Parole chiave: Milano, Rapporti istituzionali
Storia della Bocconi
1915-1945. Tra le due guerre
La proposta di Mangiagalli fu in effetti accolta e toccò a Novati pronunciare il 15 novembre 1909 il discorso inaugurale, impostato, nella prima parte, come una forte rivendicazione della consistenza e dell’importanza del gruppo di istituti superiori sorti in città, «nel giro di otto o nove lustri (…) quasi dal nulla», e «non già grazie ad un incessante, premuroso e poderoso concorso dello Stato, bensì quasi all’insaputa di esso, certo senza verun aiuto straordinario da parte sua, mercé l’iniziativa di Enti locali ed i spontanei soccorsi di benemeriti cittadini»[1]. Era appunto l’«esuberanza di vita», di cui si aveva dato variamente prova, a far ora avvertire in tutta evidenza la sproporzione tra potenzialità ed esigenze da un lato, effettive condizioni operative dall’altro. Il Politecnico soffocava nel vecchio palazzo della Canonica in piazza Cavour, da dove aveva preso le mosse: ma con gli studenti nel frattempo saliti dai cinque dell’esordio ai duecentoventi del solo primo anno, e senza alcuna possibilità di ospitare gli indispensabili laboratori. Si lamentavano parimenti delle rispettive sedi, oltre che delle dotazioni troppo modeste, la Scuola di Medicina veterinaria, ospitata nell’ex convento di Santa Francesca Romana, a Porta Venezia, e quella di Agricoltura, a sua volta costretta entro l’ex convento e poi caserma dell’Incoronata in via Marsala, ancora priva di un’azienda agraria o di campi sperimentali ove far fare pratica agli allievi. Quanto all’Accademia scientifico-letteraria, i vincoli che ne impedivano l’espansione erano, più ancora che di spazi, di fondi e di organico, legati ad una visione persistentemente miope e riduttiva delle sue funzioni, che non erano solo di preparare insegnanti per le scuole secondarie, ma anche di contribuire, «dentro i limiti delle proprie forze, a serbare ed accrescere all’Italia quell’onorevole luogo che le appartiene nel movimento intellettuale delle nazioni civili». Senza trascurare l’ulteriore obiettivo di trasformare la Scuola di lingue, creata nel 1880 come una sezione della Scuola di Magistero, in una vera Facoltà di Filologia moderna, in vista dell’auspicato inserimento tra le materie della scuola secondaria delle lingue straniere e della conseguente formazione degli insegnanti relativi[2].
Il primo passo che Novati proponeva, per cominciare ad ovviare al disagio diffuso, era quello, particolarmente caldeggiato anche da Mangiagalli, dell’«associazione». Una formula che non implicava peraltro la fusione o la perdita di individualità delle strutture esistenti, e tanto meno il loro inserimento in «un immane organismo universitario». Corrispondeva al contrario al vivo «senso della modernità», connaturato agli Istituti superiori milanesi, la consapevolezza
che l’avvenire è riserbato non già ad istituzioni scientifiche imprigionate dentro un’immobile forma unitaria, ma ad altre capaci di esplicarsi liberamente, sotto diversi aspetti, a seconda degli ideali e dei bisogni dei luoghi, dove sorgono e si sviluppano[3].
L’inaugurazione comune del 1909 non rimase un episodio a sé stante. Nel marzo 1911, frutto dei contatti nel frattempo proseguiti, i responsabili delle sei istituzioni superiori cittadine (oltre a Mangiagalli e a Novati, Giovanni Celoria per l’Osservatorio astronomico di Brera, Giuseppe Colombo per l’Istituto tecnico superiore, Guglielmo Körner per la Scuola superiore di Agricoltura, Nicola Lanzillotti Buonsanti per quella di Medicina veterinaria) diffusero una circolare con la quale si gettavano le basi per la costituzione «d’una Associazione la quale, raccogliendo i suoi aderenti fra le persone colte della cittadinanza, prosegua rigorosamente un duplice, nobilissimo fine: dia cioè un efficace impulso all’alta coltura milanese; promuova il collegamento, l’incremento e la prosperità di quegli Istituti superiori che di detta cultura appunto sono focolari fecondi e luminosi»[4]. Intervistato il giorno dopo dal «Corriere della sera», Mangiagalli spiegava come primo scopo dell’erigenda associazione sarebbe stato quello «di fornire la spinta e l’aiuto morale perché accada il collegamento e il completamento degli Istituti che già oggi esistono in città», dando vita tra loro, e con l’apporto degli enti locali, ad un nuovo e più adeguato Consorzio, di cui avrebbero dovuto naturalmente far parte anche gli Istituti clinici. Un Consorzio da concepirsi nella chiave, già accennata, di «Università politecnica», salvaguardando l’autonomia dei singoli enti che sarebbero entrati a farne parte. Per quel che riguardava più in particolare gli Istituti clinici, l’obiettivo dichiarato di Mangiagalli era di estenderne vieppiù le competenze e le specializzazioni, puntando sulle iniziative che, sempre per merito suo, erano già in via di realizzazione o in fase di progettazione, come la nuova Clinica pediatrica e l’Istituto per i tumori. Parallelamente rimaneva ai suoi occhi centrale il problema dell’Ospedale Maggiore e delle nuove cliniche di cui esso avrebbe dovuto dotarsi. Nella visione di Mangiagalli, modernizzazione delle strutture sanitarie e creazione di adeguati canali per la formazione dei quadri medici facevano tutt’uno, mettendo capo ad una considerazione organica e fortemente collegata del complesso delle istituzioni ospedaliere cittadine. Fermo restando il carattere post-universitario da attribuire loro, l’auspicio, neppure troppo larvato, era che Pavia prendesse comunque atto della nuova situazione, non solo accettando la divisione delle parti che ne derivava, ma sviluppandola ulteriormente, riservando cioè alla propria Facoltà medica i primi quattro anni di corso e cedendo agli Istituti clinici milanesi gli studenti del quinto e del sesto anno, ciò che sarebbe equivalso a dar vita ad un’unica «Facoltà medica lombarda», articolata su due poli. Una questione che Mangiagalli riconosceva peraltro come non ancora matura e da risolversi in ogni caso con «una cordiale intesa» tra le due città interessate[5].
Il risultato più immediato dell’iniziativa dei sei direttori delle scuole superiori cittadine – la Bocconi, auto-sufficiente e a sé stante, non faceva parte del gruppo – fu l’effettiva costituzione della progettata Associazione, presieduta dall’ex-sindaco Ettore Ponti, alla testa di un Consiglio direttivo comprensivo di esponenti di spicco sia della Milano finanziaria ed industriale, come Giovan Battista Pirelli, Luigi Della Torre, Cesare Mangili, sia dei rappresentanti delle varie aree politiche, dai liberali ai radicali ai cattolico-moderati. L’impegno pressoché esclusivo nella primissima fase di attività fu costituito dalla ricerca di una soluzione finalmente organica ed adeguata al problema denunciato con tanta decisione da Novati nella sua prolusione del 1909. Ponti, nel corso dell’assemblea del giugno 1912, spiegò come, «quasi a simboleggiare i vincoli unitari in cui si rinnovano i vari rami del sapere», si intendessero collocare tutti gli Istituti cittadini «in sedi riunite ed acconce, come a dire costituire un nuovo glorioso studio milanese»[6].
Un immediato sostegno venne dalla Giunta comunale guidata dal sindaco Emanuele Greppi, che si impegnò a destinare al progetto un’area di 150 mila metri quadrati alle Cascine Doppie, alla periferia nord-orientale della città. Altri 15 mila metri quadrati, vincolati alla realizzazione del nuovo Orto botanico, furono garantiti dai Fratelli Ingegnoli, proprietari di una nota ditta di sementi e prodotti agricoli. Provincia e Camera di Commercio promisero a loro volta un concorso finanziario. Nel maggio 1913, grazie anche all’abilità di Giuseppe Biraghi, il funzionario inviato a Milano dal ministro della Pubblica istruzione Credaro perché seguisse la pratica e ne facilitasse il buon fine, venne firmato a Roma l’atto costitutivo del Consorzio incaricato di provvedere alla realizzazione dei nuovi edifici dove ospitare in modo adeguato l’Istituto tecnico superiore, l’Accademia di Belle arti, le Scuole superiori di Agricoltura e di Medicina veterinaria, l’Accademia scientifico-letteraria, l’Osservatorio astronomico, i nuovi Istituti di Anatomia e di Patologia da annettere agli Istituti clinici di perfezionamento, l’Orto botanico. Rispetto ad una spesa complessiva, preventivata in poco meno di 14 milioni, lo Stato si impegnò a contribuire con 5 milioni e mezzo, ai quali si sarebbero aggiunti altri 2 milioni e 100 mila lire, derivanti dalla vendita al Comune degli edifici demaniali al momento occupati da alcuni istituti superiori. Oltre che per tale acquisto e per il conferimento gratuito dell’area, il Comune si impegnò per 3 milioni e mezzo. La Cassa di Risparmio mise a disposizione un milione; poco meno di mezzo milione la Provincia, mentre la Camera di Commercio si obbligò al versamento di una somma annuale per settant’anni. Il ricorso allo strumento del Consorzio, suggerito da Biraghi, avrebbe comportato, fra gli altri vantaggi, di non far soggiacere l’esecuzione del progetto alle procedure onerose e defatiganti previste per i lavori pubblici compiuti in tutto o in gran parte con finanziamenti statali[7].
In Consiglio comunale, quando, a metà maggio, venne all’ordine del giorno la proposta di convenzione, non mancarono le voci contrarie, in particolare da parte della minoranza socialista, ostile ad un impegno di tanta entità per una funzione che avrebbe dovuto essere perseguita semmai dallo Stato, senza oneri per gli enti locali, e che avrebbe comportato – si disse – il sacrificio di altri e più urgenti bisogni, di pertinenza diretta, quelli sì, dell’amministrazione comunale. Un’obiezione alla quale replicò con particolare calore, fra gli altri, l’astronomo Celoria, che era anche consigliere comunale, il quale mise in risalto come le «grandi istituzioni universitarie» non potessero, al contrario, «sorgere e consolidarsi se non per iniziativa locale». Milano, se voleva restare, secondo il vecchio e sempre valido monito di Cesare Correnti, «città grande e civile», doveva «avere la forza di assumere da sé stessa l’iniziativa»: così come aveva del resto già fatto «per l’Università Bocconi»[8]. Dubbi su singoli aspetti degli accordi vennero altresì sollevati anche da altri settori, preoccupati soprattutto per la mancanza di garanzie ove i costi fossero lievitati rispetto ai preventivi; ma al momento finale la maggioranza si ricompose, lasciando che fossero i soli socialisti a differenziarsi, votando un loro ordine del giorno presentato da Caldara, che non fu approvato. Successivamente la minoranza si astenne sulla mozione finale, presentata da Massarani e passata a larga maggioranza, che approvava la convenzione, ma con l’impegno a sottoporre nuovamente al Consiglio il progetto esecutivo, quando fosse stato pronto, e le eventuali varianti[9].
Limitandosi a dotare di una nuova e più adeguata sede gli istituti esistenti, la convenzione non toccava il problema della loro eventuale evoluzione e trasformazione. Un ennesimo baluardo ad ogni ipotesi in quel senso veniva in ogni caso eretto da Golgi in Senato il mese successivo, quando fu discusso un provvedimento che concedeva un incremento di organico agli Istituti clinici. Oltre ad esprimere alcune riserve di merito (i posti erano in realtà già stati creati per iniziativa autonoma degli Istituti milanesi su propri fondi, ed ora ci si limitava a regolarizzare lo stato di fatto, concedendo agli interessati il rango di universitari, senza passare dai canali ordinari), Golgi sollecitava il ministro Credaro a pronunciarsi sulla questione di fondo, e cioè sul fatto che «in tutti i circoli universitari» si parlasse «senza veli di una subdola azione diretta a far sorgere a poco a poco in Milano altri Istituti universitari e in prima linea, ora, una nuova Facoltà medica». Favorevole, al caso, a dare il proprio voto per l’eventuale creazione di una nuova Università a Bari (opportuna, a suo dire, «non soltanto per ragioni scientifiche, didattiche e di elevazione di coltura nelle provincie del Mezzogiorno d’Italia, ma anche per intuitive ragioni di ordine politico»), Golgi manteneva la sua drastica opposizione all’ipotesi che essa potesse invece sorgere «a 25 o 30 minuti da Pavia», uno degli atenei italiani nei quali si lavorava «con maggiore alacrità e serietà di intenti», «vera Università lombarda», per la quale la città aveva fatto «i maggiori sacrifici economici» in modo da fornirla «di tutti i mezzi di studio, scientifico e pratico, che dal progresso della scienza sono imposti»[10]. Antico studente del Collegio Ghisleri, Credaro non si tirò indietro, dando la piena garanzia di cui il suo autorevole interlocutore andava in cerca. Nessuno in Lombardia – disse – avvertiva il bisogno di una nuova Facoltà di Medicina e tutti i lombardi provavano «grande affetto» per la loro «antica Università». Un sentimento peraltro condiviso, a suo parere, anche dai milanesi:
vi può essere qualche eccezione, ma questo non potrà costituire la regola; anzi credo che la tranquilla Pavia, in genere, sia più adatta agli studi, che non la rumorosa ed industriale Milano. Siano a Milano gli Istituti che debbono alimentare le industrie e i commerci, ma non siano quelli che hanno bisogno di raccoglimento e di meditazione[11].
Chiusa per il momento a quel livello la questione, i due anni successivi trascorsero nella risoluzione di problemi tecnici ed organizzativi e nella predisposizione dei progetti esecutivi per la nuova «Città degli Studi», opera degli architetti Augusto Brusconi e Gaetano Moretti. La posa della prima pietra, alla presenza del presidente del Consiglio Salandra, ebbe luogo il 6 novembre 1915. Nel frattempo i socialisti, guidati da Emilio Caldara, avevano conquistato Palazzo Marino e l’Italia era entrata in guerra. La prima circostanza non incise di per sé sull’andamento del progetto; non così la seconda, che impedì che i lavori avessero realmente inizio, concedendo ai pavesi un tempo maggiore per studiare le eventuali contromosse.
↑ 1
F. Novati, Gli Istituti Superiori di Milano ed il loro avvenire, in R. Accademia scientifico-letteraria, Annuario per l’anno scolastico 1909-1910, Milano 1910, pp. 25-26.
↑ 2
Ivi, pp. 33-34.
↑ 3
Ivi, pp. 35-36.
↑ 4
«Corriere della sera», 14 marzo 1911, Per l’alta coltura milanese.
↑ 5
«Corriere della sera», 15 marzo 1911, c. l., Il vasto programma d’azione di una Università politecnica milanese esposto dal senatore prof. Mangiagalli.
↑ 6
«Corriere della sera», 23 giugno 1912, Il riordinamento degli Istituti Superiori di studio. L’opera dell’Associazione di «Alta cultura».
↑ 7
Su tali aspetti cfr. la rievocazione dello stesso interessato: G. Biraghi, La fondazione della Università di Milano, Milano 1929, pp. 124 e sgg.
↑ 8
Cfr. Atti del Comune di Milano. Annata 1912-1913, Parte prima, Milano 1914 (seduta ordinaria del 16 maggio 1913), p. 803.
↑ 9
Ivi, seduta del 20 maggio 1913, pp. 828-832. E cfr. A. Ferrari, La Città degli Studi e il dibattito per la sua attuazione, in Aa.Vv., Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), vol. I, Milano 1988, pp. 125-135.
↑ 10
Atti Parlamentari. Senato del Regno, Discussioni, Leg. XXIII, 1a Sess. 1909-1913, Tornata del 17 giugno 1913, pp. 11714-11715.
↑ 11
Ivi, p. 11715.
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Prefazione
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Milano città universitaria
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«Bocconi über Alles!»: l'organizzazione della didattica e la ricerca (1914-1945)
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L'aula e l'ufficio: il consiglio direttivo dell'Università Bocconi al lavoro (1915-1945)
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Gli studenti e la loro università nei trent'anni da una guerra all'altra (1915-1944)
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Appendice