Storia della Bocconi
1945-1968. Dalla liberazione al '68
La severa selezione che fin dagli anni Trenta[1] contribuì alla fama della Bocconi era il frutto della combinazione di fattori esterni e interni. I primi, per così dire ambientali, riguardavano le condizioni sociali e culturali di una gran parte degli studenti, come il patrimonio di conoscenze e di nozioni acquisito nelle scuole secondarie e come la diffusa condizione d’universitari lavoratori; i secondi consistevano nello sbarramento posto alla fine del primo biennio che imponeva il superamento di tutti gli esami per iscriversi al terzo anno, disponendo di soli sei appelli annuali[2] e nella severità delle prove, negli anni Cinquanta, con percentuali d’insuccesso pari a quelle degli anni Trenta, quando un esame su cinque doveva essere ripetuto[3].
Negli anni Quaranta e Cinquanta, intesa come fattore di emancipazione sociale e culturale e di promozione economica, l’iscrizione all’Università indusse un gran numero d’impiegati a sobbarcarsi fatiche improbe per tempi lunghissimi pur di ottenere una laurea[4]. In un articolo comparso nel febbraio del ’50 sul «Bocconiano», il periodico del Circolo studentesco dell’Università[5], Luciano Verona, che si sarebbe laureato in Lingue solo dieci anni dopo, offriva una preziosa testimonianza dei sentimenti e delle istanze, implicitamente politiche, dei giovani che non avevano alle spalle famiglie abbastanza agiate da permettersi di mantenerli agli studi.
«Oggi un notevole numero di studenti alterna le fatiche del lavoro a quelle dello studio […] [perché essi] hanno dovuto, una volta diplomati, impiegarsi in un’attività retribuita. Ciò, ci sembra, non può costituire una ragione sufficiente, da parte di coloro che vorrebbero limitare l’affluenza alle Università, per aggiungere nuove difficoltà alle molte già esistenti, compreso l’inasprimento delle tasse; così ragionano quelli che vedono l’università unicamente come mezzo per giungere ad una laurea e al conseguente sfruttamento di essa, che temono stoltamente ciò che in commercio si definisce concorrenza. […] La via agli studi sarebbe [così] aperta solo a chi ha il privilegio di poter attendere unicamente ad essi, situazione che esclude a priori ogni questione relativa al merito. Infatti, se ragione di merito è l’attendere con profitto agli studi, crediamo che merito maggiore abbia acquistato chi, con tenacia e costanza e con non minore intelligenza, persevera nelle nominate attività. […] La Costituzione della Repubblica contempla l’articolo 34 nel quale è detto: I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi… […] Ora non vogliamo prospettare arbitrarie soluzioni che potrebbero andare da considerevoli borse di studio a sovvenzioni a chi, avendo il prospettato merito e capacità, è nell’impossibilità economica di proseguire gli studi, limitandoci a tener viva l’attenzione su quello che consideriamo un problema di estremo interesse per gli studenti italiani. È chiaro che non potremo intraprendere nessuna lotta in questo campo se non esisterà tra noi una unione salda e fattiva, unione che attraverso gli organi rappresentativi studenteschi assumerà una concreta forza sul piano nazionale»[6].
Non v’è dubbio che la petizione di principio affacciata dallo studente lavoratore fosse di natura politica. Nella valutazione di Lino Maineri, direttore del periodico, nel 1949 in Bocconi gli studenti lavoratori «superavano di parecchio il 50%»[7] degli iscritti. Verona divideva dunque il mondo universitario in due: da una parte i rampolli dei ceti borghesi forniti di mezzi, dipinti come «oligopolisti» della laurea che disdegnavano la concorrenza; dall’altra, i lavoratori che miravano a emanciparsi socialmente ed economicamente inseguendo un titolo accademico e invocavano condizioni di parità. Egli, insomma, adombrava la questione della pari dignità di due generi assai disomogenei di studenti proprio mentre l’università si avviava a divenire un fenomeno di massa. Si trattava di una questione sulla quale, di lì a non molto, si sarebbero innestate istanze di democratizzazione del sistema universitario, percepito come meccanismo autoritario e selettivo che apriva possibilità di successo diverse a seconda dei diversi strati sociali[8].
Le informazioni offerte dai prospetti curricolari degli studenti felicemente approdati all’esame di laurea, selezionati per campione[9], testimoniano con dovizia di particolari la tormentata e prolungata vicenda universitaria dei relativamente pochi che riuscirono nel loro intendimento. Intanto, conviene precisare che per discutere la tesi di Economia e Commercio si dovevano superare ben 32 esami, inegualmente distribuiti su quattro anni. Si trattava, in partenza, di un traguardo già molto difficile da raggiungere. In più, la sfida era ulteriormente complicata dalla compresenza di insegnamenti riconducibili ad àmbiti disciplinari tra loro molto difformi i quali, come ho già sottolineato, esigevano doti non comuni di eclettismo[10].
Il percorso didattico degli iscritti a Lingue e Letterature straniere era relativamente meno impegnativo: 20 esami, di cui tre complementari, e la tesi scritta e discussa in lingua estera. Innovazione, questa, introdotta dalla Bocconi, della quale i laureati andavano giustamente fieri. In ogni caso, un terzo di prove in meno rispetto a Economia non li aiutò ad abbreviare il tempo intercorso fra il giorno dell’immatricolazione e quello dell’esame di laurea. Posto che era possibile iscriversi fino al 31 dicembre d’ogni anno, gli studenti particolarmente brillanti riuscivano a laurearsi in corso entro un tempo compreso fra 43 e 52 mesi dal giorno in cui avevano fatto il loro ingresso in Università. I migliori raggiungevano l’agognato traguardo nel luglio o nel dicembre del quarto anno. Al più tardi, ci si poteva laureare in corso anche a febbraio, marzo o aprile dell’anno seguente: l’ultimo appello utile per non rientrare nella folla dei fuori corso[11].
Figura 5 Durate medie, in mesi, degli studi dei laureati per anno d’immatricolazione, 1946-1970
I due diagrammi intrecciati della Figura 5 mostrano che non v’era apprezzabile differenza fra le durate dei curricoli dei laureati in Economia e di quelli di Lingue, benché numero d’esami e coerenza disciplinare dei due corsi di laurea fossero assai dissimili. Per un terzo degli anni considerati – 7 su 22 – la durata media delle carriere dei dottori in Lingue superò addirittura, e non di poco, quella dei dottori in Economia e Commercio.
Il calo netto del secondo valore (1947-48) della serie rispetto al primo di ambedue i corsi sembra riconducibile al ritorno della normalità nella vita accademica degli ultimi anni Quaranta. Nel caso di Lingue, il salto da una durata media di 89 mesi tra gli iscritti del 1946 – terzo anno fuori corso – a una di 56 mesi fra quelli dell’anno immediatamente seguente (1947) dipese da ben 43 studenti, provenienti da altre università o addirittura già laureati, che andarono a prendersi una seconda laurea in Bocconi. Si trattò di un affollamento eccezionale, concentratosi nel biennio 1947-48[12], in seguito mai più datosi. La normalizzazione dei tempi cominciò col 1950, quando ormai a laurearsi furono quasi esclusivamente studenti nati e cresciuti in Bocconi.
La durata degli studi dei laureati di Economia e Commercio tese a declinare, pur con qualche oscillazione. La serie si mosse da valori medi molto alti, compresi fra 80 e 90 mesi – terzo fuori corso – per scendere attorno a 64-72 mesi. Anche i tempi richiesti per laurearsi in Lingue subirono un accorciamento facendo sì che la serie, tradotta in grafico, somigli a una parabola col vertice piazzato poco dopo la metà (87 mesi nel 1958-59) e con un minimo alla fine, gravitante attorno ai 60 mesi, cioè entro il primo anno fuori corso.
Entrambe le serie mostrano che gli studenti riuscirono a economizzare tempo dalla metà degli anni Cinquanta in avanti. È ipotizzabile che tale risultato fosse il frutto di un progressivo ridursi della quota dei lavoratori iscritti e, contemporaneamente, come si vedrà di qui a poco, di un incremento dei trasferimenti presso altre università ottenuti dai ritardatari. A tal proposito, vale la pena di ricordare che il non invidiabile primato della perseveranza spettò ai laureati in Lingue, alcuni dei quali iniziarono le loro carriere universitarie nei primi anni Cinquanta e le conclusero tra i 22 e i 24 anni dopo.
La proverbiale severità degli studi non era solo all’origine di estenuanti permanenze in via Sarfatti, ma causava anche flussi migratori nei due sensi: in entrata, perché attirava studenti che approdavano alla Bocconi con l’intento di completare con un diploma di laurea prestigioso un curricolo di studi standard, almeno in parte costruito altrove; in uscita, verso numerose sedi universitarie dell’Italia settentrionale, da parte di giovani in cerca di piani di studio a basso coefficiente di propedeuticità e ad altrettanto basso carico didattico – poche centinaia di pagine da studiare – in modo da realizzare considerevoli economie sui tempi di completamento dei curricoli.
Per quanto riguarda gli studenti di Economia, i movimenti in entrata e in uscita furono assai contenuti, interessando solo il 2% degli iscritti nei secondi anni Quaranta e il 4% negli anni Cinquanta. Il fenomeno dei trasferimenti esplose, invece, negli anni Sessanta, arrivando a interessare addirittura un quarto degli studenti (25%). In quel turbolento decennio, le università lombarde – Cattolica e Pavia – ereditarono quattro decimi dei bocconiani in uscita, mentre i sei decimi rimanenti si rifugiarono in Emilia – nella vicina Parma soprattutto, dove insegnavano numerosi professori formatisi in Bocconi –, nelle altre due facoltà economiche del Nord-ovest (Genova e Torino) e nel Veneto.
Figura 6 Trasferimenti a Lingue da altre università, 1946-1967
Le informazioni raccolte per campione su migliaia di schede matricolari degli iscritti a Lingue, la maggioranza assoluta dei bocconiani degli anni compresi fra il 1946 e il 1967, hanno permesso di misurare tempi e ritmi dei flussi migratori in entrata e in uscita e di precisare le sedi universitarie preferite dagli studenti e dalle studentesse che se ne andavano.
Il flusso di studenti in arrivo da altre sedi fu di enormi proporzioni nel triennio 1946-48 quando, inaugurato da poco il nuovo corso di laurea, i trasferimenti giunsero a rappresentare quasi il 60% delle iscrizioni[13]. Col 1949, il fenomeno si attenuò drasticamente assestandosi su livelli fisiologici. Dai primi anni Cinquanta, da fuori arrivò il 5-8% degli iscritti, con tendenza al calo, anche perché funzionavano egregiamente due fattori dissuasivi: un rigoroso filtro agli ingressi e la durezza degli esami.
Figura 7 Iscritti a Lingue (%) in uscita verso altre università, 1946-1967
L’andamento ondeggiante dell’opposto movimento in uscita mostra un orientamento di fondo verso la crescita dalla metà degli anni Cinquanta alla metà dei Sessanta, quando, dal 20% circa degli immatricolati, si arrivò a sfiorare e toccare il 30[14]. Erano anni in cui il numero degli iscritti a Lingue cresceva tumultuosamente, mentre gli studenti di Economia scendevano a livelli minimi simili a quelli degli ultimi anni Trenta[15]. Per Lingue, il saldo algebrico fra provenienti da e trasferiti ad altre università fu costantemente negativo dal 1949 in poi, con peggioramenti fino alla metà degli anni Sessanta, allorché le uscite subirono un netto ridimensionamento.
Conviene, infine, gettare uno sguardo alle facoltà verso le quali migravano quegli studenti di Lingue ìmpari al compito di reggere i ritmi didattici bocconiani o che decidevano di cambiare addirittura corso di Laurea optando per Magistero o per Lettere moderne.
Dal 1953 in avanti, il piccolo corso di Lingue della Cattolica divenne sempre più spesso l’approdo preferito di quanti intendevano proseguire in quel genere di studi alla larga dai rigori bocconiani.
Figura 8 Università destinatarie dei trasferimenti da Lingue, 1946-1967
↑ 1
In un’ampia relazione sulle attività istituzionali, nel 1931, il Rettore Ulisse Gobbi notava: «Che [la nostra Università] sappia mantenere la sua tradizione di severità negli studi è provato dal fatto che il numero dei laureati è circa un terzo di quello degli iscritti al primo corso quattro anni prima, con dispiacere ho dovuto negli scorsi giorni firmare parecchi fogli di congedo di studenti che dopo il 2° corso, non avendo superato tutti gli esami, si trasferiscono in uno degli istituti in cui tale condizione non è richiesta per l’ammissione al 3° corso»; cfr. M. Cattini, Gli studenti e la loro università, cit., II, p. 558. A proposito degli scogli maggiori del corso di Economia, in un opuscolo pubblicato dal Circolo Bocconiano, ente sorto nel gennaio 1949 per iniziativa di un gruppo di universitari dei due corsi di laurea al fine di rappresentare gli interessi di tutti gli studenti, l’anonimo estensore metteva in guardia le matricole dal sottovalutare i due colloqui di lingue, suggeriva di sostenere l’esame di Economia politica I a giugno, di studiare anche «le virgole» delle dispense di Matematica generale del prof. Ricci e di mandare a memoria le definizioni di alcuni fondamenti della ragioneria «perché basta cambiare la più piccola cosa che tutto è distrutto»; cfr. ASUB. B. 12/4. Circolo Bocconiano, Milano (s.d., ma 1954), pp. 6-8.
↑ 2
Due a giugno e due a ottobre, prima dell’inizio delle lezioni che, di norma, si svolgevano dalla terza settimana di novembre alla fine di maggio, con vacanze natalizie, di carnevale e pasquali. Secondo una prassi introdotta durante la seconda guerra mondiale, gli studenti in corso erano ammessi a sostenere due esami all’appello straordinario di febbraio; per i fuori corso non valevano limitazioni di numero. Cfr. Circolo Bocconiano, cit., p. 11.
↑ 3
Una ricerca campionaria e abbreviata sui curricoli degli studenti dei primi anni Cinquanta ha confermato che gli esami più difficili si concentravano nel primo biennio. Non va inoltre dimenticato che dopo una bocciatura, che veniva regolarmente annotata sul libretto, lo studente avrebbe potuto ripresentarsi all’esame solo in un’altra sessione e ripeterlo non più di due volte nello stesso anno. Cfr. Circolo Bocconiano, cit., p. 11.
↑ 4
Nel novembre del 1949, nel terzo numero de «Il Bocconiano», il presidente Lino Maineri affrontava la questione grave e complessa degli studenti lavoratori. Egli affermava che non avrebbero dovuto più esistere, che la situazione sarebbe stata avviata a soluzione risanando le finanze delle università e riformandone gli statuti, che, intanto, avendo presente l’articolo 34 della Costituzione, si dovevano prendere provvedimenti per soluzioni temporanee di compromesso. In vista del nuovo anno accademico, egli proponeva di attivare in Bocconi, e a titolo sperimentale, corsi dal lunedì al venerdì, dalle 18.30 alle 19.30, e, il sabato, dalle 14.30 alle 17.30. Cfr. ASUB. B. 40/1. «Il Bocconiano», anno I, n. 3, p. 1.
↑ 5
Il Circolo, del quale facevano automaticamente parte tutti gli iscritti, aveva l’intento dichiarato di rappresentare gli interessi degli studenti presso l’amministrazione e il Consiglio di facoltà, di assisterli nelle pratiche burocratiche, di organizzare iniziative culturali come proiezioni cinematografiche, conferenze e viaggi di scambio in università estere. L’organizzazione si articolò in quattro sezioni: 1) il Centro culturale, deputato a tenere le relazioni con associazioni culturali milanesi, italiane ed estere, che inaugurò la sua attività con un ciclo di conferenze tenute in Aula Magna e con un concorso per due monografie, l’una economica, l’altra letteraria; 2) il Centro ricreativo, che si diede come scopo principale un ritorno alla goliardìa; 3) il Centro universitario sportivo (CUS) animato da responsabili delle singole discipline (atletica leggera, pallacanestro, calcio, canottaggio, ciclismo, hockey su ghiaccio, hockey su prato, nuoto, roccia (sci-alpinismo), rugby, scherma, tennis da tavolo); 4) il Centro tecnico di facoltà – responsabile Piero Bassetti – che si assunse il compito di «migliorare le condizioni tecniche in cui si svolge[va] l’attività di studio degli iscritti alla Bocconi» offrendo «informazioni pratiche di iscrizione a esami e indicazioni sui testi, […] sia oralmente che per corrispondenza». Cfr. ASUB. B. 40/1. «Il Bocconiano», anno 1, n. 1. passim.
↑ 6
L. Verona, Del merito, in «Il Bocconiano», cit., p. 3.
↑ 7
Ibidem, L. Maineri, Rispondendo…
↑ 8
A. La Penna, Università e istruzione pubblica, cit., p. 1778; G. Recuperati, La scuola nell’Italia unita, cit., p. 1728. Il sociologo francese P. Bourdieu, assieme a J.C. Passeron, aveva mostrato un fenomeno analogo in Les héritiers. Les étudiants et la culture, Paris 1964.
↑ 9
I materiali di base sono conservati nell’Archivio della Segreteria Studenti, della quale ringrazio il personale per la collaborazione prestata. Si sono considerate le carriere di un quarto degli studenti iscritti, selezionate secondo criteri casuali.
↑ 10
Uno scanzonato addio alla Bocconi da parte di un anonimo studente alla vigilia della discussione della tesi rievoca episodi della sua esperienza: «[…] ho perdonato al Prof. Pagliari di avermi rovinato l’udito con quella sua voce delicata e mansueta. Sì, sì, anche a Lei, Prof. Masini, ho perdonato quelle lunghe e monotone mezz’ore, in continua lotta fra il tepore primaverile ed il sonno incalzante. Pure a Lei, Prof. Revel, ho perdonato quel giorno nel quale mi lasciò fuori dall’aula per essere arrivato in ritardo e a Lei, Prof. Rossi, di avermi così gentilmente consegnato il libretto all’esame di Ragioneria! Non ho mancato di perdonare a Lei, Prof. Demaria, quel 18 accordatomi con aria paterna, fra una telefonata ed un sogno di un pomeriggio di mezzo giugno! E con grazia perdono al Prof. Ricci il suo spirito geografico, vagante fra bacini tutt’altro che idrici e la Lana di soggetto cinematografico. Al Prof. Lorusso ho perdonato il suo John Bull e al Prof. Dell’Amore i “bidoni” mattutini in ore sacre al riposo ed al sonno. Ed ora le confesso, dottor Palazzina, di aver preparato l’esame di Tecnica dei Prodotti Agricoli in tre mesi, e di non essermi meritato quel 26 in Scienza delle Finanze, dopo aver letto solamente sessanta misere pagine delle dispense del Prof. Dell’Olio. Confesso pure di aver spesso formulato cattivi pensierini durante le lezioni di Tecnica Professionale. E confesso, Sig. Canale, di aver fumato una volta, una volta sola in biblioteca. E mi perdoni Prof. Brambilla, se durante l’esame di Statistica la mia mente vagava in un campo di… Gelsomini! Ora mi sento più leggero, quasi come una piuma e sarei pronto ad andarmene, etereo e libelluleggiante, se un “vincolo” tremendo non mi trattenesse. Ah! Prof. Caprara!». Cfr. Il Sergente, Confessione, in «Il Bocconiano», anno II, n. 1, febbraio 1950.
↑ 11
Fra il 53esimo e il 64esimo mese dall’immatricolazione ci si laureava fuori corso di un anno; fra il 65esimo e il 76esimo di due; fra il 77esimo e l’88esimo si era fuori corso di tre anni, e così continuando, di dodici mesi in dodici mesi, a partire da maggio di ogni anno.
↑ 12
Compreso fra il 3 e il 5% entro il 1952.
↑ 13
Tra l’altro, il grande flusso in entrata contribuisce a spiegare il repentino abbassamento delle durate medie degli studi dei laureati degli ultimi anni Quaranta, essendo numerosi i casi di completamento, in tempi brevi, di carriere già avviate altrove.
↑ 14
Negli anni Sessanta, come s’è visto, da Economia ogni anno se ne andava un quarto degli iscritti.
↑ 15
Al minimo di 1.816 iscritti a Economia, nel 1955-56, corrisposero 2.507 studenti di Lingue. Sull’arco del decennio 1955-64, gli iscritti a Economia progredirono del 28% mentre quelli di Lingue crebbero del 42%. Cfr. Università Commerciale L. Bocconi, Annuario, Anni accademici dal 1959/60 al 1963/64, Milano 1965, Statistiche, passim, e idem, Annuario, Anni accademici dal 1964/65 al 1965/66, Statistiche, p. 107.
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Prefazione
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Il ritorno alla normalità: gli anni del rettorato di Giovanni Demaria (1945-1952)
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Il lungo rettorato di Armando Sapori (1952-1967)
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Gli anni difficili: il rettorato di Giordano Dell’Amore
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Ridestare un quarto di secolo di storia bocconiana (1945-1968)
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Gli studenti e la loro Università (1945-2001)