Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Un «fraterno rito inaugurale»…


Parole chiave: Rettore Del Vecchio Gustavo, Rapporti istituzionali, Fascismo, Guf

Nel novembre 1934, in vista delle imminenti cerimonie previste in tutti gli atenei per l’inaugurazione del nuovo anno accademico, il ministro Ercole diede disposizione che nelle sedi dove erano operanti più università o istituti superiori la cerimonia potesse essere unica; avrebbe dovuto essere in ogni caso unica, e con svolgimento presso la Regia Università di ciascuna sede, la parallela manifestazione di carattere militare legata all’avvio dei corsi allievi ufficiali di complemento organizzati dalla Milizia universitaria[1]. A Milano si preferì in effetti riunire le inaugurazioni in una sola cerimonia, convocata al Castello Sforzesco. Nessuno naturalmente rilevò che una analoga seduta comune si era svolta venticinque anni prima in quel medesimo luogo, né che l’occasione era servita a Francesco Novati per porre, a nome dei direttori degli Istituti superiori milanesi allora esistenti in città, il problema di un loro rinnovamento e potenziamento. Aveva in effetti preso le mosse da lì, come si è avuto occasione di rilevare, l’Associazione per lo sviluppo dell’alta cultura, premessa della realizzazione della Città degli Studi. Ma a chi poteva importare, a quel punto e in quel contesto, di ricordare simili precedenti?

Il sistema universitario cittadino si era in realtà costituito, con gli aspetti affatto particolari che lo contraddistinguevano, ancora entro le coordinate della vecchia Italia liberale: era accaduto per il Politecnico e per la Bocconi; ma anche la data di nascita, se non quella del riconoscimento, della Cattolica era antecedente la marcia su Roma. Quanto alla Regia Università, solo lo sbocco finale era intervenuto dopo quel termine, ma in una fase ancora di trapasso tra l’uno e l’altro periodo: e si sono d’altronde citate le parole di Mangiagalli, ancora nel novembre 1925, a favore di alcune almeno delle tradizionali libertà accademiche. Da allora il clima era notevolmente cambiato. Ancora in minoranza sin lì, il Guf aveva acquisito il pieno controllo della rappresentanza studentesca grazie alla costituzione della Federazione universitaria milanese e alla liquidazione forzata delle preesistenti strutture associative. Parallelamente erano cresciute le spinte, accompagnate da qualche concreta iniziativa, a non lasciare più a loro stessi i professori. Riguardava anche l’università il trapasso di denominazione del Ministero competente, che dal settembre 1929, a sancirne le mutate funzioni, era stato battezzato «dell’Educazione nazionale».

Che a Milano, nell’ottobre 1931, di tutti i docenti in servizio nelle università pubbliche, solo due (il filosofo Piero Martinetti e Giuseppe Antonio Borgese, all’epoca già in America) si fossero sottratti all’obbligo, allora imposto, del giuramento, non significava che tutti gli altri si identificassero entusiasticamente e senza riserve nel fascismo vittorioso e nei suoi ideali. Persino Fantoli aveva ammesso nel novembre 1932 che neanche il Politecnico era ancora del tutto «immune dalle gelide zone e dagli angoli morti del placido agnostico egoismo dei non pochi che stanno in disparte a vedere». Beninteso aggiungendo che, dovute «essenzialmente a pigrizia» anche tali zone dovevano assolutamente «scomparire o ridursi ai lembi irreducibili, certo minimi ed affatto trascurabili»[2].

Al di là di qualche approfondimento specifico, la storia dei rapporti tra ambienti universitari milanesi e fascismo presenta ancora vaste zone d’ombra: e tanto più quando si voglia passare dal piano delle notazioni generali a quello delle analisi particolari di singole figure o gruppi. Autoassoluzioni o mutamenti d’atteggiamento successivi si sono sovente ripercossi su ricordi e memorie retrospettive, distorcendone i connotati. Sempre difficile, la misurazione storica di sentimenti, attitudini psicologiche, opinioni, convincimenti intimi, lo diventa tanto di più in situazioni nelle quali non vi sia parità di condizioni nelle espressioni relative. L’avversione o anche solo la semplice indifferenza lasciano, in simile contesto, tracce molto minori; le dichiarazioni di consenso possono per contro anche essere solo poco più di atti dovuti, il segno dell’avvenuta assuefazione, uno scotto da pagare, se si coltiva qualche ambizione, o se, semplicemente, non si vuole restare tagliati fuori da carriere ed impieghi, perché così impongono i tempi. Senza dimenticare le possibili oscillazioni e la labilità della stessa distinzione nelle tre aree canoniche, dei fascisti, degli afascisti e degli antifascisti, i cui confini (secondo i ricordi di un testimone) erano da considerarsi anche a Milano, «grazie a flussi e riflussi, (…) sempre piuttosto incerti»[3]. Sarebbe d’altra parte limitativo e fuorviante ridurre l’orizzonte delle esperienze effettivamente vissute e dei relativi canoni di comportamento a quella semplice tripartizione. Anche in chi aderiva senza riserve al fascismo potevano operare meccanismi di giudizio di diversa origine, magari legati – per restare all’ambiente del quale si sta trattando – ad un persistente rispetto dei meriti e delle capacità nella valutazione di colleghi o di allievi[4]. Così come non va naturalmente trascurato, sul piano dei singoli itinerari biografici, sia che ci si riferisca a professori (vari dei quali avevano fatto in tempo a formarsi in un altro clima, e sia pure, ovviamente, reagendovi diversamente), sia che si considerino gli studenti (che non avevano invece potuto avere altre esperienze dirette), l’effettivo innescarsi degli avvenimenti e delle relative ripercussioni: dalla Conciliazione «al patto a Quattro», dalle «inique sanzioni» alla guerra di Etiopia ed alla proclamazione dell’Impero, dalla guerra di Spagna all’Asse Roma-Berlino e alle leggi razziali, dalla «non belligeranza» alla decisione di attaccare la Francia e al capovolgimento, a partire dalla sconfitta di Rommel in Africa, delle prospettive belliche.

Inutile sottolineare che, quali che fossero le effettive reazioni di ciascuno di fronte ad una simile e così accelerata sequela di avvenimenti (e al bombardamento propagandistico relativo), l’immagine che di sé doveva dare l’istituzione, per bocca di chi era stato designato a rappresentarla, era comunque obbligata. E, questo, indipendentemente dalla natura pubblica o privata – nel caso milanese – del singolo ateneo: un postulato che in effetti ogni capo d’istituto fece ampiamente proprio, quel 24 novembre, nel corso della cerimonia dalla quale hanno preso le mosse le considerazioni appena fatte, e sulla quale vale la pena, forse, di soffermarsi, visto che può servire a richiamare brevemente alcuni tratti caratteristici del quadro universitario milanese alla vigilia degli anni più cruciali e decisivi, destinati a segnare l’apogeo e, successivamente, il tracollo del regime.

Per la Regia Università l’occasione coincideva con la sua entrata nell’undicesimo anno di vita e Ferdinando Livini, il successore di Baldo Rossi, che prese per primo la parola non mancò in effetti di soffermarsi soprattutto sugli elementi di crescita: gli studenti più che raddoppiati, saliti ormai a 3207, con Medicina passata da 227 a oltre 1200; i laureati aumentati dai 79 del 1925 ai 316 nel 1934; i posti di ruolo dei professori passati da 58 a 72, di cui 65 coperti (e, salvo dieci, tutti da iscritti al PNF, laddove questi erano appena 7 del 1924); i liberi docenti incrementati da 71 a 284, gli assistenti da 59 a 103, i tecnici da 13 a 25, i subalterni da 28 a 72; le somme a bilancio per le dotazioni scientifiche dilatate da 284.500 lire a 812 mila; le pubblicazioni scientifiche cresciute da 406 a 1096. E, ancora, le Facoltà salite a cinque dopo l’assorbimento di Medicina Veterinaria; le Scuole di perfezionamento diventate 28; la Biblioteca giuridica e letteraria dotata ormai di 85 mila opere. Un complesso di risultati al quale facevano riscontro le dimensioni, parallelamente incrementate, dei bilanci: dai 3 milioni e 679 mila lire di entrate del primo anno, agli oltre otto milioni di dieci anni dopo. Con l’ulteriore elemento di rassicurazione rappresentato dal recente rinnovo della convenzione con gli enti locali con la quale era stato possibile rendere ordinari anche i contributi sin lì concessi a titolo straordinario, portando il totale relativo a 3 milioni e 150 mila lire (2 milioni dal Comune, 500 mila lire dalla Provincia, 350 mila lire dal Consiglio provinciale dell’Economia corporativa, che aveva preso il posto della Camera di Commercio, 300 mila dalla Cassa di Risparmio)[5].

A Livini seguì Gemelli, il quale diede anzitutto atto al fascismo di avere, con la riforma Gentile, «chiamato anche le forze libere a collaborare, insieme con le Università statali e con quelle promosse dagli Enti locali», avendo successivamente offerto con la Conciliazione «un nuovo volto all’Italia», trasformandone l’«atmosfera religiosa». La sua partecipazione alla cerimonia valeva d’altra parte da attestato della «ferma volontà dei Cattolici italiani di servire con fedeltà questa nuova Italia il cui volto è irraggiato da nuova e maschia bellezza». Dava poi conto anch’egli dei dati più significativi: 512 iscritti a Lettere e filosofia, 330 a Giurisprudenza, 134 alla Facoltà di scienze politiche, economiche e commerciali di recente istituzione, 918 all’Istituto superiore di Magistero, 94 alle Scuole di perfezionamento: in tutto, dunque 1988 studenti, pochi dei quali di Milano o della sua provincia, a riprova della capacità di richiamo e della ben più larga funzione propria dell’«Ateneo dei Cattolici italiani». Per questo, dopo il compimento e l’entrata in funzione, due anni prima, della nuova sede, ottenuta dalla risistemazione dell’antico monastero benedettino e cistercense presso Sant’Ambrogio, si era provveduto alla realizzazione di due collegi, l’Augustinianum e il Ludovicianum, prossimi alla inaugurazione, dove ospitare gli studenti non residenti. Gemelli dava altresì conto di un’altra specificità del suo ateneo, quella dei corsi e dei cicli speciali, anche con la partecipazione di studiosi stranieri, ricordando varie altre attività culturali e la collezione delle pubblicazioni arricchita in un anno «di ben quindici grossi e importanti volumi», senza trascurare i riconoscimenti toccati ai docenti e le borse di studio conquistate dagli studenti. E naturalmente non mancava di rimarcare come anche quell’anno la Giornata universitaria avesse consentito di raccogliere, «ad onta delle gravi prove economiche», tre milioni di «spontanee offerte», facendo ascendere a 70 mila il numero degli «Amici» dell’ateneo e a 43 mila quello dei «Piccoli» e dei «Giovani Amici». Il tono era garbato; assolutamente senza punte. Ma la riconoscenza per i meriti che il fascismo si era procurato, avendo restaurato «il riconoscimento dell’importanza e del significato dei valori religiosi», sfumava irresistibilmente nel richiamo agli impegni che ne conseguivano. Come se fosse stato proprio il fascismo, «tra le molteplici opere atte a ridare vita cristiana al nostro popolo», a chiamare l’Università Cattolica ai suoi compiti e alla sua grande responsabilità. Fermo in ogni caso restando che uno solo era «il Maestro»: «Non stupisca se in questa severa tornata accademica io ricordi che i nostri studi e la nostra opera educativa si iniziano da Dio e tornano a Dio»[6]. Una frase, quest’ultima, non a caso riportata, il giorno dopo, unitamente ad un ampio resoconto del discorso, dal solo quotidiano cattolico[7].

Toccò quindi a Fantoli, il quale non mancò, esordendo, di far notare come i «dodici minuti assegnati al R. Politecnico» in quel «fraterno rito inaugurale» escludessero qualsiasi possibilità di analisi appena dettagliata. Una limitazione che non gli impedì comunque di fornire i dati essenziali. A cominciare dall’avvenuta elargizione di 5 milioni da parte della Edison alla Fondazione Politecnica con l’obbligo di vincolarne il reddito al Politecnico, e, questo, in aggiunta agli altri 13 milioni del capitale della medesima Fondazione ugualmente impegnati in quel senso. Ma erano di rilievo anche gli annunci seguenti: la promozione da parte dell’Associazione nazionale fascista dei dirigenti aziende industriali di una Scuola superiore di Politica e organizzazione delle imprese; le 250 mila lire della Italcementi per la Scuola del Cemento armato; la stazione di radiotrasmissione a onde corte del valore di 130 mila lire donata dalla Ditta Marelli; il contributo straordinario di 100 mila lire dell’Azienda elettrica municipale. Per non dire dei tanti altri «atti generosi compiuti da privati, enti e docenti», attestato, tutti, del «fattivo entusiastico amore» che suscitava quell’ormai «imponente Laboratorio didattico sperimentale della Nazione». La conseguenza di tanto impegno e di tanta disponibilità era la condizione della sede, ad appena sette anni dal trasferimento: in pratica già satura, con i sotterranei tutti utilizzati, e alcuni sopralzi già realizzati[8]. Una condizione che non dipendeva dal numero in sé degli studenti (quell’anno 1142, una novantina in più dell’anno prima, suddivisi ora in due Facoltà, dopo la costituzione in forma autonoma di quella di Architettura), ma dal mutamento sostanziale intervenuto più in generale nella struttura dell’istituto: un mutamento che, per un verso aveva riguardato anche la didattica, con lo spazio molto maggiore dato al perfezionamento e alle specializzazioni da eseguirsi in laboratori e con apparati a ciò idonei, ma che aveva soprattutto visto accentuarsi le funzioni del Politecnico e dei suoi docenti nel campo della ricerca e della sperimentazione, con una parallela e più diretta partecipazione nella determinazione delle scelte relative da parte dei settori aziendali interessati.

Non erano in contrasto con tali orientamenti, favorevoli, anziché ad una dilatazione indiscriminata dei quadri tecnici, alla formazione ben graduata di elementi altamente qualificati e responsabilizzati (e tanto più in un contesto ancora segnato sul piano occupazionale dalle ripercussioni della crisi), i connotati fortemente selettivi della didattica, com’era confermato anche dalla più recente modifica – peraltro destinata a venir presto rivista – degli ordinamenti relativi, caratterizzati da un ulteriore appesantimento e irrigidimento dei curricula e dall’introduzione di «un clima più duro», fatto consistere in «promozioni informate a maggior rigore», frequenze obbligatorie per quasi tutte le materie, eliminazione «graduale» dei fuori corso. Tutte prove alle quali peraltro gli allievi politecnici avrebbero dovuto sottoporsi da veri giovani fascisti, «senza pigri timori», «coll’impegno virile e consapevole richiesto dalla loro missione di ingegneri nel domani del Regime». Sul piano specifico della loro vita «marziale», il fatto che tra i 1050 iscritti all’anno prima, ve ne fossero stati 103 (quasi il 10%) non iscritti al Guf era, secondo Fantoli, un segno che «gli angoli morti della pigrizia e della indifferenza agnostica» non erano ancora spariti. Una condizione che (com’era confermato dal fatto stesso che la si segnalasse, a differenza di quanto non facessero in quella stessa circostanza, per quel che li riguardava, gli altri capi d’istituto) non metteva beninteso minimamente in discussione la posizione di primato che in fatto di fedeltà al duce si era convinti di detenere. Fantoli presentava nella medesima ottica il decisivo contributo dato dal Politecnico al successo del Guf milanese nei recenti Littoriali, con 102 partecipanti su 275 e 17 littori su 48. Parallelamente i suoi atleti avevano conquistato a livello locale la «coppa interfacoltà»: una riprova di primato anche quella. Ed erano analoghe le proporzioni riguardanti la partecipazione ai corsi allievi ufficiali organizzati dalla Milizia e la composizione della 2° Legione universitaria intitolata ad Arnaldo Mussolini. Il messaggio lanciato da Fantoli era insomma chiaro. Quali che fossero stati gli indici di riferimento adottati, l’incidenza effettiva del Politecnico rispetto al contesto universitario cittadino e nazionale era da considerarsi comunque molto superiore alla percentuale, ragionieristicamente intesa, degli studenti che ad esso facevano capo: con tutto quello che avrebbe dovuto per conseguenza discenderne in termini di riconoscimenti, appoggi, accoglimento delle esigenze che si sarebbero prospettate.

Chiamato ad esordire in quella circostanza pubblica nella sua qualità di neorettore della Bocconi, l’economista Gustavo Del Vecchio, che prese la parola subito dopo, usò, secondo il suo stile, toni decisamente meno perentori. Fece omaggio a coloro che l’avevano preceduto nella carica, e in particolare al predecessore, Ulisse Gobbi; riferì dell’andamento soddisfacente delle iscrizioni (oltre 300 per il solo primo anno), nonostante «le note e particolari gravezze e difficoltà» imposte dall’Università e la concorrenza delle nuove Scuole superiori di Commercio e Facoltà di Scienze politiche sorte nel frattempo; riferì dell’avvenuto avvio dell’Istituto di Economia della Fondazione Ettore Bocconi; fece intendere che anche la Bocconi avrebbe fatto la sua parte affinché i suoi allievi partecipassero «non solo con fervore, ma anche con sapienza» al «particolare stile», anche di politica economica dell’Italia mussoliniana. Tra i problemi specifici del suo ateneo accennò a quello, principale, della sede, ormai da parecchi anni non più sufficiente a contenere «il grande numero dei docenti, degli assistenti e degli studenti, i nuovi Istituti e la intensificata generale attività», dando altresì conto della buona disposizione delle «somme autorità cittadine» ad integrare con un loro intervento le forze su cui l’Università poteva autonomamente contare[9].

Fu quindi la volta del segretario del Guf, il bocconiano Andrea Melgiovanni: un intervento che rientrava tra le novità previste dal ministro Ercole per la cerimonia inaugurale di quell’anno, e che ne sanciva ulteriormente l’adeguamento «al tempo del Littorio». Anche Melgiovanni diede le sue cifre: 4178 iscritti, di cui 517 al fascio femminile e 199 alla sezione studenti stranieri, 1871 aderenti al Fascio giovanile Rismondo, 1780 componenti la «marziale e balda legione universitaria».

La prima parte della cerimonia si concluse con un nuovo intervento di Livini, che parlò anche a nome dell’Istituto superiore di Agraria, prossimo a rifluire anch’esso nell’Università, e che riferì successivamente, secondo le disposizioni ministeriali, dell’attività svolta dalla Legione della Milizia universitaria. Seguì la seconda e distinta parte, riservata all’apertura del corso allievi ufficiali, con tutte le forze studentesche schierate in via Gadio, passate in rivista da Sua Altezza Reale Adalberto di Savoia, Duca di Bergamo, il quale spiegò nel suo discorso come, voluta dal «Duce», la fusione dei due riti, l’accademico e il militare, avesse inteso significare e rendere più esplicita la magnificazione del fascista completo: «libro e moschetto!»[10].

Infine la sfilata finale:

 

A ranghi simmetrici, in marziale e disciplinatissima parata, le Camicie Nere hanno dato un altissimo esempio di preparazione e di disciplina militare, di cui l’augusto Principe si è vivamente compiaciuto col console Marchese. Chiudevano lo sfilamento i Giovani fascisti, il reparto ciclisti che era guidato dall’on. Boidi, e quello motociclisti.

L’imponente pubblico ha salutato il passaggio degli allievi ufficiali con ripetuti calorosi applausi. Quindi, mentre scendevano le prime ombre della sera, la Legione ha fatto ritorno alla propria sede[11].

 

Quella appena evocata non fu, beninteso, una manifestazione di particolare rilievo o alla quale si fosse attribuito dai suoi stessi organizzatori un significato di accentuata evidenza. Dodici mesi più tardi ognuno sarebbe ritornato a solennizzare l’avvio del nuovo anno accademico per conto suo: e tutto lascia ritenere senza rimpianti. Anche nella circostanza sopra descritta ogni capo d’istituto aveva d’altra parte parlato per sé: lo si è ben visto. L’unico a fornire i suoi dati in forma accorpata era stato, non a caso, il segretario del Guf. Per quanto si potesse ritenere un’entità dall’inequivocabile rilievo – con i suoi oltre 7 mila studenti complessivi (rispetto ad un totale nazionale di non molto superiore ai 60 mila), le centinaia, ormai, di professori, liberi docenti, assistenti, tecnici, amministrativi e ausiliari a vario titolo impiegati dalle diverse strutture, l’ampia articolazione delle Facoltà, delle Scuole e delle attività collaterali – una vera e propria «Milano universitaria» sembrava in realtà non prendere propriamente forma come tale. Certamente non si esprimeva con un’unica voce. Emergeva piuttosto, e in tutta evidenza, la presenza di soggetti singoli, tra loro ben differenziati, che avevano bensì provveduto, e in un brevissimo volgere di anni, a fare di Milano una città universitaria di primissimo rango, ma procedendo ognuno per conto suo, nell’ambito della sua specifica fisionomia, badando ciascuno alla propria esclusiva area di competenza, non senza gelosie e diffidenze reciproche.

La cosa non era d’altronde sorprendente. Si può anzi ritenere che sia stata insieme una riprova di vitalità ed un fatto di rilievo anche rispetto alle prospettive future che l’autonomia dei singoli istituti si sia mantenuta in quegli anni, nonostante le crescenti tendenze omogeneizzatrici del fascismo, presto ulteriormente rafforzate dall’avvento di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon al Ministero dell’Educazione nazionale. L’Istituto superiore di Agraria sarebbe a quel punto rifluito nell’Università, ma il Politecnico, a differenza di quel che accadde alle vecchie Scuole di Ingegneria di Bologna e di Napoli, sarebbe riuscito a difendere con successo la propria fisionomia indipendente.


1

«Il Popolo d’Italia», 11 novembre 1934, L’anno accademico nelle Università verrà inaugurato con un rito militare.

2

Annuario anni accademici 1932-1933, 1933-1934, cit., p. 27. Sulle zone di resistenza e di non consenso entro il Politecnico cfr. A. Galbani, Antifascismo e resistenza nel Politecnico di Milano, in Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), cit., vol. I, pp. 251 e sgg.

3

L. Lenti, Le radici nel tempo. Passato al presente e futuro, Milano 1983, p. 56.

4

Cfr. in questo stesso senso, con riferimento alla situazione padovana, A. Ventura, Carlo Anti rettore magnifico e la sua Università, in Carlo Anti. Giornate di studio nel centenario della nascita, Trieste 1992, p. 162.

5

Regia Università degli Studi di Milano, Annuario Anno accademico 1934-35, Milano 1935, pp. 7-15.

6

Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, Annuario della Università Cattolica del Sacro Cuore e dello Istituto superiore di magistero Maria Immacolata, Anno accademico 1934-35, Milano 1935, pp. 15-21.

7

«L’Italia», 25 novembre 1934, L’Anno Accademico delle Università e degli Istituti Superiori inaugurato alla presenza del Duca di Bergamo e del Card. Schuster.

8

Regio Istituto superiore d’Ingegneria di Milano (Regio Politecnico), Annuario anno accademico 1934-1935, Milano 1935, pp. 11-12.

9

Università commerciale «Luigi Bocconi», Annuario 1934-1935, Milano 1935, pp. 3-5.

10

«Libro e Moschetto», 1 dicembre 1934, La solenne inaugurazione dell’anno accademico degli Istituti Superiori.

11

«Il Popolo d’Italia», 25 novembre 1934, L’Anno accademico inaugurato da due significativi riti fascisti.

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