Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Finalmente «un centro universitario organico»?


Parole chiave: Fascismo, Politecnico, Rapporti istituzionali

Pur in un contesto in cui tutto tendeva a diventare oggetto di concessione, effettiva o sottintesa, il livello di dipendenza degli atenei milanesi dalle varie istanze di regime, dalle quali ricavare mezzi, avalli, disposizioni favorevoli, presentava, per la diversità stessa della loro fisionomia e natura, gradualità diverse.

A Gemelli, considerato l’ambito affatto speciale della sua azione e l’autonomia delle risorse impiegate, poteva a prima vista bastare che non venisse meno la legittimazione della quale godeva e che gli consentiva di proseguire senza intralci nella sua opera. Delle istituzioni universitarie milanesi, la Cattolica era in effetti quella che dipendeva meno direttamente dal beneplacito delle autorità, o che quantomeno non ne dipendeva finanziariamente: anche se sarebbe evidentemente riduttivo considerare le cose, a suo riguardo, solo in una simile prospettiva, visto come essa, al contrario, fosse parte essenziale delle ben più complesse relazioni, non riducibili a semplificazioni di comodo, tra gerarchia ecclesiastica, mondo cattolico e regime di quegli anni. Da una simile angolatura, la posta in gioco ed i rischi conseguenti erano per l’ateneo di Piazza Sant’Ambrogio semmai più alti e densi di implicazioni: così come, del resto, gli elementi di coinvolgimento e le motivazioni relative.

Della Bocconi, oggetto specifico del presente volume e dei contributi che seguono, non è il caso che ci si soffermi qui: ma era in ogni modo evidente, per quel che la riguardava – a parte i risvolti culturali e didattici derivanti dalla necessità di fare i conti con il corporativismo e, successivamente, con la politica autarchica del regime – che il problema per essa tanto importante della nuova sede non si sarebbe risolto senza interventi esterni.

Per l’Università e per il Politecnico, il cui grado di dipendenza era tanto maggiore, il nodo era assolutamente decisivo. Entrambi gli istituti avevano reagito, come si è visto, all’insufficienza dei contributi statali, trovandosi delle alternative: negli enti locali la prima, nei finanziamenti esterni e negli apporti del mondo industriale il secondo. I rispettivi assetti degli ultimi anni si erano appunto basati sui flussi di finanziamenti ottenuti in quel modo. Ma non era detto né che la situazione si perpetuasse in quei termini, né, soprattutto, che quanto ottenuto per quella via in forma ordinaria fosse sufficiente alle esigenze complessive, e tanto più di fronte al vistoso incremento in atto nelle iscrizioni. Nel 1939 l’Università avrebbe ospitato 3460 iscritti in corso e 458 fuori corso, con un incremento del 23,3% in cinque anni. Alla medesima data il Politecnico sarebbe giunto a contarne 1599, con una crescita nell’ultimo quinquennio addirittura del 43,1%, e, questo, nonostante i filtri frapposti ai «dilettanti studenti d’un antico e pur persistente tipo romantico; tipo deplorevole, incompatibile col clima del Fascismo, il quale vuole costanza di operosità, puntualità, disciplina»[1]. E non era, naturalmente, solo un problema di studenti cresciuti di numero troppo in fretta. Una delle realizzazioni per le quali Fantoli andò più orgoglioso fu quella del nuovo Laboratorio di Idraulica, tutto autofinanziato grazie ai contributi della Fondazione politecnica, dell’AEM, del CNR e del costruttore Girola: ma per fargli spazio fu necessario coprire un altro cortile. Anche all’ampliamento dell’Istituto di Chimica industriale diretto da Mario Giacomo Levi si riuscì ancora a provvedere: ma non esistevano proprio più margini, mentre risultavano sempre meno sostenibili le condizioni della Facoltà di Architettura, nonostante il numero dei suoi iscritti si mantenesse su livelli contenuti.

Quanto all’Università, si è visto come dall’intervento del rettore Livini alla cerimonia del 24 novembre 1934 emergesse una situazione di pieno affidamento e assolutamente senza ombre. In altre e diverse occasioni lo stesso Livini si era espresso in maniera meno univoca. Per esempio illustrando al Consiglio d’amministrazione, nel febbraio 1933, le risultanze del conto consuntivo dell’anno prima, l’aveva definito «abbastanza soddisfacente», ma solo perché varie cattedre erano rimaste ancora vacanti. Quando – al più presto, viste le esigenze – si fosse dovuto far fronte anche ai relativi impegni, l’alternativa si sarebbe imposta: «Bisognerà allora avere il coraggio di guardare bene in faccia le cose: o si vuole che la nostra Università vivacchi alla meglio, indegna della grande Milano, e si lascino le cose come sono; o si vuole che essa continui nel magnifico suo cammino ascensionale e allora bisogna provvedere»[2]. La nuova convenzione con gli enti locali del settembre 1934 non aveva modificato, se non molto parzialmente, la situazione. Anche l’incorporazione di Medicina veterinaria non apportò per il momento varianti, visto che il relativo contributo statale compensava all’incirca le spese (ma si riteneva che queste avrebbero presto superato le entrate). La principale novità era costituita dall’incremento, che venne allora deciso, dell’organico: 4 posti a Scienze, per sanarne parzialmente l’originaria situazione di inferiorità, e un posto ciascuno a Lettere, Giurisprudenza e Medicina. Nell’aprile 1935 giunse peraltro notizia della riduzione di 100 mila lire del contributo statale. Due mesi più tardi interveniva il decreto del ministro De Vecchi che, oltre ad aggregare l’Istituto superiore di Agraria all’Università, aboliva le distinzioni in atto dal 1923 tra Università di tipo A e di tipo B, trasferendo allo Stato la competenza dei contributi sin lì concessi dagli enti locali. Per l’Università milanese ciò avrebbe in pratica comportato (una volta che entrò in vigore il decreto attuativo del settembre successivo) non provvedere più alla diretta retribuzione dei professori in ruolo, assunta da allora in poi direttamente dall’amministrazione centrale. Quest’ultima conferiva un ulteriore contributo, ma equivalente all’entità complessiva di quanto concesso in precedenza da Stato ed enti locali, detratti gli oneri per i professori, senza aggiunta alcuna.

A sancire formalmente per l’Università degli Studi l’epiteto – in genere non molto gradito da chi attualmente vi opera, per le implicazioni di vario tipo che gli si collegano – di «Statale» avrebbe provveduto la Repubblica Sociale, non volendo più riconoscere il titolo di «Regia» adottato sin lì per distinguerla dalle altre. Ma si può dire che il concetto sia nato allora, tra il 1935 e il 1936, anche se non se ne avvertì la portata, sia perché inizialmente le nuove disposizioni non comportarono varianti sul piano finanziario, sia perché non le si ritennero preclusive di eventuali ulteriori interventi degli enti locali, e in primo luogo del Comune, in caso di necessità. Per l’amministrazione comunale, gravata da una situazione finanziaria assai pesante, la liberazione da quel gravame, legato a circostanze tanto particolari, fu in ogni caso la benvenuta. La possibilità di nuovi apporti non era d’altronde affatto esclusa. Che, come vedremo subito, questi non si concretassero non rimase tuttavia senza conseguenze. Quella che si verificò allora fu veramente una soluzione di continuità destinata a pesare, e non poco, sul poi, sulla connotazione, appunto, da allora in avanti tutta «statale» del più grande ateneo cittadino.

Non che da parte fascista non si avvertisse, a quel punto, l’esistenza, per Milano, di un «problema universitario», da affrontare con caratteri di priorità: magari addirittura sul modello della grande Città universitaria romana, realizzata in appena tre anni, inaugurata da Mussolini nel novembre 1935. A giocare irreparabilmente a sfavore del progetto milanese sarebbero stati, più delle intenzioni, i tempi, che dirottarono in tutt’altra direzione i finanziamenti necessari.

Dimessosi nell’ottobre 1935 Livini, il nuovo rettore, il patologo Alberto Pepere (proveniente, come tutti i predecessori, dalla Facoltà di Medicina), annunciò nell’aprile successivo al Consiglio d’amministrazione gli «ordini» ricevuti dal ministro circa la sede definitiva dell’Università. La consegna era che si ritornasse al progetto originario della Città degli Studi. Presente alla seduta, il podestà Pesenti annunciò l’avvenuto acquisto da parte del Comune di «vaste zone di terreno» in quella zona da destinare al progetto. Pepere spiegò anche come le spese di costruzione sarebbero state assunte da un nuovo Consorzio, ma con tempi di realizzazione inevitabilmente lunghi. L’intenzione era dunque di provvedere intanto, nell’ambito degli spazi a disposizione, a sistemazioni e adattamenti che rendessero meno disagiate e precarie le situazioni, in particolare di alcuni istituti di Scienze. Se gli avanzi non fossero stati sufficienti a coprire le spese, la «confortante esperienza» sin lì fatta lasciava sperare che gli enti locali non si sarebbero tirati indietro[3].

L’avvento di Bottai al posto di De Vecchi accelerò la gestazione del progetto maggiore. Nel febbraio 1937 il ministro presiedette una riunione – presenti, oltre a Pepere, il prefetto Motta, il podestà Pesenti, il preside della Provincia Belloni, il commissario per l’assetto degli Istituti superiori Pantaleo, il direttore generale dell’Istruzione superiore Giustini – «per definire in via di massima il problema del completo assetto edilizio degli Istituti Superiori di Milano». Esaminata la questione, venne riconosciuta la necessità «di riunire tutti gli Istituti universitari, comprese le Cliniche, nella Città degli Studi, attuando così il concetto di creare anche per Milano un grande centro di studi superiori». Fu stabilita anche la localizzazione: «Nel comprensorio di aree sito al di là della via Ponzio verrebbe costruito il grande Policlinico, mentre il Rettorato e le Facoltà di Giurisprudenza e di Lettere troverebbero degna sede in un grande edificio da erigersi verso la piazza Leonardo da Vinci»[4]. Oltre che per le Facoltà umanistiche, erano in realtà previsti nuovi fabbricati anche per la Chimica, la Fisica e la Matematica, la Fisiologia umana, la Fisica generale, la Chimica biologica, la Psicologia sperimentale, la Farmacologia, l’Igiene e la Patologia generale. L’assetto di massima delineato dall’architetto Pier Giulio Magistretti prevedeva una volumetria complessiva di circa 320 mila metri cubi.

Preoccupatissimo – non appena ebbe notizia del progetto – dell’eventualità di restarne fuori e che tutti i terreni liberi andassero all’Università, Fantoli avanzò la richiesta che anche il Politecnico, «massimo Ateneo tecnico della Nazione» e «organo dello Stato per delicati importanti incarichi scientifici e tecnici intesi tenacemente alla invocata integrale autarchia»[5], fosse tenuto presente, in modo da ottenere l’assegnazione di un’area di 22 mila metri quadrati a nord della via Bonardi, ove intanto realizzare la sede della Facoltà di Architettura. Ma ad andare avanti fu per il momento il piano Università-Policlinico. Investito da Bottai della questione, Mussolini consentì, dettando le sue direttive: si trattava di «dare a Milano un centro universitario organico, raccolto, che la metta in condizioni d’assolvere alla sua funzione culturale in ogni campo dell’attività nazionale». Al presidente della Cassa di Risparmio De Capitani d’Arzago venne assegnato il compito di studiare il piano finanziario, predisponendo in particolare, con la dovuta riservatezza, la partecipazione «dei grandi Istituti finanziari milanesi». L’idea di Bottai era che, una volta presentate le conclusioni al duce entro la primavera 1938, i lavori potessero iniziare al principio dell’anno successivo[6]. Le cose procedettero meno rapidamente, soprattutto per le implicazioni legate al nuovo Policlinico e ad alcune divergenze tra De Capitani e Pepere circa le dimensioni e le caratteristiche che avrebbero dovuto connotarlo. La convenzione costitutiva del Consorzio tra Stato, Comune, Provincia e Istituti Ospitalieri fu pronta solo nel marzo 1939. Si prevedevano costi per circa 246 milioni, escludendo gli arredi: un po’ più di 71 per gli edifici universitari, quasi 113 per il Policlinico, il restante per le aree, le sistemazioni stradali ed i servizi. Al finanziamento avrebbero dovuto provvedere gli enti locali per 92 milioni, lo Stato per 155. Mussolini concesse «la Sua alta approvazione all’iniziativa», riservandosi di esaminare «particolareggiatamente il progetto e di dargli il via» in occasione di una sua prossima venuta a Milano, prevista per l’autunno[7]. Al neo prefetto di Milano Marziali, Bottai raccomandò di curare che nel programma della visita in questione fossero riservato «almeno trenta minuti» per l’esame del piano[8].

Sul fronte del Politecnico, Fantoli insisteva a sua volta. Alla fine di agosto, dall’Ospedale di Varese dov’era ricoverato (si sarebbe spento di lì a pochi mesi), egli scriveva direttamente al «Duce eccelso» affinché le sue «modeste domande, già in massima più volte approvate dall’alto e degno Gerarca della Educazione nazionale, abbiano finalmente una risoluzione immediata». Il provvedimento richiesto (la concessione dell’area e dei 5 milioni necessari per il fabbricato di Architettura) era «urgentissimo»:

 

So dei giusti e grandi impegni presi per il R. Politecnico di Torino: ma con orgoglio debbo e voglio ripetere che il nostro Politecnico è più che doppio per efficienza numerica, per crescente dinamico sviluppo degli iscritti, per attrezzature di Laboratori e di Costruzioni che importarono molte decine di milioni da noi raccolti con inesausta fatica. Ora Milano deve essere aiutata. Qui il binomio fede e forza è realtà e se il G.U.F. di Milano è ben da otto anni Littore, la massima parte del merito spetta al R. Politecnico, come le statistiche che cito di anno in anno provano ad evidenza, anche se molto modesta è la grida che si fa qui al grande Ateneo tecnico nella città del Fascio primogenito[9].

 

Gli eventi dell’autunno 1939 avrebbero fatto annullare la prevista visita di Mussolini a Milano. «Ai riti inaugurali universitari» milanesi del 15 novembre – prima al Politecnico, dove, al posto di Fantoli, parlò l’allora prorettore Cassinis, e quindi nell’aula magna di Corso Roma – presenziò bensì Bottai: ma senza poter dare alcun annuncio. Pepere gli espresse nell’occasione riconoscenza e gratitudine per il «fervido interessamento» dimostrato. Ma aggiungendo anche che il programma, pur «portato fino all’approvazione delle più alte gerarchie del Regime», non aveva fino ad allora trovato tempi «del tutto favorevoli alla sua realizzazione»[10]. Inutile sottolineare come quello che non era stato possibile compiere tra guerra d’Etiopia, guerra di Spagna e «conquista» dell’Albania, quando, come diceva Pepere, aveva dovuto tacere, «in fiduciosa attesa, ogni altra voce che non fosse quella del prestigio delle nostre armi», sarebbe risultato anche meno facilmente praticabile nelle temperie imminenti. Né avrebbe avuto per il momento miglior fortuna il Politecnico con riguardo al più modesto e distinto progetto riguardante l’area di via Bonardi.

Tutt’altro che irrilevante rispetto alla ripresa post-bellica, la mancata risoluzione dei problemi edilizi dei due atenei pubblici milanesi (in situazione di inferiorità rispetto alla Cattolica che vi aveva provveduta per prima e alla Bocconi che lo stava facendo) non costituiva d’altra parte, a quel punto, neppure per quanti, al loro interno, dovevano subirne le dirette conseguenze, la preoccupazione maggiore.

 


1

Così Fantoli nella Relazione del 15 novembre 1937, in R. Politecnico di Milano, Annuario Anni accademici 1937-1938, 1938-1939, Milano 1939, pp. 13-14.

2

AUSM, Verbali del Consiglio d’amministrazione, seduta del 13 febbraio 1933.

3

AUSM, Verbali del Consiglio d’amministrazione, seduta del 23 aprile 1936.

4

«Per la sistemazione edilizia degli Istituti universitari di Milano» [13 febbr. 1937], copia in ACS, Min. Pubbl. Istruz., Dim gen. Istruz. sup., Div. III, 1923-45, b. 23.

5

G. Fantoli al podestà di Milano G. Pesenti, 2 marzo 1937, copia in ACS, Min. Pubbl. Istruz., Direz. gen. Istuz. sup., Div. III, 1923-45, b. 24. Sull’incidenza della politica autarchica sull’atteggiamento dell’ambienti del Politecnico verso il regime cfr. R. Maiocchi, Ingegneri; cultura, fascismo, in Il Politecnico di Milano, cit., vol. I, pp. 205-231; Id., L’attività di ricerca nel Politecnico di Milano tra le due guerre, in Storia in Lombardia, IX (1989), pp. 33-53.

6

G. Bottai a G. Capitani d’Arzago, 10 novembre 1937, copia in ACS, Min. Pubbl. Istruz., Direz. gen. Istruz. sup., Div. III, 1923-45, b. 23.

7

Bottai al rettore Pepere, «Riservata alla persona», 26 luglio 1939, copia ivi.

8

Bottai al prefetto Marziali, 11 agosto 1939, ivi.

9

Fantoli a Mussolini, Varese, 27 agosto 1939, copia incompleta in ACS, Min. Pubbl. Istruz., Direz. gen. Istruz. sup., Div. III, 1923-45, b. 24.

10

Regia Università degli Studi di Milano, Annuario Anno accademico 1939-1940, Milano 1941, pp. 3-4.

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