Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

La costituzione della «Regia Università»


Parole chiave: Milano, Riforma Gentile, Rapporti istituzionali

Ai timori e alla crescente sensazione di debolezza che, al di là di tante dichiarazioni in contrario, si registravano a Pavia, corrispondeva intanto, passaggio a vario titolo decisivo, l’elezione nel dicembre 1922 di Mangiagalli a sindaco di Milano, per la lista del Blocco nazionale. Come già gli era accaduto in passato, quando, forte della posizione in Consiglio comunale e alla Camera, aveva favorito la nascita degli Istituti clinici di perfezionamento, era evidente che, nella nuova e anche più determinante funzione di primo cittadino, unita alla presidenza della Associazione per l’alta cultura, in sostituzione di Celoria, morto due anni prima, Mangiagalli non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione per condurre finalmente in porto il progetto a lui più caro. Ci fu anzi chi sostenne che fosse stato quello il corrispettivo dell’appoggio da lui concesso alla lista filofascista. Un primo risultato del suo rinnovato impegno in quel senso fu in effetti la nuova convenzione dell’ottobre 1923 con la quale venne rifinanziato, con 19 milioni dello Stato, 12 del Comune e un milione e mezzo della Provincia, il compimento della realizzazione della Città degli Studi, rendendo così possibile il riavvio dei relativi lavori.

Poche settimane prima, a fine settembre, era intervenuto l’altro passaggio determinante rappresentato dal varo della riforma degli assetti universitari da parte del Ministro Gentile. Non che questa, nella sua impostazione originaria, venisse di per sé incontro alle istanze universitarie milanesi più radicali. Prendendo atto (ma era già questa una vittoria di Mangiagalli) dell’ormai accertata incompatibilità tra il nucleo più intransigente della Facoltà medica pavese e gli Istituti clinici milanesi, essa si limitava ad abrogare la fusione deliberata due anni prima, accorpando gli Istituti clinici, con le loro funzioni limitate al perfezionamento post-lauream, e la Accademia scientifico-letteraria, in quanto Facoltà di Lettere e filosofia, entro una nuova Università, da inserire, a differenza di quella di Pavia, tra gli atenei a carico solo parziale dello Stato: decisione che comportò l’immediata riduzione delle dotazioni garantite da quest’ultimo, rendendo dunque necessario, se si fosse voluto dare effettivamente corso al progetto, trovare localmente di che sostituirle e incrementarle. Ad un tale inconveniente corrispondeva però la concessione di principio, d’altronde difficilmente negabile nel momento in cui si sanzionava parallelamente, come si vedrà più avanti, la nascita dell’Università Cattolica. Era appunto quello il dato decisivo. Non per niente i più lungimiranti tra gli osservatori pavesi avevano in passato temuto proprio un evento di quel tipo. Fintanto che erano rimaste costrette entro le pastoie delle vecchie normative, le aspirazioni milanesi all’autonomia universitaria avevano dovuto contenersi in limiti ben definiti. Ora invece Milano acquisiva il diritto a dotarsi di una Università sua: dalla fisionomia beninteso del tutto insoddisfacente, ove ci si fosse accontentati di quanto sancito per il momento dall’autorità ministeriale; ma passibile di acquisirne una tutta diversa e tanto più rilevante se si fosse approfittato dei margini di iniziativa che la situazione a vario titolo offriva.

Inutile dire quale fosse, a quel punto, la posizione di Mangiagalli. Quand’anche non assunte, a suo tempo, come mero espediente, non era certo più il caso di attardarsi sulle vecchie ipotesi di «Università politecnica», con cui sancire, in alternativa al modello tradizionale della «Universitas Studiorum», la particolarità cittadina in materia di istituti superiori. Non per niente l’ipotesi in questione veniva ora riaffacciata da chi avrebbe semmai ancora voluto, su quella base, cercare di salvare l’esclusività sostanziale di Pavia. Parlando il 17 novembre in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico, il rettore Arrigo Solmi si disse certo che «la forte metropoli lombarda» non avrebbe abbandonato «la via regia, per mettersi nel vicolo chiuso della ripetizione di ciò che esiste a Pavia, e che non potrebbe essere ripetuto se non con danno di Pavia, e con minimo vantaggio di Milano». La nuova legge aveva cancellato la Facoltà medica unica, ma non, «se non formalmente» la base dei relativi accordi, «imposti dalle leggi ineluttabili della geografia e del buon senso»[1]. In una successiva intervista al «Secolo», Solmi sostenne che nell’istituenda nuova Università milanese avrebbero potuto trovare opportunamente posto una Scuola superiore di scienze sociali e politiche, una Scuola superiore di scienze geografiche ed antropologiche, unitamente a «grandi scuole di applicazione» e di perfezionamento nel settore medico, lasciando inalterate le prerogative pavesi in tutti i campi tradizionali[2]. A favore della trasformazione della Accademia scientifico letteraria (una Facoltà di Lettere «non migliore» e «non peggiore di tante altre», ma comunque affetta da «alcune condizioni di inferiorità») in una ben più utile e funzionale scuola superiore di scienze sociali da affiancare all’Università Bocconi, «e con essa quasi idealmente fondersi», allo scopo di formare i nuclei di esperti con cui attrezzare finalmente il paese alle nuove temperie della vita internazionale, si era pronunciato qualche settimana prima anche lo storico Gioacchino Volpe, dal 1905 titolare di Storia moderna all’Accademia scientifico-letteraria, il quale si era detto altresì convinto che non avessero senso «doppioni» di Università o di Facoltà a distanza di 30 chilometri e in un contesto già autosufficiente: «Il Politecnico, l’Università Bocconi, la Facoltà di Medicina e Legge a Pavia schiumano il meglio dei giovani…»[3].

Seducenti o meno che fossero in sé, le proposte alternative elaborate dai pavesi e da quanti a Milano mostravano, per qualche motivo, di condividerle, si scontravano in ogni caso con l’estrema linearità della rivendicazione avanzata da Mangiagalli, nel frattempo nominato anche rettore della neonata Università, nel discorso tenuto a Palazzo Marino il 22 novembre. Dal momento che lo Stato richiedeva comunque un intervento delle forze locali per mantenere in vita la pur monca e modesta struttura che aveva concesso, tanto valeva fare uno sforzo maggiore e puntare ad una meta che risultasse all’altezza delle legittime ambizioni cittadine: «Invece di spendere L. 300.000 annue per rabberciare Istituti Clinici e Facoltà di Filosofia e lettere, se noi facciamo, oltre a questa una Facoltà medica, una Facoltà di Scienze, una Facoltà di Diritto, può bastare una spesa da L. 900.000 ad un milione». Il computo proposto da Mangiagalli era beninteso decisamente ottimistico. Ma quello di sminuire il peso degli impegni da contrarre era ovviamente anche un modo per ridurre perplessità e resistenze, dimostrando che l’ipotesi di una «vera» Università, che non richiedesse più ai giovani milanesi di trasferirsi o di sottoporsi all’andirivieni da Pavia, era del tutto a portata di mano, se solo si fossero messe in moto energie locali sufficienti a garantire la copertura dei costi aggiuntivi.

Ci fu a dire il vero chi sostenne, anche sugli organi di stampa cittadini, che non aveva senso impegnare milioni «per fondare a Milano ciò che già c’è a così piccola distanza»: «trentacinque o quaranta minuti, che con un po’ di buona volontà, mediante un tram elettrico, potrebbero diventare venti». E, questo, «mentre anche nel campo degli studi superiori vi sarebbero tante cose nuove e belle da fondare». Lo sosteneva il latinista Carlo Pascal, titolare della relativa cattedra a Pavia, il quale aveva soprattutto in mente il ricchissimo quadro di istituti superiori che a Parigi fiancheggiavano la Sorbona[4]. Il modello che si tentava di tenere in vita era ancora quello della «grande Università Pavia-Milano, che abbia a Pavia le sue storiche antiche Facoltà fondamentali ed a Milano gli Istituti di Scienze applicate, di specialità e di perfezionamento», un modello al quale aveva d’altronde mostrato di credere in passato lo stesso Mangiagalli[5]. Chiamato in causa, questi replicò che quella dell’Università era al contrario «una storica aspirazione» di Milano e che la situazione era radicalmente cambiata dopo la promulgazione dei decreti gentiliani. Fino ad allora la contesa «si era sempre svolta sopra un terreno poco simpatico e poco riguardoso verso Pavia», in quanto implicante un trasferimento di Facoltà preesistenti. Ma a quel punto le cose non stavano più così. Ora era semmai Pavia, la cui «Università statale» era assicurata, che cercava di «impedire con azione poco fraterna il libero sviluppo di quella di Milano, unica grande città in Europa che non abbia la sua Università». Tantomeno aveva senso lamentare l’inevitabile decadenza che ne sarebbe derivata per l’ateneo ticinese:

 

Milano e Pavia avranno speciali orbite di attrazione. Né la fama di una Università si calcola dal numero degli studenti.

Ma poiché il prof. Pascal si preoccupa tanto delle spese in rapporto colla Università, vorrebbe dirmi perché lo Stato debba spendere per la Facoltà di Lettere e Filosofia di Milano, che conta 250 studenti, e 147 nella scuola di lingue, la terza parte di quanto spende per quella di Pavia con 65 inscritti, quali erano lo scorso anno[6]?

 

Coerentemente con le posizioni assunte in passato e con gli impegni che la sua amministrazione, ratificando la fusione della Facoltà medica con gli Istituti clinici, aveva assunto con l’ateneo pavese (al quale, come antico ghisleriano, continuava a sentirsi personalmente legato), l’ex-sindaco Caldara rifiutò l’invito a far parte della Commissione, nominata dopo l’adunanza a Palazzo Marino del 22 novembre, per formulare la convenzione tra lo Stato e gli enti locali con cui assicurare i mezzi finanziari necessari alla nuova Università[7]. Quando, due settimane più tardi, il Consiglio comunale fu investito della questione, Ugo Guido Mondolfo chiese, a nome dei socialisti riformisti del PSU, una sospensiva, adducendo motivi di priorità di spesa e ragioni legate al conclamato interesse di Milano a sviluppare le proprie attività intellettuali principalmente «in connessione con le forme di attività pratiche che costituiscono la sorgente maggiore della sua ricchezza»[8]. Pur facendo parte della maggioranza, Solmi si astenne a sua volta, ribadendo la propria visione alternativa del problema e la possibile fisionomia dell’ancora da lui auspicato «Ateneo lombardo»[9]. Ma le voci consenzienti furono nettamente maggioritarie, e persino tra i socialisti ci fu chi votò a favore.

Ai primi di gennaio si diede il via alla sottoscrizione, che avrebbe superato, tra versamenti effettivi ed impegni per il futuro, i 10 milioni: l’equivalente, perché si abbia un’idea della sua consistenza, di tre volte il fabbisogno complessivo del futuro ateneo nel suo primo anno di vita. Oltre 7 milioni e mezzo furono destinati esplicitamente alla Facoltà medica, a riprova, ad un tempo, dell’interesse che questa rivestiva e della più diretta influenza che Mangiagalli era in grado di esercitare nel settore a lui più vicino. Venne naturalmente sottolineata, anche per il significato di avallo che veniva ad assumere rispetto alle persistenti resistenze pavesi, la sottoscrizione, per 5 mila lire, dei fratelli Mussolini[10].

Un passaggio assolutamente decisivo nella strategia vincente di Mangiagalli si rivelò quello di prevedere per gli insegnamenti clinici dell’istituenda Facoltà medica forme di convenzionamento con l’Ospedale Maggiore, con gli Istituti clinici e con altre strutture sanitarie cittadine. Grazie a tali strumenti, senza alcun onere, e garantendo per contro ai propri titolari rango e funzione primariali, sarebbe stata così assicurata sin dall’inizio la possibilità di usufruire a titolo didattico, e in misura più che adeguata rispetto alle esigenze, di strutture operative di primissimo rango.

Nel giugno 1924 il Consiglio superiore della pubblica istruzione, esaminata la proposta milanese, ne approvò la sostanza, riconoscendo in particolare che, con i suoi cinque milioni di abitanti, tra i quali era più alta che da altre parti la proporzione delle classi «colte ed elevate», la Lombardia aveva pieno diritto a chiedere una seconda università, tanto più considerato come a livello nazionale il criterio fosse di disporre di un ateneo ogni due milioni di abitanti. Era d’altronde previsto che l’Emilia ne avesse quattro, tre la Toscana, due la Sicilia. Per quanto invecchiate (risalivano tutte all’anteguerra), le statistiche indicavano inoltre che a Pavia affluiva solo un quarto degli universitari lombardi. Il Consiglio superiore avanzò peraltro anche alcune riserve, riguardanti in particolare, oltre a vari punti dello schema di convenzione, la base finanziaria della nuova istituzione, giudicata insufficiente a dar vita ad un organismo vitale e all’altezza delle esigenze. Venne così posto come condizione che si trovassero altre 300 mila lire, indispensabili in particolare per portare il numero dei professori di ruolo alla soglia minima giudicata irrinunciabile. Nel caso non si fossero trovati nuovi cespiti, si sarebbe dovuto rinunciare alla Facoltà di Scienze, «come quella che appare sotto molti aspetti, non meno utile, ma più onerosa»[11].

Nonostante lo scarsissimo tempo a disposizione, Mangiagalli riuscì a reperire un altro milione. Si rivelò, ancora una volta decisiva la sua posizione alla testa dell’amministrazione municipale. Pur di garantire all’istituenda Università «almeno le quattro Facoltà tradizionali», la Giunta municipale, «previa dichiarazione di astensione da parte del Sindaco, data la sua qualità di rettore», votò infatti all’unanimità di incrementare il contributo del Comune di altre 550 mila lire, portandolo ad un milione per dieci anni, con la sola riserva di eventualmente ridurlo «in relazione ai nuovi maggiori contributi che altri Enti locali daranno all’Università» (mentre quello dello Stato, a parte gli immobili dati in uso, non avrebbe inizialmente superato le 300 mila lire). E Mangiagalli tornò a sollecitare direttamente Mussolini. La realizzazione dell’Università era «essenziale per la grandezza morale di Milano» e questa era «parte notevole della grandezza d’Italia». La richiesta era ormai «entrata nella coscienza civile e politica della città» e non la si poteva più oltre disattendere. Milano rimaneva la «sola grande città d’Europa che non abbia Università». Se lo Stato insisteva a non concedergliela, «con aperta offesa dello spirito della legge», essa sarebbe sorta ugualmente, «cattolica o laica», forte dell’appoggio concorde degli enti locali e della cittadinanza:

 

Perché si vuole dunque impedire a Milano di fare e di pagare la sua Università? Pavia? Ma deve Pavia pesare eternamente sulle sorti e sui destini di Milano? E poi Pavia non ha la sua Università statale? E la questione non deve porsi nei suoi interessi più alti? È inutile per la scienza, per l’insegnamento, per l’interesse della Nazione anche di fronte allo straniero che sorga una grande Università a Milano? È bastato l’accenno al sorgere della Università in Milano che sono pervenute domande di iscrizione da molte parti d’Europa. Ciò basta a dimostrare la grande attesa.

 

La conclusione era perentoria: «Milano confida nel suo diritto»[12]. A distanza di qualche giorno, giungeva in effetti l’annuncio ufficioso del voto favorevole al progetto da parte del Consiglio superiore[13]. Mancava, a quel punto, solo il definitivo via libera del ministro: dal 1° luglio non più Gentile, dimissionario nel quadro del rimpasto successivo al delitto Matteotti, bensì il milanese Alessandro Casati, fin lì vice presidente del Consiglio superiore e designato su indicazione dello stesso Gentile e con l’accordo di Croce[14]. Su Casati, nel tentativo di rimettere almeno parzialmente in discussione il voto del Consiglio superiore e la «grande iattura degli interessi nazionali» rappresentata dall’ingiustificata pretesa milanese di mettersi in campo accademico alla pari con Pavia, tentò di nuovamente premere Solmi, riducendo la portata delle richieste rispetto alle precedenti rivendicazioni, ma cercando di tenere aperta la prospettiva di una futura «feconda unione» tra le due città, una volta «cessate le attuali divergenze d’uomini». A questo fine egli dichiarò di consentire all’apertura anche a Milano della Facoltà di Medicina, purché con cattedre e laboratori paralleli nelle due sedi, e diede altresì il via libera a Scienze, pur sostenendo che non se ne sentiva il bisogno. L’ultima trincea era costituita proprio dalla Facoltà alla quale era più direttamente interessato, quella di Giurisprudenza. Una Facoltà – faceva notare – già presente in Italia in 23 sedi – «otto più che in Francia, due più che in Germania»: senza dire che Milano, per un ambito di studi affine, poteva già avvalersi della Bocconi, mentre non era escluso che una ne aprisse anche la Cattolica (della cui creazione, più in generale, Solmi era stato, tre anni prima, un avversario dichiarato)[15]. Sempre al fine di evitare il più possibile i doppioni, per l’Accademia scientifico-letteraria veniva prospettato, anziché un destino da Facoltà di Lettere, la trasformazione in «una scuola di scienze moderne, introducendovi le cattedre di estetica, di storia della musica, di arte militare, di filosofia moderna, di storia della civiltà, di sociologia, di storia dei trattati, di politica e via via, assegnando a Milano, un’altra volta, quella nobile tradizione di propulsore della scienza moderna, che il nuovo miraggio ha travolto»[16].

Inutile dire che da parte dei responsabili milanesi non esisteva la benché minima disponibilità ad entrare in siffatto ordine di idee. Complicava ulteriormente le cose, in un quadro generale dominato dalle preoccupazioni e dalle lacerazioni derivanti dal delitto Matteotti e dai suoi strascichi non ancora ricomposti, il fatto che la divisione fosse penetrata nell’ambito stesso del fascismo, ponendo tra loro in netta antitesi gli esponenti e i responsabili di partito dei due centri. Prima del pronunciamento da parte del Consiglio superiore, una sollecitazione a delegare la risoluzione del problema ai deputati fascisti pavesi e milanesi era venuta dallo stesso Mussolini, in seguito ad un incontro con una delegazione composta da Golgi, Solmi, dal sindaco Vaccari e dal deputato fascista Bisi[17]. Il Direttorio del Fascio di Pavia aveva successivamente chiarito che il mandato affidato dal duce non era venuto meno per quel «parere di massima» e che la «formula conciliativa» sarebbe stata trovata[18]. Di fronte alla indisponibilità a procedere peraltro dimostrata dopo il primo incontro dai deputati fascisti milanesi, in particolare Belloni e Alfieri, la decisione venne rimessa ad una nuova Commissione, voluta ancora da Mussolini, composta, questa volta, dai rappresentanti delle due Università e delle due città[19]. Palazzo Marino fece sapere di considerare l’iniziativa «come una manovra dilatoria, intesa a guadagnar tempo non si sa bene nella speranza di che cosa»[20]. E Mangiagalli rifiutò ostentatamente di fare parte della Commissione, sia pure concedendo, «per deferenza», di designarne i membri milanesi, ma arrivando a minacciare le proprie dimissioni nel caso in cui le legittime aspirazioni della sua città non fossero state finalmente accolte[21]. E di un possibile, analogo comportamento della Giunta municipale e della Deputazione provinciale, riferì allarmatissimo a Roma il prefetto[22]. Lo scontro si spostò in effetti entro la Commissione, non appena essa si riunì. Di fronte all’estremo tentativo dei pavesi di rimettere la situazione in discussione, ottenendo almeno qualche correttivo, la delegazione milanese si dichiarò comunque inflessibile, e il presidente, il consigliere di Stato Tovajera, dopo aver riproposto di fondere i due enti «in un unico grande Istituto di alta cultura della Regione Lombarda», dovette riconoscere l’assoluta inanità del tentativo. Ora che la legge le consentiva di disporre di una Università sua, Milano non intendeva recedere, volendola non diversa dalle altre, «specialmente nei riguardi dei titoli di studio che può rilasciare», con la conseguente «utilità piena ed intera» che poteva venirne alla sua popolazione:

 

la possibilità di avere soltanto le specializzazioni, in alcuni rami di studio, non la attira menomamente: le specializzazioni, alle quali Pavia era anche disposta a rinunciare per suo conto, potranno venire dopo, in un secondo momento (…) sul tronco delle rispettive Facoltà a tipo classico e tradizionale, alle quali essa crede di non poter rinunciare[23].

 

Non restava dunque che prendere atto dell’inevitabile, facendo solo sembrare come di sostanza, da parte milanese, la concessione del tutto platonica del riconoscimento del principio della «differenziazione degli studi». Sostituito a fine luglio alla presidenza Tovajera con il clinico Mario Donati, che come relatore della questione milanese per il Consiglio superiore si era già espresso a favore della soluzione prospettata, tutto si risolse con lo stabilire qualche modesta rinuncia reciproca nell’ambito delle Facoltà di Scienze e con la fissazione di alcune norme di garanzia con riguardo agli studenti di Giurisprudenza e di Medicina: l’ateneo che avesse raggiunto per primo un certo numero, prefissato, di iscritti, si impegnava a non iscriverne altri, all’infuori dei residenti nella rispettiva provincia, finché anche l’altro non avesse raggiunto il medesimo livello. Venne altresì stabilita l’istituzione di una Commissione di collegamento con generici compiti consultivi. Inutile dire che in termini concretamente operativi non se ne sarebbe fatto nulla. L’importante era aver concluso: e a quel punto ostacoli non ne insorsero effettivamente più. A metà agosto giunse il sospiratissimo via libera e il 28 di quello stesso mese, presso la prefettura di Milano, venne finalmente firmata la convenzione con cui si sancì la nascita dell’Università degli Studi milanese, «completa» delle quattro Facoltà di Giurisprudenza, Lettere e filosofia, Medicina e chirurgia, Scienze fisiche, matematiche e naturali, proprio come Mangiagalli l’aveva voluta e imposta. A Pavia, quale unico premio di consolazione, venne concessa la nuova Facoltà di Scienze politiche, che ad un certo punto Solmi aveva prospettato ai milanesi in alternativa a Giurisprudenza. Ma va anche aggiunto che, alla verifica effettiva, la concorrenza milanese, pur ovviamente incidendo sulla realtà pavese, non avrebbe determinato le conseguenze catastrofiche tanto temute, agendo semmai da incentivo ad affrontare con diverso slancio i vari problemi ed offrendo elementi in più da far valere rispetto alle autorità, sia nazionali sia locali[24].

03

Nel primo pomeriggio dell’8 dicembre 1924, un lunedì allietato da un sole inconsueto per la stagione, in una delle grandi sale del Castello Sforzesco, alla presenza dei rappresentanti di numerosi atenei italiani e stranieri e del ministro Casati (a suo tempo invitato, non era invece presente Mussolini, che pronunciò comunque parole di circostanza in Senato), ebbe luogo la cerimonia inaugurale della nuova Università. Non tutto, a dire il vero, si svolse, nella circostanza, nel migliore dei modi. A turbare in parte la festa intervennero in particolare, con qualche disguido organizzativo, le intemperanze e le chiassate di alcuni gruppi studenteschi, per lo più venuti da fuori, che già da qualche giorno avevano fatto sentire la loro chiassosa presenza in città, avendo eletto a proprio quartier generale la Galleria Vittorio Emanuele. La mattina di quello stesso giorno alcune centinaia di goliardi avevano sfilato in rumoroso corteo nelle vie del centro, portandosi poi sul luogo dell’inaugurazione, dove s’erano viste respinte dal servizio d’ordine, già alle prese con un numero di invitati largamente superiore alla capienza del luogo. Un gruppo era comunque riuscito a penetrare nella sala, e non certo con l’intenzione di restarsene tranquillo[25].

Quando Mangiagalli salì sul palco delle autorità si levarono in effetti grida di «Viva Pavia». E i disturbi crebbero quando prese la parola il senatore Baldo Rossi, incaricato a nome dell’apposito Comitato promotore di offrire a Mangiagalli la mazza d’argento e avorio, opera dello scultore Castiglioni, emblema della sua autorità. Il pubblico reagì a sua volta con proteste e grida; nacquero diverbi e qualche tafferuglio, finché non intervennero carabinieri e questurini, i quali provvidero all’espulsione dei disturbatori, la cui azione proseguì comunque dall’esterno, dal Cortile della Rocchetta. Né mancarono, il giorno dopo, i tentativi (si stavano vivendo le ultime settimane di una sia pur condizionata libertà di stampa, prima dei decreti mussoliniani del gennaio successivo) di presentare le intemperanze in chiave antifascista. Come scrisse uno studente, laureando di Filosofia, alla socialriformista «Giustizia»: «I nostri fischi erano, sì, proteste contro la mala organizzazione, ma, più ancora, volevano dimostrare che non tutti i goliardi presenti sentivano di poter in coscienza applaudire il rappresentante del Governo e il ministro di Mussolini»[26]. Dopo averla deplorata, il «Popolo d’Italia», si affrettò invece a definire la manifestazione come una normale chiassata goliardica, il cui unico torto era stato di intervenire «in periodo di carnevale aventinesco». A quanto era avvenuto non andava insomma attribuito alcun significato particolare: «Ministri e professori fischiati dagli studenti, o per beffa o per diletto o per passatempo, ce ne sono stati in tutte le epoche e in tutte le contrade della terra…»[27]. E potevano, a questa stregua, venir fatte rientrare nella norma anche le ironie del «Guerin Meschino» circa la vanità e l’irresistibile voglia di protagonismo del sindaco-rettore, con i suoi «cinquantasette chilogrammi di decorazioni[28]».


1

Regia Università degli Studi di Pavia, Annuario accademico 1923-24, Pavia 1924, pp. 8-11.

2

«Il Secolo», 29 novembre 1923, L’avvenire dell’Università di Milano.

3

«Il Popolo d’Italia», 10 ottobre 1923, Problemi di Alta Coltura. Una lettera del prof. Volpe.

4

«La Sera», 26 novembre 1923, C. Pascal, L’Università di Pavia e l’Università di Milano.

5

«La Sera», 5 dicembre 1923, C. Pascal, Ancora l’Università di Pavia e l’Università di Milano. E cfr. nello stesso senso, ivi; 8 dicembre 1923, Il pensiero del senatore Del Giudice. Nel panorama della stampa milanese, «la Sera» occupava in quel periodo la posizione già propria del «Secolo», ceduto qualche mese prima ad un gruppo guidato da Senatore Borletti e passato da posizioni democratico-radicali all’aperto fiancheggiamento al fascismo.

6

«La Sera», 8 dicembre 1923, Una lettera del senatore Mangiagalli.

7

Cfr. «La Sera», 30 novembre 1923, L’on. Caldara non accetta di partecipare alla Commissione per l’Università di Milano.

8

Atti del Consiglio comunale, Seduta del 13 dicembre 1923, pp. 348-350.

9

Ivi, pp. 350-352. Ribadì a sua volta qualche giorno più tardi la medesima tesi sugli effetti esiziali che l’operazione avrebbe avuto per Pavia l’ex-sindaco Caldara: cfr. «La Giustizia», 11 gennaio 1924, E. Caldara, Per l’Ateneo lombardo.

10

Cfr. «Corriere della sera», 12 gennaio 1924, Per l’Università di Milano. La 4a lista dei sottoscrittori.

11

«Relazione su lo schema di convenzione relativa al mantenimento della Regia Università di Milano» (relatore Mario Donati), in Archivio Centrale dello Stato (d’ora in avanti ACS), Min. Pubbl. Istruz., Direz. gen. Istruz. sup., Div. II, b. 18.

12

L. Mangiagalli a B. Mussolini, 18 giugno 1924, in ACS, Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario (d’ora in avanti SPD-CO), fase. 509.619. Ivi anche la copia della delibera sopra citata, del 17 giugno, della Giunta municipale circa l’incremento del finanziamento annuo.

13

Cfr. «Il Popolo d’Italia», 26 giugno 1924, La grande Università di Milano è un fatto compiuto.

14

Cfr. G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, pp. 337-338.

15

Cfr. l’intervista al «Giornale d’Italia», 10 dicembre 1921, Università cattolica e libertà d’insegnamento, e la lettera al «Corriere della sera», 11 febbraio 1924, L’Università cattolica non è ente morale.

16

A. Solmi a A. Casati, 10 luglio 1924, in Museo del Risorgimento, Milano (d’ora in avanti MRMi), Carte Alessandro Casati, cart. 24, fasc. «Università di Pavia».

17

Cfr. l’organo della Federazione fascista pavese, «Il Popolo», 21 giugno 1924, Il problema universitario avviato alla soluzione. I deputati delle due Provincie al lavoro.

18

«Il Popolo», 28 giugno 1924, Il Problema Universitario. Pessimismo fuori luogo.

19

«Il Popolo», 18 luglio 1924, La questione universitaria al punto dell’accordo. Un telegramma di S. E. Mussolini.

20

«Corriere della sera», 22 luglio 1924, La questione dell’Università.

21

T. di Mangiagalli a Mussolini e a Casati, 19 luglio 1924, in MRMi, Carte Alessandro Casati, cart. 24, fasc. «Università di Milano».

22

T. n. 5534 del prefetto Nasalli Rocca al Sottosegretario Suardo, 19 luglio 1924 ivi, cart. 31, fasc. «Lettere diverse 1924».

23

Relazione di M. Tovajera, 28 luglio 1924, ivi, cart. 24, fasc. «Università di Pavia». Sullo svolgimento dei lavori della Commissione mista cfr. anche il resoconto di G. Biraghi, che ne fece parte: G. Biraghi, La fondazione, cit. pp. 166 e segg.

24

Cfr. in questo senso E. Signori, L’università in uniforme. Momenti e aspetti di vita universitaria a Pavia tra Regime e guerra mondiale, in «Storia in Lombardia», XII (1993), pp. 194 e sgg.

25

Cfr. ad es. la cronaca del «Secolo», 9 dicembre 1924, L’Università di Milano solennemente inaugurata.

26

Cfr. «La Giustizia», 11 dicembre 1924, Echi delle dimostrazioni studentesche. Una risposta al «Popolo d’Italia».

27

«Il Popolo d’Italia», 10 dicembre 1924, Anche le chiassate degli studenti servono alle speculazioni delle opposizioni.

28

«Guerino Meschino», 14 dicembre 1924, Il Senatore Mangiagalli.

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