Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

Fra liberalismo ed economia mista


Parole chiave: Rapporti istituzionali

Nel prefigurare gli scenari che avrebbero contraddistinto le scelte politiche e amministrative in fatto d’economia dell’inesperto ceto politico della nuova Italia liberata, i partiti non riuscirono a sfuggire a un generalizzato processo di regressione ideologica. In un opuscolo pubblicato a Milano nel ’45, i repubblicani affermavano: «La grande meta resta la gestione diretta dell’azienda da parte dei lavoratori associati […] con la sostituzione al salariato del libero produttore […]: le ferrovie in gestione ai ferrovieri […] le miniere ai minatori»[1]. E precisavano: sarà lo Stato a fornire il capitale al produttore nella forma di un «fondo nazionale costituito con mezzi provenienti dalla smobilitazione dell’IRI»[2]. L’idea utopistica del «graduale assorbimento del capitale azionario (nel capitale dei lavoratori) fin alla sua completa estinzione»[3] rimandava, senza mediazioni, al pensiero di Giuseppe Mazzini.

I primi documenti programmatici democratico-cristiani proponevano qualcosa di molto simile. Alle idee fondanti di Toniolo e Sturzo si era aggiunta la dottrina sociale della Chiesa enunciata con le lettere encicliche dei papi Pio XI e Pio XII. La ripristinata democrazia politica avrebbe assolto al compito di difendere il cittadino dall’invadenza dello Stato; la democrazia economica avrebbe dovuto garantire lo spazio vitale del produttore rispetto al proprietario. Secondo siffatti princìpi, il potere politico andava suddiviso fra le autonome amministrazioni comunali, provinciali e regionali e, nella sfera economica, il latifondo andava spezzettato e il capitale azionario sminuzzato, secondo il criterio della partecipazione operaia alla gestione dell’impresa[4].

Nel programma del partito, Alcide De Gasperi affermava: «La giustizia vuole l’eliminazione delle eccessive concentrazioni di ricchezza, l’eliminazione del feudalesimo finanziario, industriale, agricolo, che ostacolano la piccola proprietà»[5]. L’Italia rurale dei contadini diretti coltivatori e dei mezzadri, assieme a quella urbana degli artigiani che esercitavano i tradizionali mestieri, riemergeva con i suoi valori etico-morali imperniati sul rispetto della persona, sulla promozione delle capacità individuali, sull’esigenza di giustizia sociale e di egualitarismo nel mondo della produzione.

Analogamente, sotto la sicura guida di Palmiro Togliatti, i comunisti «proprio a partire dal 1945 [aprirono] una nuova e durevole fase di fiducia nell’unilinearità dello sviluppo economico e del progresso sociale»[6]. «[L]a libertà e la pace riconquistata e l’estensione al campo civile dell’enorme sviluppo tecnologico sembravano aprirci orizzonti illimitati», ha testimoniato Vittorio Foa[7]. «La lotta», scriveva Togliatti su «l’Unità», alla fine di agosto del ’45 «si impegna […] non contro il capitalismo in generale, ma contro forme particolari di rapina, di speculazione e di corruzione, senza ledere l’iniziativa privata»[8]. Pertanto, «anche le lotte operaie che accompagnarono gli anni della ricostruzione erano animate dalla convinzione […] che lo sviluppo delle forze produttive conteneva in sé il progresso della civiltà e del benessere comune e costituiva la premessa per la trasformazione dei rapporti di produzione, cioè per il passaggio dal capitalismo al socialismo»[9].

La dura realtà economica e sociale e l’esigenza di prendere misure adeguate in modo da superare le tre emergenze dominanti all’inizio d’autunno del 1945 e cioè: troppa moneta (inflazione); carente offerta di beni di consumo primari (carestia); ridotto potere d’acquisto dei salari per l’effetto combinato dell’inflazione e della penuria di beni alimentari di base (impoverimento), indussero il governo Parri a sorvegliare le retribuzioni e a bloccare i prezzi dei beni di prima necessità. Insomma, non v’era alternativa al razionamento delle scorte alimentari e alla determinazione di prezzi politici.

Tra il gennaio del ’46 e la fine di giugno del ’47, come numerosi altri Paesi d’Europa, anche il nostro si avvalse degli aiuti dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), un’istituzione voluta dalle Nazioni Unite, decisa nella conferenza di Bretton Woods nel ’43, che aveva lo scopo di organizzare la distribuzione del primo pacchetto di aiuti a favore dei Paesi devastati dalla guerra[10]. Nel 1946, la fornitura di beni alimentari e di materie prime da parte dell’UNRRA coprì un po’ meno della metà delle importazioni giudicate indispensabili per l’Italia. Il nostro Paese era infatti nella scomoda condizione di dover preferire l’approvvigionamento di derrate alimentari per la popolazione sottoalimentata ai rifornimenti di materie prime industriali (lana e cotone, soprattutto) e di carbone; rifornimenti che avrebbero permesso di ripristinare almeno in parte l’operatività delle industrie manifatturiere e di avviare prodotti finiti all’esportazione, con benefici effetti sulla bilancia dei pagamenti e sul valore della lira.

Per il settore tessile, la scomparsa di alcuni grandi produttori, come la Germania, e la piena occupazione di altri, come l’Inghilterra, misero le industrie del Nord Italia nella fortunata condizione di sfruttare una congiuntura singolarmente favorevole[11]. Lo sblocco dei prezzi delle materie prime, deciso da Washington, causò rincari sui prezzi dei prodotti finiti italiani e accrebbe la domanda di liquidità presso le banche. Ne derivò un’inflazione galoppante alimentata anche dalla liberalizzazione della concorrenza bancaria[12].

I governi di unità nazionale susseguitisi dal’45 alla primavera del ’47 affrontarono le numerose e urgenti questioni economiche secondo approcci esplicitamente liberisti. Fra gli altri, a esercitare influenze più o meno decise sulle misure governative furono alcuni prestigiosi economisti accademici, ben noti in Italia e all’estero, strettamente collegati al mondo bocconiano, come Luigi Einaudi (prima governatore della Banca d’Italia, poi ministro del Bilancio e, infine, primo presidente della Repubblica), come Gustavo Del Vecchio (ministro del Tesoro nel biennio 1947-48, che aveva insegnato in Bocconi Politica economica dal 1931 al ’38[13], quando i decreti «per la difesa della razza nella scuola» lo avevano estromesso dalle università italiane)[14] e, infine, come l’allora Rettore Giovanni Demaria (allievo di Del Vecchio)[15], che presiedette la Commissione economica dell’Assemblea costituente[16].

La disastrosa esperienza politica da poco chiusasi induceva a stabilire un nesso fra interventismo statale nell’economia e totalitarismo, sicché non solo la borghesia industriale e commerciale, ma anche gli azionisti liberaldemocratici e persino comunisti, socialisti e sindacalisti, almeno fino alla stabilizzazione monetaria avviata dalla primavera del 1947[17], pur con sensibili diversità di sfumature, condivisero un’attitudine favorevole nei confronti del liberismo.

Le grandi vittime di un’affrettata politica economica permissiva furono ovviamente la moneta e il credito. La rinuncia ai controlli sul livello degli impieghi da parte delle banche e l’immissione in circolazione di liquidità non fecero che accelerare la spirale inflazionistica. Il 23 aprile del ’47, quegli stessi «che per anni avevano individuato le cause dell’inflazione nella spesa pubblica e avevano lasciato libero il sistema bancario di espandere il credito al settore privato, dovevano poi smentirsi clamorosamente quando, volendo combattere l’inflazione davvero, presero come primo provvedimento proprio quello di attuare una stretta creditizia» feroce[18].

Lo stesso Demaria, comunemente considerato un campione del liberismo accademico italiano, non nutriva preclusioni di principio nei confronti dell’intervento pubblico. Egli, anzi, escludeva ogni contrapposizione netta fra azione pubblica e iniziativa privata. Insomma: «Egli vede[va] la possibilità, se non addirittura la necessità, che le due forme di agire economico collaborassero al raggiungimento di fini comuni collettivamente concordati. Se la pianificazione integrale presenta[va] le sue palesi insufficienze, anche il mercato lasciato a se stesso non raggiunge[va] gli obiettivi di efficienza che tanti ciecamente gli attribuiscono»[19].

Fra il luglio e il novembre del ’47, la difficile situazione monetaria fu rimessa sotto controllo da una sequela di misure prese da Luigi Einaudi, chiamato alla vicepresidenza del Consiglio e al dicastero del Bilancio. Egli abolì i prezzi politici; aumentò le imposte sui capitali, sui redditi e sui consumi; accrebbe le riserve obbligatorie delle banche diminuendone l’offerta di credito e controllò la dimensione della massa monetaria inasprendo il tasso ufficiale di sconto[20]. Alla fine del 1947 per comprare un dollaro servivano 589 lire, due volte e mezzo rispetto alle 225 della primavera di quel difficile anno[21].

A garantire che la durissima manovra sulla moneta e sui prezzi non bloccasse il sistema produttivo intervenne il piano ERP (European Recovery Program) statunitense, meglio noto come Piano Marshall, del quale il nostro Paese avrebbe beneficiato dal ’48 al ’52. Della predisposizione del piano a lungo termine di parte governativa si occupò Pasquale Saraceno, che dirigeva il piccolo Centro studi dell’IRI[22]. La fornitura gratuita di macchinari e di materie prime e la concessione di prestiti a tassi agevolati per l’acquisto d’impianti permisero di ammodernare le strutture industriali, così da accrescere la produttività del sistema e la sua competitività sui mercati esteri.

Mentre procedeva l’adozione della manovra classicamente liberista einaudiana, in settembre il governo prese una prima misura non liberista istituendo il Fondo Industrie Meccaniche (FIM), voluto al fine di smantellare quelle imprese produttrici di beni che il trattato di pace vietava di fabbricare e volto a finanziare la ristrutturazione delle imprese metalmeccaniche in difficoltà[23], con positivi effetti sia sull’occupazione[24], sia sul volume di prodotti esportabili. Nel febbraio dell’anno seguente (1948), con la riforma dello statuto dell’IRI il governo pose termine a ogni discussione attorno ai destini della holding pubblica e ne promosse l’impostazione di una programmazione settoriale[25].

La politica economica liberista aveva battuto l’ultimo colpo chiaro e forte con la riuscita manovra sulla moneta del ’47. Dal ’48 in avanti, i governi degasperiani inaugurarono una stagione di interventi straordinari che facevano dello Stato il perno della ricostruzione, fino ad adottare, più tardi, l’economia mista secondo la dottrina keynesiana. Nel settembre del ’48 fu istituita la Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina nel Mezzogiorno, che nell’aprile del ’49 fu estesa a tutto il Paese. Nel marzo del 1950, a ricostruzione ormai completata, fu fondata la Cassa per il Mezzogiorno sulla base di un progetto elaborato da un piccolo gruppo di personalità legate all’IRI[26], con lo scopo di ridurre il divario economico fra le regioni meridionali e quelle del Nord.


1

Per l’Italia di domani: fatti; idee, programmi del PRI, Milano 1945, p. 8, citato da P. Roggi, Scelte politiche e teorie economiche in Italia nel quarantennio repubblicano, Torino 1987, p. 17.

2

Atti del 18° Congresso nazionale del PRI, Roma 1946, p. 83, citato da P. Roggi, op. cit., p. 18.

3

P. Roggi, op. cit., p 18.

4

Ibidem, p. 19.

5

Citato da P. Roggi, op. cit., p. 20.

6

V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino 1991, p. 70.

7

Ibidem.

8

«l’Unità», 25 agosto 1945.

9

Ibidem.

10

F. Fauri, L’Italia e l’integrazione economica europea, Bologna 2001, p. 26.

11

M. De Cecco, La BNL dalla Ricostruzione al Miracolo economico, in La BNL dal dopoguerra agli anni sessanta 1946-1963, Atti e Documenti, IV, Firenze 2002, p. 14.

12

Ibidem.

13

Ne era stato anche Rettore, dal 1934 al 1938, cfr. A. De Maddalena, L’aula e l’ufficio. Il consiglio direttivo dell’Università Bocconi al lavoro (1915-1945), in M. Cattini, E. Decleva, A. De Maddalena, M.A. Romani, Storia di una libera Università, II, cit., p. 361.

14

M.A. Romani, «Bocconi über alles!», cit., p. 215.

15

G. Pavanelli, P.L. Porta (a cura di), La formazione intellettuale e scientifica di un economista critico. Conversazione autobiografica con Giovanni Demaria, in «Il pensiero economico italiano», III, 1995, 1, pp. 12-14; A. Montesano, La logica dell’economia dinamica di Giovanni Demaria, in Giovanni Demaria e l’Economia del Novecento, Atti del convegno organizzato dall’Istituto di Economia politica «E. Bocconi», Milano 1999, p. 34.

16

La Commissione economica fu creata con decreto luogotenenziale il 31 luglio del ’45. «Per un biennio Demaria si trovò al vertice di un organismo prestigioso con compiti conoscitivi e d’indirizzo, un osservatorio privilegiato che gli consentì di verificare sul campo le proprie posizioni dottrinarie, ma anche di raccogliere dati di prima mano sulla situazione economica italiana e nuovi elementi di riflessione, grazie anche al contatto diretto con i protagonisti della vita produttiva». Cfr. G. Pavanelli, Politica industriale e commercio estero tra autarchia e ricostruzione. Il contributo di Giovanni Demaria, in G. De Luca (a cura di), Pensare l’Italia nuova: lo cultura economica milanese tra corporativismo e ricostruzione, Milano 1997, p. 180.

17

R. Petri, Storia economica, cit., p. 184.

18

A. Graziani, Introduzione, in Idem (a cura di), L’economia italiana dal 1945 a oggi, Bologna 1987, p. 40. In proposito, anche i bocconiani P. Saraceno, Intervista sulla ricostruzione 1943-1945, a cura di R. Villari, Bari 1977, pp. 26-31, e P. Baffi, Testimonianze e ricordi, Milano 1990, p. 110.

19

A. Graziani, Giovanni Demaria economista eterodosso, in Giovanni Demaria e l’Economia del Novecento, cit., pp. 17-18.

20

R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., pp. 185-86.

21

V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 414.

22

P. Saraceno, Elementi per un piano quadriennale di sviluppo dell’economia italiana, Roma 1948. Nato a Morbegno, presso Sondrio, nel 1903, Saraceno si era laureato in Bocconi nel 1929. Allievo di G. Zappa, insegnò Tecnica bancaria fino al 1933, quando fu chiamato a Roma per occuparsi del neonato IRI, nell’avvio e nella gestione del quale svolse a lungo un ruolo fondamentale. Fu ordinario di Tecnica bancaria all’Università Cattolica. Cfr. M. A. Romani, «Bocconi über alles!», cit., p. 144 e A. De Maddalena, L’aula e l’ufficio, cit., in M. Cattini, E. Decleva, A. De Maddalena, M.A. Romani, Storia di una libera Università, II, cit., p. 383.

23

Ibidem.

24

Secondo gli studi dell’ECA (Economic Cooperation Administration), sui quali si basarono gli interventi del Piano Marshall, il rapporto sull’Italia del 1948 misurava in 1,482 milioni i disoccupati, per un tasso del 7,2%. Cfr. E. Pugliese, E. Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione, cit., la Tavola 3 a p. 30.

25

M. A. Romani, Storia di una libera Università, II, cit., p. 383. G. Demaria notò in proposito che l’IRI era stato organizzato come struttura permanente dal fascismo «allo scopo di assoggettare ad un solo vasto controllo le industrie attinenti alla difesa nazionale» e che, a guerra finita, esso costituiva un peso: «Se l’Iri continuasse così si conserverebbe una impresa colossale il cui peso sterilizzerebbe buona parte dello slancio vitale dell’economia nazionale». Cfr. G. Demaria, Un problema grave, in «La nuova stampa», 27 luglio 1947, cit. da G. Pavanelli, Politica industriale e commercio, cit., p. 184.

26

D. Menichella, F. Giordani, G. Cenzato, P. Saraceno e R. Morandi. Cfr. V. Zamagni, M. Sanfilippo, Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La SVIMEZ dal 1946 ai 1950, Bologna 1988, p. 13.

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