Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Un’unica «città universitaria Pavia-Milano»?


Parole chiave: Rapporti istituzionali

Già inaugurando nel novembre 1913 il nuovo anno accademico, l’allora rettore dell’ateneo ticinese, il glottologo e neolatinista Egidio Gorra, aveva dedicato un ampio spazio della sua lunga relazione allo stato dei rapporti tra Milano e Pavia dopo l’interrogazione Golgi al Senato e l’avvenuto varo del consorzio per la realizzazione della nuova «Città degli Studi». Anche alla luce dei contatti e delle informazioni assunte direttamente presso i promotori dell’Associazione per l’alta coltura, Gorra non dava troppo credito all’ipotesi che le nuove realizzazioni in preparazione potessero davvero contenersi entro la divisione delle parti a più riprese rivendicata dai pavesi come condizione minima di sopravvivenza. Il processo che spingeva i grandi centri urbani a trasformarsi in sedi di studi superiori, funzionali alle proprie esigenze, era di portata più vasta e diffusa e conteneva una sua incontrovertibile ragion d’essere. Non aveva d’altro canto molto senso, nel momento in cui risultavano in difficoltà, fuori dei confini, non conferendo titoli con valore legale, istituzioni come il Collège de France o l’École pratique des hautes études, ipotizzare che Milano si accontentasse, per i suoi istituti di perfezionamento, di quel modello. Così come, d’altra parte, non ci si poteva illudere circa la natura, non edilizia soltanto, del progetto di rinnovamento appena varato. Quella che stava prendendo corpo – Gorra mostrava di non dubitarne – era, né più né meno, che «una nuova grande Università, se così può dirsi, “post universitaria”», con il rischio, peraltro, che non fosse in realtà questa la sua configurazione finale. Era un dato di fatto che, nel frattempo, le due strutture preesistenti, sorte a suo tempo nella città ambrosiana con fisionomie volutamente diversificate da quelle delle facoltà tradizionali, l’Istituto tecnico superiore e l’Accademia scientifico-letteraria, si fossero per contro sempre più uniformate proprio a quella tipologia. Se non si fosse intervenuti tempestivamente, era cioè inevitabile che anche per gli altri settori si passasse rapidamente a Milano dal modello post-universitario, al momento in discussione, a quello di una normale fabbrica di laureati e diplomati, come già ne esistevano troppe in Italia, facendo sì che si perdesse una grande occasione e determinando inevitabili, dolorose ripercussioni su Pavia, certamente privata delle «parecchie centinaia» di studenti che non si sarebbero più sobbarcate al fastidio di recarsi in riva al Ticino, potendo usufruire di un medesimo servizio entro le proprie mura cittadine.

Ma se le cose stavano effettivamente così, la reazione adeguata era una soltanto: impedire che Milano si avviasse «da sola per la propria strada», prendendo per contro immediatamente atto dell’offerta di «patto fraterno» avanzata da Mangiagalli e concretandola in una forma istituzionalizzata. «Fatti più saldi i vincoli morali che già legano le due sedi di studi; rese più rapide le comunicazioni fra esse, sorga una sola grande città universitaria, che senza barriere o confini, ospiti una sola famiglia universitaria, di docenti e discenti»: quello che insomma prendeva corpo era il sogno di una «città della Scienza, stendentesi fra le rive del Ticino e quelle dell’Olona», spettacolo mirabile e senza eguali:

 

Essa sarebbe monumento non mai più veduto in Italia e argomento di ammirazione agli stranieri; sarebbe testimonio insigne del come possano conciliarsi e fondersi le antiche e le nuove forme di vita; esempio novello, direbbe ancora un nostro poeta, del come lo spirito italiano sappia mostrarsi conservatore e novatore ad un tempo; e un nuovo acquisto di libertà, un nuovo avanzamento di civiltà improntare col suggello della tradizione e della storia[1].

 

L’anno dopo, nella stessa circostanza, Gorra riprese in maniera anche più esplicita le medesime indicazioni. Anziché opporsi all’inevitabile, l’ateneo ticinese avrebbe dovuto operare per impedire che il processo sfuggisse totalmente al suo controllo. L’avvio a realizzazione – così finalmente sembrava – del nuovo Policlinico rappresentava un evidente primo passo in simile direzione, in quanto dimostrativo della piena legittimità della rivendicazione dell’unicità della Facoltà medica pavese. Ma bisognava per altro verso riuscire ad ancorare il processo in atto a Milano al principio della non sovrapposizione dei ruoli e della differenziazione delle strutture, facendo dunque sì che davvero vi si realizzasse «qualcosa di nuovo e di diverso da quanto con desolante e dannosa uniformità» si era sin lì continuato a fare in Italia in campo universitario. Tanto più nel contesto dei progetti di generale riforma degli atenei allora in corso di elaborazione, Gorra ribadiva l’ipotesi dell’unico «Ateneo lombardo» steso dall’Olona al Ticino, una «città universitaria Pavia-Milano» capace di soddisfare le esigenze e le ambizioni di entrambi i centri interessati[2].

L’entrata poco più tardi anche dell’Italia nel conflitto determinò in ogni caso una situazione non propizia per eventuali iniziative autonome e di rottura da parte milanese. L’ipotesi della collaborazione, nella prospettiva delineata da Gorra, dovette sembrare pertanto l’unica percorribile anche agli occhi di chi, a Milano, intendeva comunque procedere sulla via intrapresa. Per il momento essa pareva assolutamente senza alternative, e a guerra conclusa la rilanciò il rettore Oreste Ranelletti, il quale tornò a parlare di Pavia e di Milano unite entro «un solo grande ateneo»: «la più grande Università del nostro Regno e uno dei più cospicui centri di studi superiori dell’Europa»[3]. Perno del progetto continuavano ad essere i rapporti tra la Facoltà medica e gli Istituti di perfezionamento, destinata a preparare laureati la prima, a specializzarli e ad avviarli alla professione i secondi. Con una importante novità: alla persistente divisione dei ruoli avrebbe dovuto infatti corrispondere d’allora in avanti la fusione dei due organismi in un’unica «Facoltà medico-chirurgica e di perfezionamento»; un progetto per il momento accolto sia dagli organi accademici pavesi, sia da Mangiagalli e che trovò la sua sanzione, dopo il voto favorevole di entrambi i Consigli comunali interessati, in una apposita legge del marzo 1921. Grazie ad essa i sei titolari degli Istituti clinici entrarono a far parte della Facoltà medica: una condizione in astratto interpretabile sia nel senso di una loro omologazione a quest’ultima, sia in quello, del tutto opposto, di un potenziale mutamento dei rapporti di forza al suo interno. Non semplificava certamente le cose il fatto che, ormai a dieci anni di distanza dalla legge che, garantendo i finanziamenti necessari, avrebbe dovuto avviarlo a soluzione, il problema del nuovo Policlinico pavese, enormemente aggravato dalla crescita dei preventivi di spesa rispetto all’anteguerra, risultasse ancora ben lontano dallo scioglimento.

Più in generale, veniva interpretata a Pavia come un’ennesima riduzione delle proprie prerogative la concessione nel frattempo ottenuta dall’Università Bocconi della parificazione della sua laurea a quella della Facoltà di Legge ai fini della partecipazione ai concorsi pubblici. E c’era chi segnalava come da non trascurare, per i probabili, non lieti contraccolpi che ne sarebbero presto venuti, l’inaugurazione, il 7 dicembre 1921, dell’Università Cattolica, dotata già di cento iscritti il primo anno, quando la locale Facoltà di Lettere e filosofia ne aveva 80 in tutto. Un tempo quarta, per numero di studenti, a livello nazionale, ora Pavia era solamente undicesima, superata «persino» da Modena[4]. Dati tutti che sembravano confermare, per i più pessimisti, una diagnosi di inarrestabile decadenza: «Verrà un giorno che non sarà lontano, in cui la regina di un tempo, la capitale d’Italia, sarà ridotta a meno di un villaggio per non aver avuto, fra migliaia di suoi figli, chi la difendesse a viso aperto contro la ingordigia dei ricchi vicini…»[5].

La pace apparente entro la rinnovata Facoltà medica (e, in particolare, tra Golgi e Mangiagalli, le due figure di maggior spicco, portavoce delle opposte istanze che vi erano momentaneamente rifluite) non durò in ogni caso che pochi mesi. A riaccendere lo scontro fu il progetto di Mangiagalli di accorpare agli Istituti clinici un nuovo Istituto di Neuropatologia, finanziato dal costruttore Piero Puricelli, e da affidare, per chiamata, a Carlo Besta, allora titolare a Messina. La Facoltà si divise. Al di là del caso personale, e dei risvolti relativi, erano palesemente in gioco le prerogative degli Istituti clinici entro la Facoltà, ovvero la sovranità di quest’ultima rispetto ai primi. Golgi che, per ragioni di età, non aveva più diritto di voto in Facoltà, ma vi conservava una parte della sua influenza, si schierò decisamente contro e la proposta di trasferimento non ottenne la maggioranza richiesta. Mangiagalli si dimise allora per protesta da decano degli Istituti clinici, dandone notizia mediante un’intervista al «Corriere della sera»[6]. Golgi reagì molto polemicamente[7]. Seguì la controreplica, non meno risentita, di Mangiagalli, il quale individuava nell’episodio l’inconfutabile, ennesima riprova della volontà di prevaricazione della Facoltà pavese rispetto alle legittime aspirazioni degli Istituti milanesi[8]. Contro l’ipotesi in sé della creazione della nuova clinica, per l’eccesso di specializzazione di cui sarebbe stata espressione (e per l’ennesima sottrazione di peso che sarebbe loro venuta, a vantaggio degli Istituti clinici) presero peraltro posizione anche i primari dell’Ospedale Maggiore, affiancati da una parallela valutazione del settimanale dell’Unione nazionale dei medici italiani: e di entrambe le manifestazioni ci si avvalse ovviamente, a sostegno delle proprie tesi, a Pavia[9]. Una ricomposizione dell’incidente venne ancora ottenuta a fine ottobre, con il voto unanime da parte della Facoltà di un ordine del giorno che, «a dirimere le interpretazioni unilaterali ed arbitrarie», regolava le modalità di svolgimento dei corsi di perfezionamento e l’attribuzione dei relativi incarichi e delle responsabilità di direzione, stabilendo altresì di avvalersi, secondo modalità da definire da parte di una apposita commissione, delle competenze integrative ottenibili dalle «forze vive» operanti presso gli Istituti ospitalieri. A fronte della preghiera, formulatagli nell’occasione, Mangiagalli accettò di ritirare le proprie dimissioni[10].

Ma si trattò di un accomodamento di brevissima durata. A riaccendere poco dopo le polemiche intervenne infatti a metà dicembre il voto da parte della Facoltà medica di una mozione proposta dal titolare di Igiene, Ernesto Bertarelli, in cui, considerate le persistenti, critiche condizioni delle strutture cliniche locali e le ben diverse circostanze in cui sarebbe stato possibile operare a Milano, anche con «un numero di studenti triplo dell’attuale», si proponeva la nomina di una commissione che studiasse la questione, prendendo gli eventuali accordi ai fini di un trasferimento nella città ambrosiana dell’intera Facoltà. Mangiagalli si tenne ostentatamente fuori dal tentativo, facendo ribadire, anche attraverso il comunicato rettorale riguardante l’episodio, di non avere mai inteso «insidiare l’Università pavese, dalla quale si era invece sempre ripromesso, nell’interesse comune, una amichevole collaborazione»[11]. Nella commissione incaricata di riferire si delineò comunque una maggioranza favorevole al trasferimento: un colpo durissimo per Golgi, costretto a constatare la sua perdita di autorità sulla Facoltà, d’altronde parzialmente modificatasi, nel frattempo, anche nella composizione del gruppo pavese[12].

La vicenda non avrebbe avuto seguito. Ma dietro le pur numerose prese di posizione a difesa dell’ateneo ticinese e delle sue prerogative, apparentemente convergenti, erano avvertibili punti di vista tutt’altro che omogenei e convinti circa la strategia da tenere e le iniziative da assumere per eliminare una volta per tutte il rischio del riassorbimento da parte della vicina metropoli. La stessa idea di fare comunque blocco e di non cedere in niente non era affatto condivisa, come dimostrava il rettore del Collegio Borromeo, Riboldi: «Se Milano mi desse Lettere e Filosofia da portare qui e farne una facoltà completa, gli darei Medicina allegramente». E un’ipotesi analoga veniva avanzata con riguardo a Giurisprudenza: «meglio l’accordo che ci consenta vive e sane due Facoltà, anzi che intristire con tutt’e quattro»[13].

Per il momento ancora in piedi, l’ipotesi dell’unico ateneo lombardo, articolato tra le due città con una chiara e consensuale divisione di compiti, mostrava in realtà sempre più la corda.


1

Annuario della Regia Università di Pavia. Anno accademico 1913-14, Pavia 1914, p. XLVI.

2

Annuario della Regia Università di Pavia. Anno accademico 1914-1915, Pavia 1915, p. XIII.

3

Regia Università di Pavia, Inaugurazione dell’anno accademico 1918-19, Pavia 1919, p. 16.

4

«La Provincia pavese», 18 dicembre 1921, A. Boerchio, L’Università Cattolica di Milano e la nostra Università.

5

«La Provincia pavese», 4 novembre 1921, p. r., Pavia muore.

6

Cfr. «Corriere della sera», 13 agosto 1922, Una crisi agli Istituti clinici. Le dimissioni del sen. Mangiagalli.

7

«Corriere della sera», 31 agosto 1922, La crisi negli Istituti clinici. Una lettera del sen. Golgi.

8

«Corriere della sera», 3 settembre 1922, La crisi agli Istituti clinici di perfezionamento. Una lettera del sen. Mangiagalli. E cfr. la nuova precisazione di Golgi, ivi, 7 settembre 1922, Ancora la crisi agli Istituti clinici. Una replica del sen. Golgi.

9

Cfr. «La Provincia pavese», 27 settembre 1922, La crisi degli Istituti clinici di perfezionamento.

10

«Corriere della sera», 28 ottobre 1922, La crisi agli Istituti clinici risolta. Il prof. Mangiagalli ritira le dimissioni.

11

Cfr. «La Provincia pavese», 17 dicembre 1922, Il problema dell’Università.

12

Pensa, Ricordi, cit., pp. 182-183; Mazzarello, La struttura nascosta, cit., pp. 495 e sgg.

13

«La Provincia pavese», 31 dicembre 1922, II problema dell’Università.

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