Nella primavera del 1945, quando sul fronte europeo la seconda guerra mondiale ebbe finalmente termine, l’Italia era una nazione moralmente prostrata, economicamente dissestata e alla ricerca di un non facile equilibrio politico. Rispetto al primo dopoguerra, dominato dall’euforìa di una vittoria conseguita a caro prezzo umano e materiale, le condizioni economiche erano nettamente differenti. Durante la guerra, cominciata per l’Italia nel giugno del 1940, la mobilitazione delle risorse dell’industria manifatturiera non aveva assunto proporzioni comparabili a quelle realizzate nel corso dei quarantuno mesi del primo conflitto mondiale.
Ai primi di luglio del ’43, lo sbarco in Sicilia degli Alleati aveva accelerato la crisi interna del gruppo dirigente fascista che, il 25 luglio, in una tempestosa riunione notturna del Gran Consiglio, mise in minoranza Mussolini. Il duce fu arrestato e imprigionato sul Gran Sasso. Vittorio Emanuele III attribuì al maresciallo Pietro Badoglio l’incarico di formare un nuovo governo di militari e di tecnici conservatori fedeli alla corona. Resosi conto del processo di disgregazione dell’esercito italiano, Badoglio avviò segretamente contatti con gli Alleati. Il 3 settembre 1943 il governo italiano firmò un armistizio che, in realtà, era piuttosto una resa senza condizioni.
L’8 settembre, nel Nord e nelle regioni centrali del Paese, valendosi di sedici divisioni, gli ex alleati tedeschi misero in atto una vera e propria occupazione militare. Mentre le truppe germaniche prendevano il controllo della capitale, il re, il governo e gli alti comandi militari fuggivano. Riparato al Nord, dopo essere stato liberato da truppe speciali tedesche, Mussolini creò la Repubblica Sociale Italiana col programma, fra l’altro, di socializzare le imprese. Mentre nell’Italia centrale si apriva un teatro di guerra, che avrebbe interessato con drammatica durezza le infrastrutture ferroviarie, stradali e portuali, le abitazioni civili e la vita quotidiana delle popolazioni, uscirono allo scoperto formazioni politiche fino a quel momento attive nella clandestinità, come il Partito comunista, la Democrazia cristiana, erede del vecchio Partito popolare di Luigi Sturzo, il Partito liberale, il Partito socialista di unità proletaria e il Partito d’Azione. Quest’ultimo era l’unica formazione politica davvero nuova nel panorama italiano. In essa confluirono laici progressisti e liberal-socialisti che, finita la guerra, intendevano abbattere la monarchia e instaurare un regime repubblicano.
Nella primavera del 1944, con un rimpasto, accanto a esponenti della tradizionale élite fedele alla corona Badoglio chiamò al governo rappresentanti di tutti i partiti. Nell’Italia centro-settentrionale occupata, fin dal settembre del ’43, per coordinare operazioni di guerriglia contro i nazi-fascisti e per prepararsi ad affrontare i problemi politici e amministrativi che si sarebbero profilati alla fine della guerra, i partiti antifascisti formarono Comitati di Liberazione Nazionale.
Nel contempo, si andavano ingrossando le fila delle bande partigiane militarmente attive e cresceva la partecipazione popolare alla lotta contro il nazi-fascismo. La mattina del 14 febbraio del 1945, con un’azione dimostrativa che sapeva di goliardia, al comando di Sandro Pertini, un gruppo di giovani partigiani comunisti entrò in Bocconi e, fra l’entusiasmo degli studenti, distribuì copie del giornale clandestino «Scuola rivoluzionaria» e volantini di propaganda, improvvisò un comizio inneggiante all’Internazionale, issò sul tetto dell’edificio una bandiera rossa e ferì gravemente due guardie di pubblica sicurezza[1].
Specialmente nelle regioni del Centro-nord, gli italiani sperimentarono saccheggi, rappresaglie, requisizioni, sfollamenti dai centri urbani, che inflissero alle popolazioni ferite esistenziali e patrimoniali assai difficili da classificare fra i «danni di guerra»[2]. «Insonnia, sgomento, assuefazione alla fame, angoscia per una persona cara che non dà notizie di sé, preoccupazione per oggetti personali […] abbandonati precipitosamente […] diedero luogo a stanchezza, rilassamento morale e sforzo di rimozione delle sofferenze più acute»[3].
A mano a mano che gli anglo-americani risalivano la penisola, presso i loro comandi prese il sopravvento la preoccupazione che, finite le ostilità, i partigiani, fra i quali prevalevano comunisti e socialisti, avrebbero tentato un radicale cambiamento del sistema politico e sociale. Dal novembre del ’44, gli aiuti alleati alla Resistenza si fecero meno frequenti, fino a cessare del tutto[4]. Ciò nonostante, le azioni della Resistenza proseguirono anche nel durissimo inverno 1944-45 e, il 25 aprile, nella maggior parte delle città altoitaliane liberate dai tedeschi in rotta, gli uomini del CLN entrarono per primi.
Gli impianti industriali dell’Italia degli anni Quaranta, prevalentemente concentrati nelle regioni del Nordovest, non furono troppo danneggiati dai bombardamenti delle forze aeree alleate. Parimenti, la diplomazia spicciola degli imprenditori e l’impegno politico delle formazioni operaie attive e fiancheggiatrici della Resistenza, in non pochi casi, ebbero successo nell’impedire trasferimenti di linee produttive e distruzioni d’impianti a opera delle truppe occupanti.
Secondo stime attendibili, la perdita di capitale industriale fisso si aggirò attorno all’8-10%[5]. Ovviamente, non tutti i settori avevano dovuto sopportare danni della stessa entità. Le industrie meccaniche, per esempio, pur danneggiate, uscirono dal conflitto con capacità produttive pari o addirittura superiori a quelle del 1939, grazie ai consistenti ampliamenti realizzati tra il ’40 e il ’42, al tempo del massimo sforzo produttivo a sostegno delle truppe italiane in guerra[6]. Danneggiamenti ben più gravi avevano invece subìto gli impianti metallurgici costieri (Bagnoli, Piombino e Cornigliano)[7], le industrie chimiche, i cantieri navali e le officine aeronautiche, tutti settori direttamente impegnati in produzioni strategiche fino al settembre del ’43 e, da allora in avanti, controllati dalle forze occupanti tedesche. Nel tessile, a parte la produzione di fibre artificiali, i tradizionali settori cotoniero, laniero e serico erano rimasti indenni da distruzioni[8] ma, da anni, mancavano di rifornimenti di materie prime.
In un Paese la cui economia era ancora largamente fondata sulla produzione agricola e nel quale le campagne, teatro della guerra, avevano subìto distruzioni di impianti e di colture, oltre che decimazioni del bestiame per le requisizioni tedesche, i volumi dei raccolti per un paio d’anni furono largamente inferiori alla norma, mettendo in crisi l’approvvigionamento dei beni alimentari di base per la popolazione. A complicare ulteriormente le cose c’erano le frequenti interruzioni delle comunicazioni e dei trasporti derivanti dai danni subìti da strade, linee ferroviarie e stazioni, porti, linee telefoniche e telegrafiche, per non dire degli autocarri, delle corriere, delle locomotive e dei carri ferroviari per merci e per passeggeri.
In un dattiloscritto rimasto lungamente inedito e da poco dato alle stampe dalla nostra Università[9], l’economista Libero Lenti[10], attivo membro del Partito d’Azione e della Commissione economica del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia presieduta da Cesare Merzagora, con riferimento al periodo 1943-44 valutava in calo del 28% il PIL nazionale rispetto a quello del 1938 e misurava nel 64% la quota di reddito consumato dagli italiani per soddisfare i semplici bisogni alimentari, contro il 55,9% dell’ultimo anno di pace[11].
Nel suo «piano», Lenti postulava la «ricostruzione del capitale nazionale distrutto o danneggiato dalla guerra, nel minor tempo e con il minor costo e nel modo più razionale possibile»[12]. Egli aveva tuttavia ben presenti la debolissima posizione del Paese nel contesto internazionale, gli assillanti problemi dovuti a una inflazione difficile da controllare e la inadeguatezza delle risorse interne da impiegare nel riavvio dell’economia nazionale.
A proposito dei finanziamenti esteri indispensabili per riparare i danni e riavviare il ciclo economico dopo il ritorno della pace, Lenti notava: «Questa guerra […] ha accresciuto a dismisura la capacità di credito degli Stati Uniti d’America e ha ridotto per non dire annullato la capacità di credito della Gran Bretagna e della Francia», e concludeva: «Non v’è dubbio che una certa parte di questa capacità di credito dovrà trovar sfogo negli stessi Stati Uniti per finanziare la trasformazione delle industrie belliche in industrie di pace, ma è del pari certo che la parte sostanziale di tale capacità di credito sarà disponibile per investimento all’estero»[13].
Nel suo «piano», Lenti prospettava e discuteva la questione della grave disoccupazione che si sarebbe profilata in Italia al ritorno della pace. Egli stimava in 3,6 milioni il numero degli uomini che si sarebbero messi alla ricerca di un lavoro e proponeva uno «schema di sistemazione» nei diversi settori che avrebbe funzionato a condizione di diluire nel tempo il rientro dei prigionieri di guerra, di recuperare mezzo milione di posti mediante una riduzione del lavoro femminile e di organizzare l’espatrio di 500.000 operai[14].
Se l’Italia liberata della primavera del ’45 andava incontro a problemi di enorme portata economica, politica e sociale, i suoi cittadini avevano quotidianamente a che fare con la concreta esigenza di approvvigionarsi dei beni alimentari di base su due mercati: quello legale, amministrato e organizzato per tesseramento, e quello «nero», parallelo al primo, sul quale la maggior parte dell’offerta proveniva da fittavoli, da mezzadri e da diretti coltivatori che sottraevano larga parte dei loro raccolti agli ammassi obbligatori, in un quadro di assoluta inefficienza dei servizi di sorveglianza e di diffusa corruzione.
Nel luglio del ’45, Ferruccio Parri – primo presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia liberata – usando in una trasmissione radiofonica l’espressione «sbarcare il lunario»[15] sintetizzò efficacemente la condizione in cui versavano quasi tutti gli italiani. A sei mesi di distanza, nel dicembre del ’45, un altro autorevole politico, Meuccio Ruini, che avrebbe presieduto la Commissione dei 75 che predispose la bozza della Carta costituzionale, scriveva: «Ogni italiano ha bisogno di 2.500 calorie al giorno, ne riceve per tesseramento solo 900 [e] il rimanente deve cercarlo, se può, alla borsa nera»[16].
In pratica, i prefetti nominati dal Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, col pieno appoggio dei sindacati e dei partiti popolari, furono costretti a mantenere in vigore il razionamento, mentre i contadini si sottraevano agli ammassi obbligatori anche più sfrontatamente di prima. A Milano, durante l’estate, «le cronache cittadine dei giornali d’informazione offr[ivano] un variopinto panorama di raggiri, di piccole truffe, di astute trappole escogitate dal villano che si reca[va] nella città a profittare del bisogno e dell’ormai lunga fame del borghese»[17].
Nel primo inverno di pace, la popolazione borghese e operaia della capitale industriale d’Italia avrebbe quotidianamente sperimentato la totale dipendenza dal mondo rurale. Ne furono rinfocolate mentalità collettive d’antico impianto avverse al ricarico dei prezzi, percepito come un arbitrio dei produttori a danno dei consumatori.
M.A. Romani, «Bocconi über alles!»: l’organizzazione della didattica e la ricerca (1914-1945), in M. Cattini, E. Decleva, A. De Maddalena, M.A. Romani, Storia di una libera Università, II, L’Università commerciale Luigi Bocconi dal 1915 al 1945, Milano 1997, pp. 143-46.
S. Lanaro, Storta dell’Italia repubblicana. Dalla fine della Guerra agli anni novanta, Venezia 1992, p. 7.
Nel novembre del ’44, una delegazione governativa guidata da Raffaele Mattioli e da Enrico Cuccia si era recata negli Stati Uniti per sollecitare aiuti economici, tornandosene dopo quattro mesi a mani quasi vuote. Cfr. V. Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri; Torino 1995, pp. 362-3.
V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia/1861-1990, Bologna 1993; Idem, Un’analisi macroeconomica degli effetti della guerra, in Idem (a cura di), Come perdere la guerra e vincere la pace, Bologna 1997, pp. 36-7.
R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna 2002, p. 182.
P. Saraceno, La ricostruzione industriale italiana (1947), in P. Barucci (a cura di), Ricostruzione e pianificazione (1943-1948), Bari 1969, p. 258.
R. Petri, Storia economica, cit., p. 182.
L. Lenti, Elementi per un piano di ricostruzione economica dell’Italia, Milano 1996.
↑ 10
Libero Lenti si era laureato in Bocconi nel 1927. Insegnò Statistica ed Economia nelle Università di Pavia, Milano e in Bocconi.
↑ 11
Ibidem, pp. 30 e 32.
↑ 12
S. Beretta, Introduzione a L. Lenti, Elementi per un piano di ricostruzione, cit., p. XIX.
↑ 13
L. Lenti, Elementi per un piano di ricostruzione, cit., p. 73.
↑ 14
Ibidem, p. 151. In realtà, gli espatri, soprattutto dal Mezzogiorno, in direzione di Australia, America latina, Francia, Svizzera e Belgio, si mantennero attorno ai 225.000 l’anno fra il 1946 e il ’50. Cfr. E. Pugliese, E. Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione in Italia (1945-1995), Roma 1997, p. 47.
↑ 15
V. Zamagni, Dalla periferia al centro, cit., p. 410.
↑ 16
M. Ruini, Le cifre della Ricostruzione, Roma 1945, p. 24.
↑ 17
L. Ganapini, Una città, la guerra (Milano 1939-1951), Milano 1988, pp. 215-16.