ma non vuole che lo studio dell’economia politica impegni troppo l’intelligenza dei giovani, perché teme che l’approfondimento di questa disciplina possa creare in loro nuovi interessi, non conciliabili con quelli dell’industria». Di tale atteggiamento sarebbe stato il principale responsabile il C.d.A., la cui ostilità nei confronti di ogni tentativo di dare più spazio alla teoria economica si sarebbe estesa persino alla proposta formulata dalla «Società degli Economisti», di riformare il corso di studi prevedendo due distinti percorsi, uno a carattere tecnico-commerciale e l’altro a carattere tecnico-scientifico.

3

«Anche alla Bocconi si è rimasti indecisi se imperniare l’insegnamento sul concetto di cultura generale, oppure dar vita a un piano di studi capace di creare veri e propri conoscitori delle lingue moderne. Una volta scelta la via di mezzo, si è finito con l’includere tra le materie fondamentali il latino, la filosofia, la geografia e la filologia, oltre all’italiano e a quattro lingue straniere. Fino a qualche tempo fa, gli allievi dovevano sostenere due esami scritti di latino e uno orale per storia della filosofia, ma in seguito alle agitazioni del febbraio ’56 essi ottennero la riduzione delle due prove di latino ad una, con possibilità di scelta, e l’abolizione dell’esame per storia della filosofia».

4

L. Luini, Vogliamo polemizzare con «Il Mondo», in «Il Bocconiano», dicembre 1957.

5

«Discorso inaugurale dell’anno accademico 1957 -58 pronunciato dal Rettore Prof. Armando Sapori il 15 dicembre 1957», estratto dal Vademecum dello studente, Milano-Varese 1958, pp. 3-6.

6

Ibidem. «L’Università Bocconi non è coinvolta dalla crisi. Sottolineo che lo deve al fatto che non attinge dallo Stato i mezzi del proprio finanziamento ma vive in modo autonomo: tasse pagate dalla popolazione studentesca, propri proventi patrimoniali, contributi di enti pubblici e privati, avendo a suo carico, com’è ovvio gli stipendi del personale insegnante e di quello amministrativo e di biblioteca. Cifre tutt’altro che astronomiche quelle delle entrate, che un’accorta amministrazione manovra senza grettezza ma anche senza sperperi: tanto che i bilanci, trasmessi ogni anno a termine di legge a Roma, non una sola volta hanno dato motivo a osservazioni e tanto meno a rilievi da parte del Ministero della Pubblica Istruzione. Né potrebbe essere diversamente d’altronde, perché del Consiglio fa parte, intelligente e oculata sentinella, un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, oggi S.E. Pella, ieri l’on. Casati, l’altro ieri il sen. Gentile. Questo rappresentante si affianca a sua volta ad altri membri, a somiglianza di quanto avviene nei consigli di amministrazione delle Statali, tra cui il Rettore in carica. Questo solo c’è di diverso, a tenore del nostro statuto, che alcuni membri sono di nomina del Presidente rappresentante del Fondatore. Non è senza significato, però, che proprio fra questi ultimi si hanno quattro bocconiani e due ex Rettori. Il che dà conferma della volontà della presidenza di non legare l’Università, già indipendente finanziariamente, ad influenze di sorta. I bilanci dunque trasmessi al Ministero. Non ho esitazione a riferire in questa sede, in cifre percentuali, il totale delle rendite bocconiane ragguagliate a cento: proventi tasse e proventi patrimoni ali 87%, contributi di enti pubblici e privati 12.36%; e anche qui suddivido: enti pubblici 7,85%, istituti bancari 2,40%, aziende e privati 2,11%. Questi dati si riferiscono al bilancio 1956-57 ultimo chiuso e approvato. Non a caso l’insegna della Bocconi reca «Libera Università». Libera dallo Stato, altrettanto libera da ingerenze di gruppi e quindi di interessi. Quanto all’indipendenza da gruppi non occorrono, credo, altre parole dopo le cifre che ho riferito. Non può pretendere di essere padrone di una società l’azionista che dispone di due centesimi del pacchetto azionario» [corsivo mio].

7

«Le modifiche che suggerirei sarebbero intese a premettere un costante aggiornamento degli insegnamenti fondamentali alle esigenze di una vita in rapida trasformazione, in una cerchia non soltanto italiana ma mondiale, così da consentire al laureato di affrontare, con la più efficiente preparazione generale, quella specifica carriera alla quale intende indirizzarsi».

8

S. Carcano, L’Eton d’Italia si chiama Bocconi, in «La Settimana Incom», 4 gennaio 1958.

9

C. Ravaioli, La Bocconi fa da sé, in «La Settimana Incom», 3 aprile 1958.

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«Il Bocconiano», aprile 1959. «Milano 12 marzo 1959. La sera del 6 marzo nella rubrica “Lei e gli altri” la RAI-TV ha messo in onda un documentario sul Pensionato della Università Bocconi nel quale la verità è completamente falsata, e le impressioni contenute sono tali da presentare un quadro assolutamente lontano dalla realtà. Quale Presidente del Circolo Bocconiano […] mi sento in dovere di precisare quanto segue: 1) Alla domanda se il pensionato sia dotato di un regolamento interno, il direttore rispondeva che al Pensionato non esiste alcun regolamento e che dentro esiste la massima libertà. La falsità di tale affermazione è di facile dimostrazione, in quanto un regolamento esiste ed è esposto bene in vista in un albo. 2) Alla seconda domanda se ci sono restrizioni nei rientri notturni, la risposta è stata altrettanto falsa, in quanto il direttore ha affermato che anche in questo caso esiste la massima libertà, e che la direzione si preoccupa solo di prendere nota dell’ora di rientro per comunicarla ai genitori che ne facessero richiesta. Tutti gli ospiti sanno che dalle ore 24 alle ore una per rientrare bisogna pagare L. 50; che dalla una alle 2,30 la somma da pagare è di L. 300 e che dalle 2,30 alle 7 del mattino gli ospiti non possono più rientrare. È anche noto che l’ora del rientro viene comunicata, non solo dietro richiesta dei genitori, a tutte le famiglie delle ragazze, facendole sentire colpevoli di chissà quali cose per essere rientrate dopo le 24, mentre a Milano un qualsiasi cinema esaurisce il suo programma dopo quell’ora, e gli spettacoli teatrali terminano come minimo dopo le 0,30. 3) Alla terza domanda il direttore ha risposto parlando della palestra in cui, così ha affermato, vengono praticati tutti gli sport […]. In effetti in palestra ci sono due tavoli da ping-pong regalati dal Circolo Bocconiano e un materassino per judo, ma i ragazzi che praticano questo sport pagano il corso con soldi propri e così gli ospiti che l’anno scorso hanno tirato di scherma. Quanto alla boxe i due ragazzi apparsi sul video sono ospiti dei Pensionato prestatisi gentilmente e ingenuamente a girare la scena. La direzione non ha speso niente o quasi niente per la palestra. 4) I canti e il suono delle chitarre nella hall del Pensionato sono frutto della fantasia del regista del documentario, perché è assolutamente vietato suonare o cantare nelle halls. E non parliamo di un avviso stile riformatorio in cui si proibiva assolutamente, pena la espulsione, di uscire dalla propria camera dopo le ore 22. 5) I criteri di ammissione al pensionato sono un mistero per tutti, eccetto che per i pochi eletti che sono preposti alla accettazione delle domande. Le proteste degli ospiti per alcuni disservizi sono seppellite dal terrore di non essere ripresi l’anno seguente. Non giustifico questo atteggiamento degli ospiti, ma lo comprendo. La direzione del pensionato non vuole essere criticata né vuole accettare suggerimenti utili: “Chi non sta bene al Pensionato può anche andare via” è la frase ripetutamente gridata dalla direzione. Approfittando della maggior richiesta rispetto alla disponibilità, si impongono agli ospiti le più meschine restrizioni. Ad esempio i parenti possono visitare il congiunto solo eccezionalmente e accompagnati dal direttore del reparto; possono fermarsi a mangiare nella sala degli ospiti, ma non possono usufruire dei buoni pasti dell’ospite stesso. Questo avviene, non so per qual motivo, mentre alcuni non ospiti mangiano nella mensa del Pensionato con buoni ceduti loro dalla direzione. Infine, sempre a proposito di accettazione, molti sono gli studenti rimasti fuori dal Pensionato, ma la direzione non ha fatto difficoltà ad accettare non studenti. Umberto Dragone».

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Ibidem. «4 aprile 1959. Non so se Ella intenda pubblicare su il “Bocconiano” la lettera del Presidente del Circolo in data 12 marzo U.S.: in caso affermativo voglia provvedere affinché contemporaneamente sia pubblicata per intero la presente che in pieno accordo con la Presidenza – Le indirizzo nella mia qualità di consigliere delegato dell’Università […]. È necessario puntualizzare che di massima: Il pensionato non è un albergo; è una convivenza molto numerosa, alla quale il Consiglio di Amministrazione ha inteso e intende dare carattere familiare. È evidente peraltro che pur essendo nei propositi del Consiglio di Amministrazione di consentire agli ospiti di tale convivenza la massima libertà, questa deve singolarmente essere esercitata in maniera da non pregiudicare la libertà degli altri conviventi. Si aggiunga che il Consiglio d’Amministrazione dando ospitalità nel pensionato a 360 giovani di cui metà donne, sente di avere assunto una responsabilità quanto meno morale nei confronti delle famiglie alle quali queste giovani appartengono […]. Ferme queste direttive nessuno può in buona fede affermare che gli ospiti del pensionato usufruiscano di una libertà inferiore a quella che godrebbero in seno alle proprie famiglie. Altro punto di capitale importanza è il servizio mense per il quale è necessario ricordare che la mensa universitaria non è un ristorante, nel quale ciascuno può scegliere i cibi che più gli aggradano […]. Per necessità obbiettive facilmente comprensibili i pasti devono essere a lista unica, e poiché in una settimana i pasti distribuiti sono 14, la varietà non può essere che relativa nel corso della settimana, nulla nel ripetersi delle settimane. Evidentemente da questo stato di cose deriva quella che io chiamerei saturazione che può anche riuscire poco gradita, […]. Desidero comunque affermare nel modo più tassativo che, se la uniformità dei cibi può essere discussa, non può essere in alcun modo messa in dubbio la qualità delle vivande fornite che è sempre di primissimo ordine, non inferiore a quella di un ristorante di prima categoria […]. Ho accennato in precedenza a rilievi marginali contenuti nella lettera del presidente del circolo e non voglio sottrarmi a dare ai principali di essi adeguata risposta. 1) – Regolamento pensionato: Evidentemente un regolamento esiste, ma è ispirato a quegli ampi concetti di libertà ai quali ho accennato e che costituiscono norme comuni di convivenza di ogni raggruppamento a partire dalla famiglia. 2) – Rientro notturno: In pratica il libero rientro sino alle ore 24 costituisce una riprova di quei criteri di larghezza ai quali è ispirata la convivenza nel pensionato. Un supplemento di lire 50 per i rientri tra le ore 24 e l’una costituisce il compenso per il lavoro straordinario dei guardiani notturni ai quali viene per intero devoluto […]. Per chi rientri tra le 2 e le 3 la somma di lire 300 che viene fatta pagare ha il carattere di penalità […]. Tale carattere è insito nella eccezionalità dell’ora del rientro; che se nel corso degli 8-9 mesi di permanere dello studente al pensionato si verifica 2 o 3 volte può essere tollerata, ma non può evidentemente essere considerata come consuetudinariamente normale in quanto giovani e giovinette che per abitudine oppure con frequenza rientrino fra le ore 1 e le 2.30 della notte sono senz’altro da ritenere “ospiti indesiderabili” sia per il fatto in sé, sia per il disturbo che recano ai loro colleghi vicini di camera o di piano. Per le stesse ragioni non è consentito il rientro dopo le 2,30, salvo speciale autorizzazione rilasciata dalla direzione su motivata richiesta dell’interessato. 3) – La comunicazione alle famiglie dei ritardi nel rientro al pensionato costituisce per la direzione un preciso dovere in rapporto a quella responsabilità morale cui ho in precedente accennato: è necessario che i genitori siano informati del comportamento dei propri figlioli perché ad essi spetta l’obbligo di provvedere ogni qual volta tale comportamento meriti di essere ripreso. 4) – Palestra. La palestra è un beneficio accessorio che il pensionato offre ai suoi ospiti, beneficio che essi non troverebbero in nessun albergo o in nessuna pensione privata […]. 5) – I canti ed i suoni delle chitarre sono proibiti nella hall perché il pensionato non è una osteria e perché di fronte agli uno o due allievi che si godrebbero il suono della chitarra ve ne sarebbero almeno 89 ai quali il suono stesso riuscirebbe fastidioso e sgradito […]. 6) – È assolutamente falso che sia impedito ad alcuno uscire dalla propria camera dopo le ore 22. Si richiede che dopo le ore 22 nelle camere non si facciano riunioni di due o più persone e nei corridoi capannelli, e ciò soprattutto per la tranquillità degli altri che intendono dormire o studiare. 7) Ammissione al pensionato: Premesso che la spesa di impianto del pensionato e gli oneri del suo esercizio sono a completo carico dell’Università, il Consiglio di Amministrazione rivendica a sé il diritto di fissare attraverso la presidenza, i criteri di massima per l’ammissione al pensionato stesso. Aggiungo che in via pratica la presidenza si avvale nell’esercizio di questo suo diritto della valida collaborazione del sig. Rettore, del direttore amministrativo e della direzione del pensionato: confermo senza alcun imbarazzo che uno dei criteri di massima per l’accettazione delle domande è il comportamento e il senso di responsabilità di coloro i quali furono in precedenza ospiti del pensionato. È del tutto tendenziosa l’osservazione riguardante i non studenti: su 357 ospiti dell’anno in corso solo quattro non appartengono alla categoria degli studenti, ma sono assistenti della Bocconi e di essi tre laureati della Bocconi stessa. 8) – È ridicolo parlare di controllo alle visite dei parenti: una certa sorveglianza deve comunque essere fatta per parentele… un po’ troppo lontane. È assurdo pretendere che le condizioni di favore per i pasti degli ospiti siano estese anche ai parenti, ai quali peraltro è data ospitalità con servizio speciale nella sala dei Professori facendo pagare le consumazioni al prezzo del self service. Chiudo questo mio intervento esprimendo l’augurio che un maggior senso di responsabilità dei dirigenti del circolo eviti atteggiamenti che sono in contrasto con la realtà dei fatti e che con scarso senso di comprensione sembrano voler ingiustificatamente denigrare una iniziativa la quale nel campo universitario ha raccolto – e non solo in Italia – larga messe di ammirazione per il coraggioso spirito di iniziativa di chi l’ha promossa e tanto felicemente realizzata».

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Viste col senno di poi le questioni erano, tutto sommato, marginali. I motivi del contendere riguardavano la richiesta di Demaria di una maggiore autonomia del C.d.F. e una diversa ripartizione delle propine d’esame. Sul tema cfr. infra A. De Maddalena, passim.

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Molti dei contributi in questione furono pubblicati in cinque volumi editi tra il 1953 e il 1958: G. Demaria (ed.), Materiali per una logica del movimento economico; Idem, Gli entelechiani; Idem, Le basi storiche della induzione economica; Idem, I propagatori; Idem, Le teorie dello sviluppo economico dai classici a oggi.

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Il giudizio dei rappresentanti degli studenti nei confronti delle ricerche condotte dai «gruppi di lavoro» era molto severo. Sulle stesse Attilio Loro e Luciano Luisi, presidente e vicepresidente del Circolo Bocconiano, scrivevano a Italo Munari (e per conoscenza al Rettore) (ASUB. Busta 103/4. Milano 19 novembre 1959): «[…] fonte di notevoli guai per coloro che debbono sostenere l’esame d’economia sono i cosiddetti “gruppi di lavoro”. Come studenti non ci sentiamo di giudicare l’utilità e il valore scientifico di queste inchieste: ci auguriamo solo che il consiglio di facoltà esprima il suo qualificato giudizio. Noi possiamo solo far presente che questi lavori, per la massa degli studenti, non hanno valore didattico; inoltre siamo spiacenti di dover denunciare la scarsa serietà con la quale tali inchieste sono condotte: spesso gli studenti sono costretti ad “inventare” con l’aiuto della fantasia dati irreperibili per l’inesistenza assoluta di fonte alcuna atta a fornirli. Esempio: il numero dei morti sudisti nella guerra di secessione americana. Spesso inoltre per giungere alle conclusioni volute dal professore si falsificano i dati ufficiali. Per effettuare queste “ricerche” gli studenti sono anche costretti a viaggi non di diporto verso lontani lidi dove, anziché il “vello d’oro” dovrebbero trovare questi famosi dati […]. Ci auguriamo che queste nostre considerazioni possano chiarire la situazione e che le autorità accademiche prendano finalmente una chiara posizione in merito a “entelechiani” e affini».

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I gruppi di lavoro del prof. Demaria come visti da noi studenti, in «Il Bocconiano», settembre-ottobre 1958.

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Sullo stesso numero de «Il Bocconiano» compariva anche un intervento dal titolo I gruppi di lavoro che dava giudizi alquanto differenti dai precedenti. Il contributo è importante perché chiarisce, a chi non ebbe la ventura di sostenere quell’esame di Economia, in cosa consistessero i «gruppi di lavoro» e quale fosse il loro compito: «Incombente come la matricola, è l’iscrizione ai gruppi di lavoro per il corso di economia (I e II anno) […]. Il termine incombente non è scelto a caso, a denotare uno stato d’animo. Difatti, per taluni, il gruppo di lavoro consisterebbe in un pedaggio, al metro della loro indolenza, in debito, pagato all’esame di economia. Gli argomenti più disparati serpeggiano, specialmente fra coloro che non sanno tenere il passo col calendario d’esame, relativamente a questi gruppi: che essi rappresentano un onere di studio eccessivo, che i dati domandati sono di difficile reperibilità; che al primo e al secondo corso non si è ancora abbastanza preparati per condurre con giudizio la ricerca assegnata, che, insomma, bisognerebbe abolirli […]. Il gruppo di lavoro consiste di 4 persone che, nel primo e nel secondo corso d’economia, conducono una inchiesta di ordine bibliografico-storico e quantitativo-teorico, relativa ad un dato paese ed ad un dato periodo. La assegnazione del tema di ricerca è fatta sempre dal professore titolare, previo riconoscimento del curriculo di preparazione del gruppo; i risultati sono presentati collegialmente, e per il gruppo riferisce un relatore. Approvata, la ricerca viene presentata in forma scritta secondo elaboratissime circolari di istruzione e costituisce la conditio sine qua non per sostenere l’esame. Tutti i temi di ricerca sono schedati. Tutte le discussioni in seminario vengono registrate nella scheda e verbalizzate in appositi registri. Oramai le schede raggiungono il migliaio. Scegliamo a caso una scheda, essa contiene l’indicazione di almeno 4 incontri con il professore. Ma spesso questi incontri segnati in scheda sono anche una dozzina. Ciò ha richiesto la collaborazione di un gruppetto di segretari generali, tutti studenti, che a volte hanno già superato l’esame di Economia. La bellezza del lavoro, la scrupolosa attività della organizzazione hanno consentito che questa collaborazione si protraesse oltre gli stessi limiti dell’impegno d’esami. Ciò fa onore alle nuove generazioni di studenti. Prima che si instaurasse la consuetudine dei gruppi di lavoro lo studente doveva portare due monografie scritte: una pratica e una teorica. Il tributo, rettamente inteso, era allora doppio di quello richiesto ai gruppi. Vi era, è vero, la possibilità di prezzolare uno dei tanti compilatori di tesi e tesine; vi era anche la possibilità di copiare. Ma era un rischio non sempre calcolato. Perché spesso la monografia anziché recare il voto portava un’annotazione di rinvio alla fonte da cui era stata plagiata. Il difetto maggiore di queste monografie era che avevano fine in se stesse. Non potevano essere indirizzate verso un fine scientifico comune, di autentica ricerca del nuovo, come si tende a fare con le esercitazioni di laboratorio nelle facoltà di scienze. I gruppi di lavoro dell’istituto di Economia sono invece apertamente rivolti a questo scopo […]. Coi gruppi di lavoro il titolare intende una esplorazione, coordinata secondo criteri economicistici, sul movimento economico, che è il tema scientifico maggiore della nostra epoca. Nei primi anni di queste indagini, gli studenti furono impegnati sulla sponda negativa dello sviluppo, a cercare evidenza alle economie in involuzione. I nomi di alcuni ricercatori sono indicati nei Materiali per una logica del movimento economico. Successivamente l’esplorazione ha proceduto in maniera più generale; investendo momenti e luoghi sia in sviluppo che in inviluppo. E la cosa continua con una ampiezza di orizzonti che è nota persino all’estero».

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Ma c’è anche chi ricorda con grande nostalgia quell’esperienza e la giudica estremamente positiva per la formazione di un giovane economista: «Ancor oggi accade a distinti signori di svegliarsi nelle notti di Milano con l’incubo gli entelechiani, gli entelechiani […]. Quale precondizione per presentarsi agli esami occorreva dunque una “monografia”, cioè un lavoro di ricerca personale e originale. E naturali correvano le voci secondo cui ti sarebbe toccato reperire i dati del propagatore monetario della Corea del 1200, del propagatore psicologico dell’America pellerossa, e così via, e che il Demaria avrebbe invariabilmente presentato a qualche congresso, con il che inventandoli saremmo riusciti a fregarlo, così imparava a farci fare le monografie! Ma se scoprimmo che tutto questo era falso, e che le monografie erano decentemente accomodabili senza gravi inganni bilaterali, ad alcuni accadde invece di dover partecipare a un più importante “gruppo di lavoro”, non certo per merito nostro, ma perché, entrati spaesati come quasi-matricole dall’assistente addetto – ci sentimmo apostrofare sull’uscio – Marzio, Carlo e io –: “Siete in tre? Allora sarete un gruppo di lavoro! Scegliete: Stati Uniti, Svizzera o Inghilterra?” Un angelo evidentemente suggerì la risposta, intuitiva, prima che titubante e sommessa, “Inghilterra”, nell’ignoranza totale sul da farsi: la Svizzera era troppo piccola, gli Stati Uniti allora troppo lontani, e c’era il rischio che ti ci mandasse. Cercammo per mesi i prezzi dell’Inghilterra […], le cui serie trovammo poi all’improvviso per combinazione, grazie a Lina, che avevamo implorato di aggiungersi perché era anche attraente e che era giunta dicendo le ultime parole famose, “troviamo questi sessanta numeri perché più tardi ho un impegno”. Li trovammo – ignari e ancora increduli – nel “Journal of the Royal Statistical Society”, fonte dell’affidabilità grazie a Dio irrefragabile. E fu così che potemmo procedere […]. E qui pure eravamo gli spettatori, anzi partecipi ignari di un traguardo speculativo collettivizzato […]. Erano i prezzi la riprova – ed il banco di prova – dell’esogeneità interpretata come incrocio dei propagatori più o meno naturali e dell’interazione del loro reticolo con gli entelechiani […]. Ripensato a mente fredda tutto questo spiega la diffusa insofferenza per Demaria, in particolare da parte dei colleghi invidiosi o presuntuosi, degli studenti il cui obbiettivo era di superare in qualche modo l’esame, dei dipendenti lavativi […]. Se i tuoi obiettivi erano non la violenza o Saint Moritz, e se accettavi di metterti in gioco, era in quelle riunioni semplici e solenni che, quasi inavvertitamente, apprendevi il metodo scientifico […]. Sembravano – non c’è esagerazione – le riunioni degli Stati Maggiori, con i presidenti dei gruppi che spiegavano le realizzazioni e i risultati parziali raggiunti, e insieme spiegavano sui tavoli i grafici grandi come carte militari, e Demaria – generoso del suo tempo e del suo sapere – seguiva le dinamiche dei prezzi sui grafici vedendo ciò che noi non potevamo vedere, il dispiegarsi dell’azione degli entelechiani sul reticolo dei propagatori, gli effetti degli impulsori esogeni sull’economia dinamica. I presidenti erano coadiuvati dai compagni perché il lavoro era ingente e mancava sempre qualcosa. Demaria attento, penetrante, accigliato istruiva e commentava con gli assistenti: sempre sereno e preciso era però raramente contento, poche volte soddisfatto. Il lavoro era assai interessante ma al fondo coatto anche se te lo riconoscevano all’esame, oneroso soprattutto di tempo […]: forse per questo alla pagina dei Materiali dove aveva scritto: “Mi sono avvalso per queste ricerche dell’entusiastica collaborazione di decine di studenti bocconiani”, nella copia di consultazione una mano anonima aveva avuto cura di annotare con sottolineata precisione a margine di “entusiastica”: bugiardo!!! In compenso potevi apprendere, oltre al metodo, ciò che nessun libro ti avrebbe mai insegnato, neppure i suoi, giacché alternava commenti e memorie, suggerimenti e impressioni…». A. Canziani, Il professor Demaria nel ricordi di un allievo, in AA.VV., Giovanni Demaria, cit., pp. 96 e ss.

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Cfr. M.A. Romani, Bocconi über alles, cit., p. 226.

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Cfr. ADA. Busta A. Ordine del giorno approvato dal «Congresso dell’Ateneo Bocconiano». Milano 22 marzo 1956, cito in una lettera di Roberto Sbarbero ad Armando Sapori. Milano 4 aprile 1956.

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Ibidem.

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ADA. Busta A. Furio Cicogna ad Armando Sapori. Milano 23 marzo 1956. La lettera in questione era così concepita: «Al Magnifico Rettore. Al Consiglio d’Amministrazione dell’Università Bocconi. Noi qui sottoscritti professori della sezione lingue e letterature straniere – un professore di ruolo della Bocconi, gli altri tutti incaricati – ci siamo recentemente riuniti e concordemente abbiamo deciso, con la parte più seria e matura della studentesca bocconiana e in particolare i rappresentanti della Associazione goliardica milanese di sottoporre alla suprema autorità accademica della Bocconi, e al Consiglio che governa finanziariamente detta Università, le nostre seguenti richieste (si tratta di riforme attuabili senza portare alcuna modifica allo Statura attuale della Bocconi […]): 1) chiediamo anzitutto, analogamente a quanto ha fatto Venezia, sul cui esempio e modello è sorta la nostra, la trasformazione della Sezione in Facoltà; ciò comporta, come immediata conseguenza, la costituzione di un Consiglio di Facoltà che funzioni, e di un Preside di Facoltà che eserciti l’ufficio di dirigere e coordinare l’attività didattica in seno alla facoltà stessa, ciò di cui docenti e studenti sentono profondamente la mancanza. 2) In conseguenza della precedente richiesta, chiediamo che siano poste in ruolo, per la facoltà di lingue straniere, almeno tre cattedre […]. 3) Subordinatamente chiediamo che si addivenga alla nomina di assistenti straordinari (nominati cioè dalla Facoltà con concorso interno fatto in loco) ed assistenti di ruolo; soltanto così si potrà ottenere che gli studenti, specialmente quelli del Magistero più frequentato, e proporzionalmente più sprovvisto del personale necessario, per funzionare a dovere, e cioè del Magistero inglese, ricevano dall’Università quelle cure a cui hanno pienamente diritto […]. Altre richieste, sempre nell’ambito dello Statuto vigente, ci riserviamo di far presenti dopo ottenuta la istituzione della Facoltà: in primo luogo, lo accenniamo fin d’ora, la sostituzione della versione dal latino alla “versione in latino”, ciò che è pienamente possibile, dato che lo Statuto parla di versione latina senza meglio specificare […]».

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Il presidente del Circolo Bocconiano così riassumeva le preoccupazioni e le aspettative degli studenti: «Tali problemi esistono e sono gravi: vanno risolti nel migliore dei modi e celermente. Si tenga conto di tutto il materiale poco utile, o superfluo che dir sì voglia, che secondo i programmi attualmente in vigore lo studente deve portare all’esame. Unico motivo: il personale desiderio di un assistente di pubblicare una dispensa su qualunque secondario autore. Si facciano dei programmi completi: dalle basi più elementari (corsi di lingua, parte grammaticale e fonetica) al quadro generale letterario che non è e non deve consistere in alcuni approfonditi autori secondari, a discapito dei massimi. Facendo questo non si dimentichi che è inutile “mettere troppa carne al fuoco per mangiarla malcucinata”. Gli anni sono quattro non sei» (Roberto Sbarbaro ad Armando Sapori, cit.).

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ASUB. Busta R5. 21 settembre 1959. Pro-memoria concernente la laurea in Lingue e Letterature straniere, a firma Furio Cicogna.

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ASUB. Busta R5, 29 settembre 1959. Riservata. Proposta per il conferimento degli incarichi di insegnamento nella Università Bocconi.

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ASUB. Segreteria di direzione. Corrispondenza varia Rettori 1960. Discorso inaugurale dell’anno accademico 1959-60 pronunciato dal Rettore on. Prof. Armando Sapori. La direzione dell’Istituto di Inglese venne affidata ad Aurelio Zanco, l’Istituto di Francese a Bruno Revel, quello di Tedesco a Gian Vittorio Amoretti e quello di Spagnolo a Juana Granados. Ogni direttore venne affiancato da uno o più «assistenti segretari» che, a tempo pieno, avrebbero dovuto essere a disposizione degli studenti per affrontare questioni, chiarire dubbi, offrire consulenza e assistenza.

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Ferdinando di Fenizio a Furio Cicogna (ASUB. Perso Di Fenizio). «Milano 20 luglio 1959 (assolutamente riservata). Caro Presidente, sabato scorso è dunque giunto a Milano il Dr. Miconi, referendario della Corte dei conti e direttore generale dello I.S.C.O. E mi ha detto sostanzialmente quello che mi aveva già chiarito Medici, tuttavia con maggiori particolari. In sostanza si tratta di questo: Medici desidera ancorare il piano della scuola a certi calcoli economici-demografici. Ha deciso di farli effettuare dall’I.S.C.O. (uno dei pochi enti che lavori, dice lui). Per finanziare questo calcolo ha messo a disposizione venti milioni. Non potendoli dare direttamente all’I.S.C.O. fu alla ricerca di un’Università. I suoi funzionari optavano per Roma. Miconi si schierò decisamente in favore della Bocconi per il prestigio scientifico di cui gode il nostro ateneo e fors’anche (come ha detto) per i lavori già compiuti dal sottoscritto nel campo congiunturale. Medici si augura che la Bocconi sia contenta ed il sottoscritto pure. Ho risposto a Miconi, prima di tutto ringraziandolo, poi chiarendo che si desiderava: 1) Che questo trasferimento non danneggiasse le richieste della Bocconi per le sue attrezzature; richieste in corso. 2) Che l’I.S.C.O. aiutasse lo sviluppo dell’Istituto di politica economica concedendo attrezzature e borse ai nostri giovani laureandi e laureati, che volessero effettuare studi congiunturali. 3) Che la Bocconi fosse citata accanto all’I.S.C.O. nell’attività svolta nell’interesse pubblico. Miconi mi ha assicurato che non vi è alcuna ragione per non accogliere queste richieste. Ne avrebbe comunque parlato a Medici e dovrebbe riscrivere confermando gli impegni. Dopo il colloquio con me, ho condotto Miconi dal Dr. Baccarini, dove il colloquio si è svolto più o meno sulla stessa falsariga. Baccarini ha avuto tutti i modi di illustrare a grandi linee le future richieste di finanziamento della Bocconi, sul fondo di sei miliardi, e Miconi ne ha preso coscienziosamente nota. A Baccarini ha detto che l’I.S.C.O. sarebbe molto lieto di avere una specie di tutela scientifica universitaria e lieto sarebbe di trovarla nella Bocconi; a protezione fra l’altro delle pressioni dell’Università di Roma. La cosa mi ha fatto molto piacere anche perché l’I.S.C.O. è in pieno sviluppo. Il Senato ha già approvato il disegno di legge che concede duecento milioni di arretrati e cento milioni all’anno, la qualifica di ente di diritto pubblico, l’alto patronato del Ministero del Bilancio. Campilli gli ha poi dato 15 milioni per un ufficio studi sulla struttura. Cosicché si può proprio dire che il nostro piccolo ente nuoti nell’abbondanza monetaria, beato lui! Sarò molto lieto di darti altri particolari a voce. Approfitto dell’occasione per inviarti i più cari auguri di ottime vacanze».

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Una richiesta in tal senso venne messa all’ordine del giorno del C.d.P. del 4 giugno 1962, ottenendo l’approvazione di massima dello stesso. L’approvazione definitiva all’intitolazione dell’Istituto di Politica economica ad Attilio Cabiati fu decisa dal C.d.P. nella seduta del 26 ottobre 1964. La cosa non ebbe poi alcun seguito, probabilmente a causa del passaggio di di Fenizio alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Statale avvenuto alla fine di quell’anno.

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Di Fenizio a Sapori (ASUB. Cartella personale di Fenizio): «Milano 2812/1959. Magnifico Rettore, […] Come ebbi modo di dirti a voce, non appena l’Istituto di Politica Economica avrà una base spaziale, è mia intenzione costituire nell’ambito dello stesso un “gruppo di lavoro” per lo studio dei problemi congiunturali, oggi in gran voga. Ho già gli studiosi ed anche i mezzi finanziari, modesti ma indispensabili. Essi mi saranno dati dall’Istituto Nazionale per lo Studio della Congiuntura, un ente pubblico del quale come sai sono Vice-Presidente. Se questo progetto ti sembra realizzabile (e mi pare possa inquadrarsi nei fini della nostra Università) si potrebbe invitare ad inaugurare il gruppo il Presidente dell’Istituto, l’Eccellenza Ferrari Aggradi, ottimo amico. Anche con lui vi fu qualche colloquio preliminare nei giorni scorsi a Roma e ritengo che egli, se invitato da chi lo può, accetterà di buon grado. Il fatto che sia oggi Ministro alle Partecipazioni, può dare anche all’invito ed alla conferenza un rilievo particolare. Affido dunque con animo lieto alle tue cure queste iniziative. Aiutale, ti prego, con i tuoi consigli e con le tue decisioni, e credimi, con viva amicizia, per il tuo Ferdinando di Fenizio». E, ancora, qualche mese dopo (15 maggio): «Magnifico Rettore, […] alla cattedra di Politica economica e finanziaria si hanno oggi due assistenti il dr. Casari ed il dr. Arcelli. Uno qualunque di loro potrà forse occasionalmente essere impegnato. D’altro canto, si dovrà pur tener conto del fatto che il dr. Casari ha conseguito nei mesi scorsi la libera docenza e quindi senza dubbio converrà perda fra poco la qualifica di assistente volontario e sia assegnato ad un insegnamento ufficiale. In considerazione di ciò Ti sarei grato se, sin d’ora, volessi provvedere a far nominare assistente volontario alla Cattedra da me ricoperta il dr. Alberto Sdralevich. Il dr. Sdralevich nato a Milano il 7.12.195, allievo del Collegio Ghislieri di Pavia ha conseguito la Laurea nel 1957 presentando una dissertazione dal titolo: “Lo schema Vanoni ha dominato lo sviluppo economico italiano nell’ultimo biennio?”, che dalla Commissione fu approvata con pieni voti assoluti e lode. Dopo di allora ha continuato a studiare problemi economici sotto la mia guida ed è in grado pienamente di esercitare la funzione di commissario d’esame […]».

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«Caro Presidente, […] Come sai, ho l’abitudine d’intrattenermi con loro (gli studenti] un’oretta dopo la lezione; in qualche caso suggerisco loro (soprattutto per quelli che fanno la tesi di laurea con me) di venirmi a trovare a casa. Si parla del più e del meno ed ho modo di accertare la loro esperienza nei primi anni: giudizi utilissimi per risolvere molti nostri problemi. Ecco alcune conclusioni di questa piccola inchiesta, espresse in termini molto generali. I primi due anni sono molto carichi di materie ed i giovani si trovano alquanto impreparati ad assorbire discipline che a loro sembrano disparate. Soprattutto non sanno come studiarle. Abituati anzi ai metodi di studio della scuola media, sembra loro impossibile venirne a capo. L’esperienza mostra che così non è, e che gli esami universitari vanno affrontati in modo alquanto diverso. È poi opportuna una certa distribuzione degli esami nei primi due anni (ad esempio il preporre l’esame di matematica generale a quello di statistica metodologica) anche se i due corsi sono effettuati contemporaneamente. Queste in breve le loro sensazioni. Ora, partendo dalle stesse, mi sembra che sarebbe opportuno, a partire dal prossimo anno, organizzare nel novembre o dicembre, magari presso il Circolo bocconiano, due tipi di riunioni. Il primo tipo di riunione dovrebbe facilitare i colloqui fra studenti anziani e matricole in modo che i primi possano dare un poco della loro esperienza ai giovani, evitando il tramortimento iniziale. Il secondo tipo di riunione poi potrebbe essere fatto mettendo in contatto professori e matricole. I professori non dovrebbero parlare della loro materia, ma dovrebbero discorrere della posizione della loro materia nel piano dello studio e dare ai giovani qualche suggerimento per superare i primi scogli. Non occorrerebbe neppure che tutti i professori vi partecipassero; ma credo per esempio che Frumento, o Brambilla, o Mignoli, se pregati di questi colloqui confidenziali, lo farebbero. Anche il sottoscritto, non occorre dire, è a disposizione di questa iniziativa, se si concreterà. Che ne dici. Non ti annoiare a rispondere per iscritto, poiché c’è tempo, ne potremo parlare caso mai in occasione di quel certo invito che, molto cortesemente, hai voluto accettare». Ferdinando di Fenizio a Furio Cicogna. Milano 28 marzo 1959.

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ASUB. Busta R5. Pro memoria per il Signor Presidente della libera Università commerciale L. Bocconi (s.d. ma a.a. 1958-59).

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«Moltissimi dei quali risultano incompleti delle firme dei commissari (ad esempio i verbali di laurea portano, già predisposta a stampa, la votazione in 110, ciò che presuppone la presenza di 11 commissari, mentre la maggioranza dei verbali sono firmati da non più di 7 e talora 6 e anche 5 commissari e così dicasi per i verbali degli esami speciali, moltissimi dei quali sono firmati da due commissari anziché da tre. A mio avviso tali irregolarità potrebbero avere conseguenze anche notevoli […] e non nascondo la mia perplessità sulla validità degli esami nel deprecabile caso di qualche azione impugnativa da parte degli interessati».

32

Ibidem.

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