Storia della Bocconi

1945-1968. Dalla liberazione al '68

L’istruzione superiore a sostegno del «miracolo»


Nel 1949 la ricchezza prodotta dagli italiani quasi eguagliò il livello che aveva raggiunto nel 1938[1], l’ultimo anno di pace. Dopo la «cura da cavallo» einaudiana, il valore della lira si era stabilizzato e il bilancio pubblico tornò finalmente in pareggio. La crescita della domanda interna e il buon andamento delle esportazioni, incoraggiate dal basso livello dei salari e dal pieno impiego degli impianti, stimolarono consistenti investimenti tecnologici[2].

Tra il 1948 e il ’55 la produzione italiana di trattori agricoli crebbe di quasi otto volte, quella di automobili quintuplicò, i quantitativi di concimi chimici, di acciaio e di zucchero prodotti aumentarono di due volte e mezza[3]. Dal 1952 al 1963, nelle regioni di Nord-ovest si profilò il primo solido ciclo di sviluppo del settore industriale. Dal ’52 al ’58, l’avvio del processo dipese prevalentemente da fattori interni: una energica crescita agricola (+4,6% annuo di valore aggiunto)[4], favorita da una meccanizzazione di un’intensità fino allora sconosciuta nelle campagne italiane, dove viveva più della metà della popolazione[5], sostenne quella manifatturiera (+7,4% annuo)[6]. I profitti realizzati dalla grande industria furono largamente reinvestiti (+6,8% annuo)[7] per accrescere la capacità produttiva a fronte di una domanda interna ed estera che sembrava inesauribile[8].

Dal 1958 al ’63, il Mercato comune europeo ampliò ulteriormente gli sbocchi dei manufatti e dei prodotti industriali italiani[9]. Il raddoppio degli investimenti in tecnologia[10] e il basso costo relativo della manodopera, in crescente misura formata da operai di prima generazione provenienti dalle montagne e dalle campagne del Nord e dai centri urbani minori pugliesi e siciliani[11], consolidarono il successo delle nostre esportazioni, la cui quota crebbe consistentemente a livello mondiale nel corso del decennio 1951-61[12].

A partire dai primi anni Cinquanta, nell’intento d’ottenere sostanziali economie di scala, i settori siderurgico, elettrico, della raffinazione del petrolio, dell’industria petrolchimica e alcuni comparti della meccanica furono teatro d’ingenti investimenti[13]. Contemporaneamente, nella pressoché generale disattenzione degli economisti, una miriade di piccole e medie imprese disperse nelle regioni nord-orientali e centrali del Paese, assembrate in distretti industriali, erano protagoniste di uno sviluppo tecnologico e produttivo che avrebbe assunto vistose dimensioni dai secondi anni Sessanta in avanti[14].

Il grosso degli investimenti e dei sussidi alle aziende controllate dallo Stato fu diretto alla grande industria e, più particolarmente, a quei settori tecnologicamente strategici come la metallurgia, la meccanica e i mezzi di trasporto, la chimica e l’industria energetica. I costanti, intensi impieghi di capitale contennero l’occupazione nelle grandi imprese[15]. Per contro, quelle piccole e medie preferirono avvalersi dell’abbondante manodopera a buon mercato che, in uscita dall’agricoltura e dal terziario arretrato, grazie ai bassi salari, fino al ’62 favorì la prosperità dell’indotto e assicurò la competitività internazionale dei fabbricanti di manufatti a basso tenore tecnologico[16].

Mentre, dunque, per dirla con Michele Salvati, si profilava «la più grande ondata di accumulazione che la storia economica del nostro paese abbia registrato», milioni di persone cambiavano lavoro uscendo dall’agricoltura per inserirsi nel settore secondario, nell’edilizia pubblica e privata e, ancor più, nel terziario[17]. Dalla metà degli anni Cinquanta, grazie alla moderazione dei prezzi internazionali delle materie prime, e in virtù della crescente domanda mondiale di merci ad alto valore aggiunto e di un adeguamento tecnico e commerciale dell’industria nazionale, l’Italia riuscì nella difficile impresa d’inserirsi fra i Paesi economicamente avanzati dell’Occidente e, per di più, con un ritmo di sviluppo talmente sostenuto da far gridare al miracolo.

A questo punto, conviene domandarsi se, in quegli anni, anche sotto il profilo dell’istruzione superiore e universitaria si verificarono mutamenti tali da contribuire allo sviluppo dell’economia con un capitale umano più numeroso e meglio preparato; se, insomma, la scuola preparò e fornì risorse umane più adatte a sostenere un’intensa quanto breve fase di sviluppo economico fondata sul primato del settore industriale. Se, in altre parole, aumentò consistentemente il numero di diplomati delle scuole medie superiori a indirizzo tecnico, i più idonei a svolgere il ruolo di utilizzatori di macchine applicate alla produzione di larga scala, e se, contemporaneamente, crebbe anche il flusso di laureati, in particolare di quelli in discipline scientifiche ed economiche[18].

Alla seconda domanda è agevole rispondere portando alcune cifre che coprono un quarto di secolo. Dal 1945 al 1969, nelle università italiane si laurearono 569.394 persone, per una media annua di 22.776 laureati[19]. In quel periodo, la Bocconi partecipò laureando 7.716 persone (il 48,6% delle quali in Economia e Commercio e il rimanente 51,4% in Lingue e Letterature straniere)[20]. Il contributo quantitativo dato dall’Università commerciale alla crescita del numero dei laureati in Italia durante quel fondamentale quarto di secolo fu davvero poca cosa, essendo pari all’1,35%, la 74esima parte dell’intero lotto. La proverbiale arretratezza della società italiana in fatto di studi universitari cominciò quindi a essere gradualmente superata non prima degli anni Cinquanta[21]. Se assumiamo come metro di misura il numero di laureati ogni 100.000 abitanti negli anni dei censimenti decennali, troviamo che dal 1951, quando erano 43, essi passarono a 44 nel ’61, balzarono a 110 nel ’71, a 124 nell’81, a 154 nel ’91[22] e a 220 nel primo anno del XXI secolo. A ben guardare, dunque, solo dal ’71 si profilò un netto cambio di ritmo, proprio allorché la lunga fase di slancio economico avviatasi dai primi anni Cinquanta era ormai prossima a tramontare[23].

A dire il vero, la struttura della popolazione scolastica italiana, dalle scuole superiori all’università, aveva subìto un sensibile mutamento anche per l’esito della riforma della scuola dell’obbligo[24], che portò dagli 11 ai 14 anni il limite di età per completare l’istruzione di base. Gli effetti della riforma, che ampliava la platea di giovani che avrebbero potuto accedere alle scuole superiori, si sommarono agli stimoli provenienti da un’economia proprio allora sottoposta a tumultuose trasformazioni strutturali, sicché, tra il 1951 e il ’71, sui banchi delle scuole secondarie superiori gli studenti crebbero di quattro volte[25], su quelli delle università di oltre tre volte[26]. E, tuttavia, dei molti entrati negli atenei italiani, solo la metà uscì avendo completato gli studi[27], diversamente da quanto capitava nelle scuole superiori, dove gli abbandoni erano di trascurabile entità.

Nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, insomma, il grosso dei nuovi lavoratori dotati di un livello superiore d’istruzione era rappresentato da diplomati: ragionieri, geometri, periti e tecnici dei più diversi rami industriali, rampolli della piccola borghesia urbana e rurale e del ceto medio impiegatizio[28], socialmente e culturalmente omogenei rispetto a un mondo economico in vistosa evoluzione nelle regioni centrali e, soprattutto, settentrionali del Paese, svolsero una parte attiva nel febbrile clima di cambiamento.

I ragionieri, impiegati o liberi professionisti che fossero, si occupavano della contabilità, dell’emissione di fatture, del calcolo di paghe e contributi, dei rapporti con gli istituti di credito, con gli ispettori della Guardia di Finanza e con i funzionari degli Uffici Imposte[29]. I geometri si interessavano in prevalenza della progettazione di edifici di modesto valore e intrattenevano relazioni con i funzionari degli Uffici tecnici comunali, del Catasto e del Genio Civile. Nelle periferie suburbane di molti centri medi e piccoli, a lungo rimasti privi di strumenti urbanistici di programmazione e di piani regolatori generali per l’edilizia civile e commerciale, essi realizzavano villette e palazzine integrate con piccoli opifici – le cosiddette «fabbrichette» – secondo logiche analoghe a quelle delle città italiane medievali e moderne, dove i mastri muratori costruivano o riadattavano edifici nei quali gli opifici artigiani e le botteghe dei mercanti erano tutt’uno con le abitazioni.

Periti e tecnici, in massima parte lavoratori subordinati, rafforzarono la prima ossatura dei quadri intermedi del sistema industriale nelle medie come nelle grandi imprese. Passati alcuni lustri a prendere dimestichezza con la direzione di reparti, l’organizzazione delle fasi lavorative, il controllo della filiera produttiva e della qualità dei manufatti prodotti, non pochi di loro lasciarono la condizione di lavoratori dipendenti per mettersi in proprio. Alla periferia dei maggiori insediamenti industriali del Nord-ovest sorsero così nugoli di piccole e medie imprese che, lavorando per conto terzi, offrirono alle grandi industrie l’opportunità di decentrare ed esternalizzare intere fasi produttive.

 

Tabella 3 Percentuali degli studenti delle scuole secondarie superiori (1955-1991)[30]

Anni

Istituti professionali

Istituti tecnici

Istituti magistrali

Licei scientifici

Licei classici

Altri[31]

1955-56

11,5

36,7

18,2

7,8

24,0

1,8

1960-61

13,1

42,8

14,0

8,1

19,3

2,7

1970-71

15,7

40,8

11,9

15,3

12,4

3,9

1980-81

18,4

44,6

8,5

14,7

8,5

5,3

1990-91

18,9

45,8

5,8

15,7

8,0

5,8

 

Nelle regioni del Nord-est e del Centro Italia, le innumerevoli piccole e medie imprese diedero forma a veri e propri distretti industriali marshalliani, col tempo divenuti uno dei caratteri distintivi dell’organizzazione manifatturiera in numerose regioni della penisola[32].

Se si considera che, nel 1955-56, una buona metà degli studenti degli istituti tecnici (36,7%) comprendeva periti meccanici, chimici, elettrotecnici e altri ancora (18,35%) e che, se a questi si aggiungono quelli degli istituti professionali (11,5%), si arriva al 29,85%, allora si scopre che quasi un terzo dei giovani che completavano le scuole superiori sarebbe entrato nel mondo industriale italiano per contribuire attivamente al «miracolo».

In quegli anni, sul versante disciplinare opposto, quello umanistico, primeggiava incontrastato il liceo classico (24%), che contava il triplo di studenti rispetto allo scientifico (7,8%): il nuovo liceo inventato trent’anni prima da Giovanni Gentile per quanti ambivano a una laurea nelle scienze della natura. Ginnasio e liceo assolvevano da secoli al compito di attrezzare mentalmente e culturalmente i rampolli dell’élite aristocratica e altoborghese destinati a completare la loro formazione negli atenei, con una spiccata preferenza per la facoltà di Giurisprudenza[33]. Gli istituti magistrali, dopo aver lungamente preparato e addestrato le eroiche truppe che, nelle periferie più remote del Paese, avevano combattuto e vinto l’analfabetismo imperante fino agli anni Venti in numerose regioni della penisola, dai primi anni Sessanta cominciarono a perdere studenti.

In conclusione, la strutturale trasformazione dell’economia e della società, assieme a diffusi e consistenti miglioramenti del tenore di vita, spinsero i genitori a iscrivere i figli alla scuola secondaria secondo un’attitudine che vedeva in un superiore grado d’istruzione il più efficace strumento di affermazione sociale ed economica[34]. Gli studiosi che si sono occupati della mobilità sociale della popolazione italiana negli anni del «miracolo» hanno potuto accertare che le posizioni di status acquisite provenendo dai ceti inferiori avevano a che fare soprattutto con i livelli d’istruzione[35].

Nell’anno 1970, a un quarto di secolo dalla fine della guerra e nel pieno di un processo d’integrazione dell’economia nazionale nel mercato europeo e internazionale, i mutamenti nei pesi relativi dei flussi di giovani che si distribuivano fra sei tipi di scuole superiori erano largamente coerenti con la trasformazione, ormai compiuta, dell’Italia in Paese economicamente evoluto. Gli studenti del classico erano dimezzati (da 24 a 12,4%), mentre quelli dello scientifico erano in pratica raddoppiati (da 7,8 a 15,3%). Le coorti dei futuri maestri erano consistentemente diminuite (da 18,2 a 11,9%) mentre, per contro, i giovani che frequentavano gli istituti professionali e quelli tecnici erano cresciuti al punto da rappresentare la maggioranza assoluta (40,8: +15,7%).

Ai sensibili mutamenti nelle quote percentuali dei diversi indirizzi di studio si accompagnò l’incremento del numero complessivo degli studenti. Se, alla metà degli anni Cinquanta, in Italia solo un giovane su dieci frequentava una scuola superiore, nel 1975 si era arrivati a 4,4[36]. La scelta sempre più diffusa di far proseguire gli studi ai figli ben oltre la scuola dell’obbligo, rafforzata dagli effetti demografici, con un ritardo di quindici anni, del baby boom proseguito dal 1953 al 1965[37], causò l’affollamento degli studenti alle superiori. Da mezzo milione che erano attorno al 1955, dieci anni dopo erano diventati 1,25 milioni e, verso il 1975, poco più di 2 milioni[38].


1

G. Rey (a cura di), l conti economici dell’Italia. 1. Una sintesi dei conti ufficiali, Roma-Bari 1991, p. 204.

2

M. Cattini, Introduzione alla storia moderna e contemporanea del mondo (secoli XV-XX), Reggio Emilia 2000, p. 276.

3

Ibidem.

4

R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., Tabella 5.1, p. 189.

5

G. Fuà, Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Bologna 1980, p. 93.

6

R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., Tabella 5.1, p. 189.

7

Ibidem.

8

M. Cattini, Introduzione alla storia, cit., p. 276.

9

I Trattati di Roma, stipulati il 25 marzo 1957, incentivarono i rapporti d’interscambio con i cinque partner della CEE (Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germania Federale) e avviarono una liberalizzazione e un abbassamento delle tariffe doganali. In generale, si veda R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., pp. 199-200.

10

Ibidem. Tabella 5.1, p. 189.

11

Ibidem. Tabella 6.8, p. 286.

12

M. Cattini, Introduzione alla storia, cit., p. 276.

13

V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 446.

14

M. Bellandi, «Terza Italia» e «distretti industriali» dopo la seconda guerra mondiale, in F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto (a cura di), L’industria, Storia d’Italia, Annali 15, Torino 1999, pp. 849-853.

15

R. Petri, Storia economica d’Italia, cit., pp. 191-92.

16

Ibidem, p. 192.

17

E. Pugliese, E. Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione, cit., Tavola 4, p. 56. Nel decennio 1950-60, 1,1 milioni di persone entrarono nel settore industriale e 1,3 nel terziario. Nel 1975, rispetto al 1950, il primario aveva perduto 4,17 milioni di addetti, il secondario ne aveva guadagnati 1,3 milioni e il terziario 4,2 milioni; cfr. Ibidem.

18

In prospettiva, v’è anche il problema della mobilità sociale collegata al miglioramento dei livelli d’istruzione superiore, per il quale si veda A. Cobalti, A. Schizzerotto, La mobilità sociale in Italia, Bologna 1994, pp. 134-36.

19

Cfr. A. Cammelli, A. di Francia, Studenti, cit., Tab. 9, p. 42.

20

Annuario dei Laureati 1906-1999, Milano 2000.

21

A. La Penna, Università e istruzione pubblica, in Storia d’Italia Einaudi, V, I documenti, II, Torino 1976, pp. 1774-79.

22

Annuario dei Laureati 1906-1999, Milano 2000. Ho arrotondato all’unità i valori.

23

Sulle relazioni fra istruzione e sviluppo si vedano, in generale, C.M. Cipolla, Literacy and Economic Development in the West, Baltimore 1969; T.W. Schultz, Investment in Human Capital. The Role of Education and of Research, New York 1971.

24

La legge n. 1859 fu votata dal Parlamento il 31 dicembre 1962.

25

Il loro peso relativo passò dal 7,1 al 17,8% di tutti gli scolarizzati, cfr. Istat, Compendio Statistico Italiano, 1971 e 1974, alla voce: «Istruzione e statistiche culturali varie». Si vedano anche i dati della Tab. 1 pubblicata da V. Zamagni, Istruzione tecnica e cultura industriale nell’Italia post-unitaria: la dimensione locale, in Innovazione e sviluppo. Tecnologia e organizzazione fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX), Atti del secondo convegno nazionale della Società italiana degli Storici dell’economia, Bologna 1996, p. 623.

26

Istat, Compendio Statistico Italiano, 1971 e 1974, alla voce: «Istruzione e statistiche culturali varie».

27

A. Cammelli, A. Di Francia, cit., Figura 12, p. 51. 49% nel complesso, ma si laureavano solo 18 studenti di Economia su cento matricole.

28

A. Cobalti, A. Schizzerotto, La mobilità sociale, cit., pp. 192-202.

29

M. De Cecco, Piccole imprese, banche, commercialisti. Note sui protagonisti della seconda industrializzazione italiana, in L. Cafagna, N. Crepax (a cura di), Atti di intelligenza e sviluppo economico. Saggi per il bicentenario della nascita di Carlo Cattaneo, Bologna 2001, pp. 433-42.

30

Le informazioni di base sono state tratte da Istat, Compendio statistico italiano, annate diverse.

31

Le classificazioni Istat degli anni Cinquanta e Sessanta comprendono: scuole femminili, istituti d’Arte, licei artistici, istituti tecnico-agrari, istituti tecnico-nautici, istituti per il turismo (dal 1963).

32

G. Becattini (a cura di), Mercato e forze locali. Il distretto industriale, Bologna 1987; e Idem (a cura di), Modelli locali di sviluppo, Bologna 1989.

33

Sull’insediamento sociale dei padri degli studenti universitari italiani nei primi anni Trenta cfr. M. Cattini, Gli studenti, cit., pp. 551-54.

34

D. Checchi, La diseguaglianza. Istruzione e mercato del lavoro, Roma-Bari 1997, pp. 145-160.

35

Ibidem.

36

Istat, Compendio statistico italiano, «Popolazione e Istruzione», anni diversi.

37

Istat, Compendio statistico italiano, «Popolazione», anni diversi.

38

Idem, Compendio statistico italiano, 1976, p. 72.

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