Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Verso la Grande Guerra


Parole chiave: Rettore Majno Luigi, Rettore Bonfante Pietro, Presidente Majno Luigi

La notizia dell’attentato occorso a Sarajevo al principe ereditario dell’impero austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, nel quale aveva trovato tragica morte anche la sua consorte, giunta nella capitale austriaca dalla Bosnia sui fili del telegrafo poco dopo le 12 del 28 giugno 1914, nella tarda serata di quello stesso giorno aveva fatto il giro del mondo destando ovunque grandissima impressione.

Il corrispondente da Vienna del «Corriere della Sera» riuscì a comunicare in giornata alla sua redazione un ampio servizio nel quale dava conto dei tragici eventi verificatisi nel corso della mattinata a Sarajevo, dove un liceale diciannovenne, Gavrilo Princip, assassinando con due colpi di pistola l’erede al trono austro-ungarico[1], aveva inconsapevolmente innescato una crisi politica e diplomatica destinata a provocare lo scoppio di una guerra senza precedenti, tanto per le dimensioni degli eserciti che vi sarebbero stati impegnati, quanto per l’avanzato livello tecnologico delle armi impiegate. Tre settimane dopo l’inumazione della salma di Leopoldo Sabbatini[2], dunque, mentre erano in corso gli esami della sessione estiva e ci si apprestava alla cerimonia delle dissertazioni delle tesi di laurea, i colpi di pistola di un liceale bosniaco precipitavano gli studenti bocconiani in un clima ideologico e politico che il trascorrere dei mesi avrebbe esasperato e radicalizzato.

Al termine della prima settimana di luglio, il governo tedesco sollecitava l’alleato austriaco a non «lasciare impunito quel focolaio di agitazione criminale che è Belgrado» e lo invitava ad eliminare la Serbia come fattore di squilibrio politico dei Balcani[3]. L’assicurazione germanica di fedeltà all’alleanza implicava che la garanzia di aiuto offerta all’Austria agisse da deterrente nei confronti della Russia, il paese che, nello scenario politico europeo, da tempo si era assunto il ruolo di grande protettore delle popolazioni slave residenti nei Balcani. Già cinque anni prima, nel 1909, la minaccia dell’intervento tedesco a fianco dell’Austria aveva trattenuto l’impero zarista di fronte a Vienna, quando quest’ultima aveva deciso l’annessione della Bosnia-Erzegovina, dopo esserne stata a lungo la semplice amministratrice[4]. A Berlino si era convinti che la Russia non fosse adeguatamente attrezzata per sostenere un confronto armato a così grande distanza dai confini nazionali e, nel medesimo tempo, si confidava nel sostanziale disinteresse per le questioni balcaniche della Gran Bretagna: il più potente alleato russo[5].

A quattro settimane dall’attentato, il 23 luglio, l’ambasciatore austriaco consegnava al governo di Belgrado un Ultimatum pretendendo una risposta entro 48 ore e precisando che Vienna non aveva alcuna mira sul territorio serbo. All’indomani di una replica assai remissiva, che tuttavia il gabinetto di governo austriaco giudicò insoddisfacente, la trama diplomatica si allargò incentrandosi sulla proposta inglese della convocazione di una conferenza internazionale che tentasse di sbrogliare l’ingarbugliata matassa e provasse a ricondurre nell’alveo delle questioni meramente locali il conflitto serbo-austriaco. Mentre le diplomazie russa, austriaca e soprattutto tedesca si mettevano alacremente all’opera, i governi di San Pietroburgo e di Vienna posero in preallarme i rispettivi capi di stato maggiore invitandoli a prendere misure di parziale mobilitazione delle truppe; misure che, se interpretate estensivamente, avviavano verso il raggiungimento di un pericoloso stadio prebellico.

Il mattino del 27 luglio, ad un mese dal tragico fatto di Sarajevo, dalla capitale russa, l’ambasciatore inglese telegrafava a Londra comunicando che il governo dello zar considerava inaccettabile l’Ultimatum austriaco alla Serbia, trovando alcune richieste lesive della dignità di uno stato indipendente. La Russia, insomma, proponeva che Inghilterra ed Italia, gli alleati dei due fronti contrapposti meno direttamente coinvolti nella questione, si interponessero nella veste di arbitri mediatori per cercare di decongestionare la crisi e di scongiurare il pericolo che si scatenasse un conflitto armato.

Attraverso la diplomazia berlinese, nella serata del 27 luglio, Londra tentò di convincere i ministri austriaci a procrastinare l’avvio delle minacciate ostilità contro la Serbia[6]. Il giorno dopo, a complicare ulteriormente la situazione, intervenne la notizia che la Russia stava mobilitando 12 corpi d’armata alle spalle dell’Impero austro ungarico. Nel caso in cui l’Austria fosse stata costretta a mobilitare le sue truppe su tutto il fronte orientale, il patto di mutua assistenza con l’alleato tedesco avrebbe indotto anche la Germania a mobilitare. La prevedibile reazione difensiva russa sul fronte occidentale tedesco, a sua volta, avrebbe attivato il trattato franco-russo, a contenuto eminentemente difensivo. La stessa Inghilterra, contraddicendo le ipotesi ottimistiche di disimpegno lungamente e colpevolmente coltivate a Berlino, il 29 luglio avvertì la Germania che l’apertura di un fronte franco-tedesco avrebbe comportato l’intervento delle forze armate inglesi al fianco di quelle francesi. Una diplomazia rigida e formale aveva innescato una vera e propria reazione a catena ormai andata tanto innanzi da passare sotto il controllo delle alte sfere militari, in modo da sfuggire ad ogni possibile mediazione della politica.

Dalla sera del 1° agosto, la Germania fu in stato di guerra con la Russia. Due giorni dopo dichiarò guerra alla Francia e, nelle prime ore del 4 agosto, varcato il confine del neutrale Belgio, le armate tedesche aggredirono la Francia procedendo da settentrione. Paradossalmente, la prima mossa, spettante all’impero austroungarico minacciato dall’impero russo, gran protettore della Serbia, venne messa in atto per ultima. Solo nel pomeriggio del 6 agosto l’ambasciatore austriaco consegnò a San Pietroburgo la dichiarazione di guerra di Francesco Giuseppe nella quale l’intervento era giustificato come misura di assistenza nei confronti dell’alleato tedesco aggredito dall’esercito russo. Il paradosso fu, dunque, che la Germania si trovò in guerra con la Russia sei giorni prima di quell’alleato in soccorso del quale andava dichiarando di essersi mobilitata[7].

La guerra lampo, che nelle intenzioni degli strateghi dell’alto comando tedesco doveva chiudere la partita sull’arco di una quarantina di giorni, tanto sul fronte orientale che su quello occidentale, si rivelò una tragica illusione. Dopo la campagna della Marna, l’11 settembre, le sette armate germaniche impegnate dai primi di agosto lungo una linea di 300 chilometri che andava dall’Alsazia al Bacino Parigino ricevettero l’ordine di ripiegare. Erano state prima ad un passo dalla vittoria e, poi, ad uno dalla ingloriosa sconfitta. Nelle settimane seguenti, il fronte si allungò dal confine della neutrale Svizzera fino al canale della Manica. Coi primi di ottobre del 1914, milioni di soldati si trovarono confinati entro un infinito labirinto di trincee, dove avrebbero combattuto una guerra, per lo più immobile, che sarebbe andata avanti sino all’autunno del 1918. La campagna limitata e breve preconizzata dagli alti comandi degli eserciti in campo, nel breve volgere di due mesi, dopo aver sacrificato centinaia di migliaia di vite umane, si era trasformata in una lunghissima, logorante guerra di posizione.

In Italia, alla fine di agosto, quando ancora l’ipotesi che il conflitto sul campo si concludesse di lì a qualche settimana non sembrava del tutto irrealistica, nell’ambiente della stampa quotidiana, ed in particolare nella redazione del «Corriere della Sera», l’unica testata letta dalla ristretta cerchia del mondo politico di allora, cominciò a fare capolino la tesi che la neutralità fosse un’attesa piuttosto che una soluzione[8] e che convenisse affrettarsi a trattare con l’alleato austriaco compensi territoriali in alto Adriatico, prima che la guerra lampo terminasse.

Alla fine di settembre, lamentando la mancanza d’informazioni sui contatti e sui passi diplomatici in corso presso i governi delle potenze occupate nella guerra, il «Corriere» ribadì che, per la sua pace e sicurezza, l’Italia aveva bisogno di espandersi, nutrendo ambizioni legittime in Africa, nei Balcani ed in Asia Minore. Ogni ora che la nazione trascorreva ai margini del conflitto diminuiva «le giuste aspettazioni»[9] del paese. V’era chi osservava: «Che sarà di noi quando, deposte le armi, i combattenti stabiliranno la figura nuova dell’Europa, quando contro i rancori profondi che la nostra neutralità ha sollevato dovremo lottare soli?»[10].

Ai primi di ottobre gli opinionisti del «Corriere» invocavano esplicitamente l’intervento contro l’Austria. La battaglia della Marna, vinta dalle truppe alleate Francesi ed Inglesi, aveva fatto tramontare il pericolo che gli imperi centrali – alleati dell’Italia neutrale – ottenessero una facile quanto rapida vittoria rafforzando l’attitudine diffusa fra i nazionalisti interventisti della penisola di stabilire il confine nord orientale al Brennero, e di conquistare Trieste e l’Istria in modo da perfezionare il controllo dell’alto Adriatico. Fin dal luglio, i militari italiani avevano attivato caute misure di mobilitazione richiamando alle armi studenti universitari che pertanto «non avevano potuto sostenere gli esami, né prepararvisi convenientemente, venendo così meno ai loro obblighi»[11].

Nell’imminenza dell’inizio del nuovo anno accademico 1914-15, e considerata la particolare situazione nella quale versavano i giovani richiamati sotto le armi, il Ministro dell’Istruzione dispose che gli studenti in grigioverde venissero iscritti «in via provvisoria all’anno successivo, a condizione che nel venturo anno superino gli esami di cui sono tuttora in debito»[12]. Nella circostanza venne presa una misura eccezionale che prefigurava la sospensione delle regole che governavano la vita universitaria e che subordinavano l’iscrizione all’anno seguente al superamento degli esami nelle due sessioni ordinarie: quella estiva e quella autunnale.

Benché, secondo l’opinione di Luigi Albertini, il direttore del «Corriere», nell’autunno del 1914 gli interventisti non fossero più di 200 persone[13], con invidiabile tempismo, fra i corsi speciali impartiti in Bocconi dai primi di novembre, corsi monografici dedicati a temi e a problemi di grande attualità tecnica e culturale, ve ne fu uno intitolato «Origini storiche e diplomatiche dell’attuale conflitto internazionale» affidato ad Enrico Catellani, professore ordinario nella Regia Università di Padova[14].

Scarseggiano le testimonianze documentarie dirette attorno al clima ideologico e nazionalistico esistente nelle aule bocconiane nell’inverno del 1914-15 e tuttavia, da altre fonti, sappiamo che proprio fra i professori e gli studenti universitari italiani la febbre interventista era singolarmente alta[15]. A distogliere i bocconiani dalle questioni internazionali e dal sempre più aspro confronto fra interventisti e neutralisti, il 9 gennaio 1915 intervenne l’improvvisa morte dell’avvocato Luigi Majno, da poche settimane[16] soltanto scelto per succedere a Leopoldo Sabbatini, col quale aveva incessantemente collaborato come membro del Consiglio Direttivo in rappresentanza del Comune di Milano a partire dalla primavera del 1904[17], e che, nel settembre 1913, aveva vittoriosamente dimostrato dinanzi al Consiglio di Stato la superiore dignità tecnico scientifica derivante da «studi posteriori e superiori» dei laureati in Scienze economiche e commerciali rispetto ai ragionieri collegiati che esercitavano la libera professione[18].

Alla fine di marzo, mentre il gruppo dirigente della Bocconi perfezionava l’elezione a Rettore del prof. Pietro Bonfante, titolare dell’insegnamento di Storia del Commercio, ordinario di Storia del Diritto romano nell’Ateneo pavese, il ministro degli esteri Sonnino, d’accordo col presidente del consiglio Salandra, intrecciava segretamente trattative tanto con l’Austria, interessata alla neutralità italiana, quanto con Francia e Gran Bretagna[19], dalle quali ci si aspettava un aiuto per redimere Trento e Trieste, per controllare l’Adriatico e per consolidare la penetrazione realizzata nel 1912 in Africa settentrionale.

Il patto di Londra, stipulato in gran segreto dal nostro ministro degli esteri il 26 aprile, impegnava il Regno d’Italia a dichiarare guerra ad Austria e Germania nel giro di un mese. Il 3 maggio l’Italia denunciò la Triplice Alleanza. I lettori del «Corriere» lo appresero solo il giorno 14[20]. Il cambio di campo era stato portato felicemente a compimento. Per indorare la pillola, i maggiori organi di stampa filo governativi accreditarono la versione che il re, nel cui cuore la «tradizione familiare ancora vibrante delle memorie risorgimentali» si era prepotentemente risvegliata, aveva impegnato il paese ad entrare in guerra contro l’Austria per portare a compimento l’unificazione della penisola. L’Italia avrebbe avuto il coraggio politico di non disinteressarsi delle sorti d’Europa e del mondo? Avrebbe maturato la consapevolezza dei propri fini al punto d’intraprendere una guerra globale? Stato formatosi di recente, essa aveva alle spalle poche, limitate ed assai brevi guerre risorgimentali, sicché risultò facile propugnare l’idea della guerra generatrice di nuove energie, del lavacro di sangue necessario fattore di una civiltà nuova. Mentre le guerre ottocentesche avevano impegnato al limite alcune centinaia di migliaia di uomini tecnicamente addestrati, la guerra moderna arruolava una massa imponente di uomini da milioni dei quali avrebbe preteso il sacrificio della vita[21].

Dal 13 al 16 maggio a Roma si susseguirono dimostrazioni anarchiche, nazionaliste ed interventiste volte ad intimidire i parlamentari convocati alla Camera per approvare l’aggressiva politica estera di Salandra e Sonnino. La piazza, nella quale alla testa d’intellettuali, professori e studenti universitari si pose Gabriele D’Annunzio, inneggiava al sovrano e irrideva il Parlamento dove nei mesi precedenti almeno otto deputati su dieci si erano dichiarati neutralisti[22]. Gli studenti, in particolare, erano convinti sostenitori dell’intervento. Con un’enfasi retorica che alla nostra sensibilità appare esagerata intellettuali e politici interventisti ambivano «a riunire in un sol fascio tutte le forze della gioventù studiosa d’Italia e provare alla Nazione con la concordia, con l’unità e la spontaneità tutta propria dei giovani, come essi sentano intensamente l’amore della Patria, e con fede ed entusiasmo concorrano a renderla forte ed a prepararle migliori destini nell’avvenire»[23].

Il 20 maggio 1915, nella votazione sull’operato del governo, che in gran segreto aveva predisposto l’entrata in guerra, 407 deputati si espressero a favore e solo 74 furono contrari[24]. Una ben orchestrata piazza anarcoide e ribellista, assieme ad una campagna di fiancheggiamento condotta dai maggiori quotidiani, aveva condizionato il voto dei parlamentari, per la prima volta eletti a suffragio universale maschile nel 1913.

Quattro giorni dopo, sotto il comando del Generale Cadorna e forti di oltre mezzo milione di uomini, le forze armate italiane cominciarono a schierarsi sul confine austriaco dove trovarono a fronteggiarle 80 mila soldati dall’imperial regio governo viennese.

Com’era già avvenuto per le truppe tedesche nelle colline della Francia nord-orientale nel settembre del 1914, bastò che passassero alcune settimane perché ci si rendesse ben conto dell’impossibilità di riportare una facile vittoria sconfiggendo rapidamente il nemico e cacciandolo dal suolo italiano. Non solo, si affacciò presto il sospetto che le truppe di Cadorna, del tutto impreparate moralmente e tecnicamente per combattere una guerra offensiva e tecnologica, non fossero nemmeno in condizione di sostenerne una meramente difensiva.


1

Cfr. «Il Corriere della Sera» del 29 giugno 1914.

2

M.A. Romani, Costruire le istituzioni. Leopoldo Sabbatini (1860-1914), Milano 1997, p. 87.

3

L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria, p. 140, citato da G.E. Rusconi, Rischio 1914, Bologna 1987, p. 53.

4

G.E. Rusconi, cit., p. 54.

5

I. Geiss (a cura di), July 1914, Munchen 1980, p. 185, citato da G.E. Rusconi, Rischio, cit.

6

G.E. Rusconi, op. cit., p. 72.

7

G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, Torino 1967, vol. I, p. 679.

8

Cfr. «Corriere della Sera», 27 agosto 1914.

9

Ibidem, 21 settembre 1914.

10

Ibidem, 22 settembre 1914.

11

Archivio Storico dell’Università Bocconi (d’ora in poi ASUB), B. 22/3, Corrispondenze col Ministero, il 17 ottobre 1914 la Segreteria del Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano avvisava quella della Bocconi della circolare ministeriale che disponeva l’iscrizione provvisoria all’anno successivo limitatamente agli studenti richiamati e per l’anno scolastico (sic) 1914-15.

12

Ibidem.

13

L. Albertini (a cura di O. Barié) , Epistolario 1911-1926, Milano 1968, vol. I, p. 280.

14

Cfr. Bollettino dell’Associazione tra i laureati dell’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano (d’ora in poi Bollettino), n. 8, gennaio 1915, p. 45. Analogamente, nella seduta del Consiglio direttivo del 23 ottobre 1912, ad un anno dall’avvio della conquista libica, il Rettore Sabbatini aveva proposto che al Catellani venisse affidato un corso di «Storia delle colonie e Diritto e Politica coloniale» spiegando che «in questo corso dovrebbesi tener conto soprattutto di ciò che nei grandi fatti del passato o ha avuto influenza nel determinare le condizioni del presente o nel presente ancora sussiste», Cfr. A. De Maddalena, L’aula e l’ufficio, il consiglio direttivo dell’Università Bocconi al lavoro, in M. Cattini, E. Decleva, A. De Maddalena, M.A. Romani, Storia di una libera Università, vol. I, L’Università Commerciale Luigi Bocconi dalle origini al 1914, Milano 1992, p. 255.

15

L. Albertini, Epistolario, cit., vol. I, pp. 312-13.

16

Bollettino dell’Associazione, ecc., cit., n. 8, p. 14.

17

A. De Maddalena, L’aula, cit., p. 185.

18

M. Cattini, Gli studenti e la loro Università, cit., pp. 356-7.

19

S. Sonnino, Diario 1916-1922, Bari 1972, vol. III, p. 365.

20

Il «Corriere della Sera», 14 maggio 1915.

21

A. Omodeo, cit., p. 13.

22

G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Milano 1979, vol. VIII°, pp. 112-114.

23

Il brano è tratto dalla circolare con la quale il Ministro dell’Istruzione Credaro aveva indetto nell’aprile del 1912 una Sottoscrizione nazionale per la Flotta aerea fra tutti gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado motivando l’iniziativa con non meno retoriche espressioni: «Nel fervore di entusiasmo e di fede che anima l’Italia, mentre i suoi figli nelle terre di Libia romanamente rinnovano le prove dell’antica virtù, è sorta e si sta attuando una generosa idea: offrire all’esercito nostro una flotta di areoplani (sic). In questa gara nobilissima la scuola prenda degnamente il suo posto, mostrando come essa, mentre conserva le tradizioni più gloriose della patria, le prepara altresì i nuovi ardimenti e le fortune novelle», Cfr. ASUB. b. 22/3, Vecchie carte Ministero Pubblica Istruzione, Circolari del 17 aprile e dell’11 maggio 1912.

24

E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, vol. 4°, tomo 3°, p. 1980.

Indice

Archivio