Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Tra Milano e Pavia


Parole chiave: Milano, Rapporti istituzionali

Alla vigilia della grande guerra le Università in senso proprio attive in Italia erano in tutto 21, 17 governative e 4 libere. Classificata per qualche tempo dalle statistiche ufficiali tra queste ultime, la Bocconi era stata successivamente collocata nell’ambito degli Istituti speciali d’istruzione superiore, una categoria eterogenea, in cui entravano le Scuole superiori di commercio, ma anche il Cesare Alfieri fiorentino e l’Istituto orientale di Napoli, unitamente ad un’altra Scuola superiore milanese, quella di Agricoltura. L’Istituto tecnico superiore milanese, come ancora si denominava il Politecnico, figurava tra gli Istituti superiori universitari, insieme con le restanti strutture operanti a quel livello nel capoluogo lombardo: l’Accademia scientifico-letteraria, la Scuola di Medicina veterinaria, gli Istituti clinici di perfezionamento.

L’incidenza delle strutture superiori milanesi rispetto al contesto nazionale (nelle dimensioni ancora circoscritte allora riservate alla formazione post-secondaria) risultava, anche così, tutt’altro che irrisoria per numero e percentuale di iscrizioni. Napoli continuava a primeggiare, sotto questo profilo, con oltre 5 mila iscritti, seguita da Roma e da Torino; ma Milano, con i suoi 2408 iscritti[1] (quasi il doppio di quelli di Pavia) si collocava a ridosso di Bologna, che, in aggiunta all’Università, era dotata anche di una Scuola di applicazione per ingegneri. Anticipando sin d’allora una condizione che si sarebbe reiteratamente riprodotta nei successivi decenni, ad una percentuale, sul totale nazionale, del 7,77% quanto a studenti iscritti, corrispondeva un rapporto decisamente più sfavorevole per quel che riguardava la quota dei docenti a disposizione. Su un totale di 1318 tra professori ordinari e straordinari in servizio nel 1914-15, a Milano se ne contavano solo 69 (pari al 5% del totale), e precisamente: 17 al Politecnico, 14 all’Accademia scientifico-letteraria, 16 alla Bocconi, 10 alla Scuola superiore di Agricoltura, 6 a quella di Medicina veterinaria, 6 agli Istituti clinici di perfezionamento. Il solo ateneo romano ne registrava alla medesima data 91 e 90 quello partenopeo, senza contare quelli che facevano capo alle altre scuole superiori locali. Bologna, con un centinaio di studenti in più di Milano, ne annoverava complessivamente 88; 85, tra Università e Politecnico, Torino; 73 Padova, 65 Pisa, e via seguitando. Complessivamente poco diffuso nella gran parte delle sedi universitarie vere e proprie, il ricorso per la copertura degli insegnamenti all’apporto di docenti incaricati si presentava non a caso, a Milano, come una necessità, e tanto più considerato il numero, parimenti modesto, dei liberi docenti.

L’unica Università in senso proprio operante nella regione, alla quale rivolgersi anche da Milano per adire alle lauree mediche o giuridiche (all’epoca di gran lunga le più perseguite), continuava ad essere quella di Pavia. I giovani milanesi che, per qualche motivo, non volevano iscriversi all’ateneo ticinese potevano rivolgersi, tra i meno lontani, a quello bolognese (dove si era, ad esempio, laureato in Giurisprudenza, ma non senza aver ascoltato la lezione di Giosuè Carducci, Filippo Turati), o a quello di Genova, dove – per richiamare altri due nomi di spicco nella società milanese del primo ’900 – presero la medesima laurea Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti. I soli corsi tradizionali ai quali accedere senza muoversi dal capoluogo restavano quelli, all’epoca non molto appetiti, di Lettere, presso l’Accademia scientifico-letteraria. Per qualche tempo era anzi accaduto che quest’ultima assorbisse la Facoltà di Lettere e filosofia pavese; ma le rimostranze locali per una simile perdita avevano portato alla sua rapida reintegrazione, nonostante il numero persistentemente modesto degli studenti tornati ad affluirvi. Si trattava in ogni caso di una sovrapposizione di modesta entità. Sotto ogni altro riguardo l’ateneo pavese ed il complesso delle istituzioni superiori per il momento operanti sulla scena milanese avevano continuato a non presentare zone di attrito o di aperta rivalità. Come se davvero tra i due centri si fosse stabilita un’equilibrata e razionale divisione delle parti: a Pavia, nel rispetto della sua plurisecolare tradizione e dei legami ormai organici tra ateneo e città, le facoltà canoniche; a Milano le scuole applicative e le istituzioni più direttamente finalizzate ad alimentare di nuovi quadri e di adeguate competenze le attività economiche ed imprenditoriali, industriali e commerciali, ormai connaturate al suo tessuto urbano.

Dei pregi di una simile distinzione di ruoli si era continuato e si continuò in effetti a disquisire a più riprese da parte di chi non voleva saperne di metterla in discussione. Ma a dimostrazione di quanto non scontata essa fosse in realtà basterebbe richiamare quello che era successo tra Milano e Pavia nel marzo 1893 in seguito alla notizia dell’avvenuto lascito a favore del Comune di Milano da parte di un cittadino facoltoso, Siro Valerio – che le voci raccolte dai giornali descrivevano come «uno studioso» dal carattere «misantropo, burbero, sino a parer stravagante»[2] – di una cospicua somma e di alcune proprietà, vincolate alla condizione che servissero alla fondazione o al trasferimento in Milano di una Università per lo studio delle scienze o per lo meno di qualche sezione di esse, e, prima d’altro, preferibilmente, della Facoltà medico-chirurgica».

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A dar fuoco alle polveri provvide l’intervista, pubblicata con grande rilievo, il giorno seguente, dall’«Italia del popolo», del titolare della Clinica medica all’Università ticinese, Enrico Bottini. Chirurgo di valore, ma in polemica da tempo con l’ambiente pavese, questi propose che col lascito Valerio si desse vita a Milano ad un Istituto superiore di studi medici, comprensivo degli insegnamenti dell’ultimo biennio della Facoltà di Medicina, analogamente a quanto già accadeva a Firenze presso l’Istituto di studi superiori. Che un «grande centro» come Milano fosse ancora privo di una università propria era a suo parere una assoluta anomalia, un’eredità di quando il dominatore austriaco aveva inteso, così facendo, tenere lontana «per tre quarti dell’anno la parte più temibile della popolazione: la gioventù». Il medesimo criterio adottato nei confronti di Venezia, lasciando in quel caso a Padova il ruolo di valvola di sfogo. Venute meno le ragioni che avevano motivato quegli orientamenti, non sussisteva proprio più nessun motivo perché Milano non disponesse di un ateneo entro le sue mura. Col lascito Valerio si sarebbe intanto potuto realizzare un accordo con l’Ospedale Maggiore, mettendo a frutto il notevole materiale clinico, al momento infruttifero, di cui esso disponeva, trasformando alcune sue sale in cliniche: «una clinica medica, una chirurgica, una ginecologica, una oculistica meno numerosa, una delle malattie nervose». I relativi direttori avrebbero accolto gli ammalati «maggiormente atti all’insegnamento, scelti fra i 1800 degenti all’ospedale», facendo le loro lezioni «al letto dell’ammalato o nell’aula Paletta, dove pure si faranno le operazioni». L’iniziativa non avrebbe dovuto comportare alcuno scorporo da Pavia, la cui Facoltà medica avrebbe potuto mantenere i due ultimi anni di corso. Ma Milano li avrebbe attivati a sua volta, e Bottini non nascondeva in alcun modo le proprie previsioni:

 

Pavia è (…) in una posizione insostenibile come sede di Università, o almeno come sede di una Facoltà di medicina. Non ha mezzi, non ha materiale: l’accettazione degli ammalati al suo Ospedale va restringendosi sempre più, così che noi clinici non sappiamo dove prendere gli ammalati che ci occorrono per la scuola: io, nella Clinica operativa, se non avessi dei casi che mi vengono un po’ da tutte le parti, non potrei fare un corso completo col solo materiale offertomi da quell’Ospedale. Non le parlo poi della città come luogo di residenza: chi appena può, ci sta il meno possibile; si sono inventati perfino i treni degli studenti che alle otto di mattina e alle quattro di sera portano da Milano e riportano a Milano gli studenti, che non si sentono di vivere in quella città poco ospitale. In simili condizioni, a che pro fare di Pavia un martire non necessario? A che pro farla morire d’un colpo violento, mentre verrà la morte naturale? Mettete gli ultimi due anni di medicina a Milano, e a Pavia quei corsi si spegneranno per anemia[3].

 

La replica non si fece naturalmente attendere. La stampa pavese parlò di «allucinazioni» e di «basse villanie» da parte di un «professore attabrighe» dall’«immensa vanità», solito trascurare l’insegnamento e la scuola, e interessato solo a raccogliere a Milano «con poca fatica una larga messe d’onori e di quattrini»[4]. La Giunta municipale, radunata d’urgenza, fece addirittura affiggere un manifesto per esprimere «il senso di indignazione, suscitato negli animi dall’ingiurioso giudizio lanciato contro tutta una popolazione per bocca di un uomo, cui la dignità del grado avrebbe dovuto inspirare un linguaggio più temperato e conveniente». Non solo. L’«acerbità della parola» andava interpretata come il sintomo di «più perniciosi consigli»:

 

Già da molti anni, per opera di nemici palesi ed occulti, si muove, ora aperta, ora insidiosa guerra alla nostra insigne Università, ed oggi si toglie argomento dal lascito di un morente, per preparare, con nuove e sottili astuzie, la pensata rovina[5].

 

I Consigli direttivi della Società democratica e reduci e del Circolo elettorale si pronunciarono a loro volta contro il «volgare insulto» e le «asserzioni gratuite»[6]. Chiamato direttamente in causa, il Consiglio d’amministrazione dell’Ospedale pavese trasmise ai giornali un lungo memoriale di difesa e di protesta, negando la pretesa carenza di ammalati o di cadaveri per le scuole anatomiche, e mettendo per contro sotto accusa, come causa di disagi e di inconvenienti, le «frequenti e lunghe assenze» da Pavia dello stesso Bottini[7]. Il Consiglio accademico dell’Università votò, per parte sua, un ordine del giorno, proposto dal rettore Carlo Cantoni, con il quale si contestava ogni ipotesi di Facoltà separata, facendo appello al ministro della Pubblica istruzione perché dissipasse «con una esplicita dichiarazione sua il timore che possa in qualsiasi modo venir lesa l’integrità di questo Ateneo e la sua prosperità»[8].

Di fronte ad una sollevazione di tanta asprezza, a Milano si reagì in chiavi diverse: denunciandone l’isteria e il carattere assolutamente sproporzionato, ma cercando anche di gettare acqua sul fuoco e dando per certo che qualsiasi iniziativa si fosse presa, Pavia non ne avrebbe ricevuto nocumento alcuno. Si pronunciò in particolare in tal senso, in una lettera inviata al «Secolo», il direttore della Maternità Edoardo Porro, figura eminente dell’ambiente clinico locale, fautore da tempo della restituzione all’Ospedale Maggiore di funzioni didattiche proporzionate al suo glorioso passato, ma consapevole anche della complessità e delle difficoltà di un simile progetto. Fermo «più che mai» nel rivendicare a Milano «il diritto ed il dovere di impegnare tutte le sue energie per il raggiungimento del progresso e per l’incremento di tutto ciò che può concorrere al suo perfezionamento intellettuale», Porro riteneva l’obiettivo pienamente perseguibile «senza danno o sfregio per nessun altro centro di sapere e di istruzione»: «Quello che Milano saprà e dovrà fare non suonerà mai sfregio o danno alla città di Pavia»[9].

Quanto alle modalità in sé dell’impiego del lascito Valerio, le proposte avanzate da Bottini rappresentarono in ogni caso solo una delle ipotesi in campo. Il direttore dell’Ospedale Maggiore, Edoardo Grendi, vista anche l’entità effettiva del legato, considerevole ma non enorme, sostenne, ad esempio, la realizzazione, semmai, di un Istituto superiore per gli studi della Anatomia patologica, anche nei rapporti cogli studi della Patologia sperimentale e della Batteriologia», da collocarsi a poca distanza dalla «Cà Granda»[10]. Nel corso della assemblea della Associazione medica lombarda, prontamente convocata dal suo presidente, Luigi Mangiagalli (da poco responsabile del comparto ostetrico-ginecologico dell’Ospedale Maggiore, una posizione per accettare la quale aveva lasciato provvisoriamente il ruolo universitario), non prevalse nessuna soluzione definita. L’ordine del giorno finale, formulato dal direttore della Scuola di Veterinaria, Nicola Lanzillotti Buonsanti, prospettò congiuntamente le possibilità o di un «istituto biologico superiore» o di «istituti clinici» o di «cliniche complementari di specialità medico-chirurgiche», dando incarico ad una apposita Commissione di approfondire i diversi problemi e di presentare la «proposte pratiche» più opportune[11].

A calmare le acque a Pavia sopravvenne, qualche giorno più tardi, la notizia delle rassicurazioni fornite al deputato locale Rampoldi dal ministro della Pubblica istruzione Martini, il quale garantì «il concetto dell’integrità e riunione delle Facoltà Universitarie»[12]. Che per il momento non ci si dovessero attendere novità era chiaro a quel punto anche a Milano. Ma che questo non comportasse in alcun modo una rinuncia era attestato da un lungo articolo apparso a fine marzo sulla «Perseveranza», presentato come «il prodotto concorde di colloqui avvenuti in questi giorni tra alcuni studiosi, i quali si ascrivono, nell’ordine politico, a parti diverse, ma nel presente caso (…) tutti animati da sentimenti comuni». La questione del lascito Valerio vi veniva collegata all’ormai prossima scadenza della convenzione ventennale stipulata nel novembre 1875 tra lo Stato, il Comune e la Provincia di Milano concernente il coordinamento e il parziale finanziamento degli Istituti superiori cittadini. L’avvio di una nuova scuola di rango universitario ove ospitare l’ultimo biennio degli studi medico-chirurgici, unica interpretazione giudicata plausibile dello spirito e della lettera del disposto testamentario Valerio, veniva in tal modo inserito in un contesto più ampio ed organico, in vista della costituzione di un vero «Istituto di studi superiori e di perfezionamento», «d’importanza ben più che lombarda», da strutturare in analogia con quello fiorentino e ripartito in più sezioni:

 

La sezione medica vi conterrà l’Istituzione Valerio, oltre la Scuola superiore di medicina veterinaria e la Scuola d’ostetricia. Tutte le altre Scuole superiori di Milano formeranno esse pure, nella loro piena integrità, altrettante sezioni di codesto grande Istituto. Ciascuna scuola sarà governata alla guisa di una Facoltà universitaria. La presidenza generale spetterà naturalmente al Direttore della prima e maggiore delle sezioni, la politecnica. E vuol dire, che un superbo gonfalone sarà superbamente portato[13].

 

In linea di principio, la questione veniva insomma data per risolta. Milano, «il più gran centro di popolazione veramente cittadinesca che abbia l’Italia», non poteva più oltre tollerare l’ingiustificata condizione di inferiorità alla quale la si era costretta. E Pavia, dopo avere tanto goduto dei trascorsi privilegi, avrebbe dovuto solo prendere atto dell’inevitabile, senza troppo adontarsene. Non aveva insomma tutti i torti la «Provincia pavese» a recriminare: rispetto all’intervento «sgraziato» di Bottini, la differenza era solo di tono, non certo di sostanza[14].

Per ora sulle rive del Ticino si faceva comunque argine, difendendo la particolare e irrinunciabile vocazione universitaria della città, ricordandone le gloriose tradizioni e ribadendo come l’«ambiente universitario» fosse

 

cosa tutta speciale, che non sa comprendere se non colui, che per molti anni ha vissuto in una città sede di Ateneo, dove la vita scientifica si svolge come in una famiglia, dove i maestri fraternizzano con gli alunni, ai quali parlano e sono di esempio nella scuola, per le vie, fìnanco nei caffé.

 

Per assolvere a simili funzioni non erano

 

punto necessarie né le popolazioni esuberanti delle grandi città, né i romori quotidiani, né le varie faccende, che si intrecciano e si confondono in una vita agitata e confusa, la quale distrae le menti di chi insegna e di chi studia e detrae tempo e cure solerti al lavoro fecondo della scienza per la scienza.

 

Purché non si mettesse in causa la fisionomia compiutamente universitaria di Pavia, lasciando conseguentemente a lei sola la prerogativa di conferire lauree, l’ipotesi di creare a Milano «quanti Istituti si vogliono di perfezionamento pei laureati» non era tuttavia respinta[15].


1

Il quadro degli iscritti, suddiviso per istituto, era il seguente: Istituto tecnico superiore 960; Accademia scientifico-letteraria 646; Istituti clinici di perfezionamento 343; Università Bocconi 340; Scuola superiore di Agraria 79; Scuola superiore di Medicina veterinaria 44. Per tali dati, e per quelli che seguono, cfr. Direzione generale della statistica e del lavoro, Annuario statistico italiano, II serie, vol. VI, Anno 1916, Roma 1918, pp. 96-99.

2

«La Lombardia», 3 marzo 1893, Il lascito di un milione per una università scientifica in Milano.

3

«L’Italia del popolo», 4-5 marzo 1893, Il testamento Valerio e la fondazione d’una facoltà medica a Milano (intervista con un clinico illustre).

4

«La Provincia pavese», 8 marzo 1893, Le allucinazioni del professore Bottini. Per una testimonianza del malvolere dei pavesi nei confronti di quel «brüt malnàt» cfr. A. Pensa, Ricordi di vita universitaria (1892-1970), a c. di B. Zanobio, Milano 1991, pp. 32-33.

5

Il testo del manifesto ne «La Provincia pavese», 8 marzo 1893, La protesta delle società democratiche.

6

«La Provincia pavese», 8 marzo 1893, Per l’Università di Pavia.

7

«La Provincia pavese», 10-11 marzo 1893, L’amministrazione dell’Ospedale ribatte le accuse del prof. Bottini.

8

«La Provincia pavese», 10-11 marzo 1893, Il Consiglio Accademico dell’Università.

9

«Il Secolo», 12-13 marzo 1893, Edoardo Porro e l’eredità Valerio.

10

«La Perseveranza», 7 marzo 1893, Per il lascito Valerio.

11

A. Visconti, Relazione della Commissione per lo studio dei modi più acconci per attuare praticamente la disposizione testamentaria dell’ing. Siro Valerio circa la fondazione in Milano di un Istituto di studi medico-chirurgici, in «Atti della Associazione medica lombarda», gennaio-febbraio 1894, p. 159.

12

Cfr. «La Provincia pavese», 22 marzo 1893, Le dichiarazioni del Ministro della Pubblica Istruzione per l’Università di Pavia.

13

«La Perseveranza», 28 marzo 1893, X., Il lascito Valerio e il coordinamento degli Istituti di studi superiori di Milano.

14

«La Provincia pavese», 31 marzo 1893, Pel nostro Ateneo.

15

«La Provincia pavese», 12 aprile 1893, Erre, Per il nostro Ateneo. VII.

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