Storia della Bocconi

1915-1945. Tra le due guerre

Provenienze geografiche, destinazioni e carriere


Un fattore che in qualche misura pare aver concorso ad un decadimento del livello qualitativo dei laureati della Bocconi sembra identificabile in una crescente limitazione alla Lombardia, e alla provincia di Milano, dei bacini geografici e sociali di provenienza degli iscritti. Una limitazione, nello scorcio finale degli anni Trenta, fattasi tanto accentuata da indurre Girolamo Palazzina ad interrompere l’antica buona abitudine di pubblicare negli Annuari bocconiani la statistica delle regioni d’origine degli immatricolati. Dall’anno di fondazione, e fino al 1933, ci è offerta l’opportunità di vagliare e di aggregare gli studenti secondo le regioni di provenienza, in modo da verificare se l’intento del fondatore e del primo Rettore, di aprire cioè una scuola superiore commerciale destinata alla formazione dell’élite economica dell’intero paese, fosse stato o meno realizzato.

Nel procedere all’aggregazione delle informazioni disponibili (Tabella 4.4 in Appendice) si sono scelti tre periodi diversamente significativi sotto il profilo cronologico e si sono identificate cinque macro-aree, quattro delle quali interne alla geografia economica e sociale della penisola ed una generica per l’estero, da cui non cessò mai di giungere un rivolo d’iscrizioni, anche negli anni più «neri» delle relazioni politiche, economiche e culturali dell’Italia fascista con le altre nazioni del mondo. Nell’aggregare le numerose informazioni disponibili, è stata eretta a criterio di suddivisione delle provenienze geografiche degli iscritti la diversità delle condizioni economiche e sociali esistenti nell’Italia del primo trentennio del Novecento, secondo una gerarchia riconducibile alle medie regionali dei redditi pro capite (vedi Figura 7)[1].

Rispetto al periodo 1902-1914, nel quale Leopoldo Sabbatini aveva fatto della sua Università commerciale un ateneo effettivamente nazionale, nei difficili anni del primo dopoguerra, eccezion fatta per gli studenti provenienti dall’estero e per quelli che salivano a Milano dalle regioni del centro-meridione arretrato, a far tempo dal 1921-24 presero a manifestarsi tendenze involutive destinate ad ulteriori peggioramenti fra fine anni Venti ed inizio Trenta quando, oltretutto, la congiuntura economica interna ed internazionale volgeva al peggio. A complicare e ad aggravare quelle circostanze generalmente sfavorevoli, in molte regioni i potenziali iscritti vennero dissuasi dalla riattivazione e dall’apertura d’Istituti Superiori di Scienze economiche e commerciali come quelli di Trieste, inaugurato nel 1877 e rilanciato nel 1919[2], di Firenze, gemmato dalla Cesare Alfieri nel 1926[3], di Bologna, fondato dalle associazioni economiche e dai maggiori istituti di credito locali nel 1929[4] ed, infine, dall’avvio del corso di laurea in Economia e Commercio attivato in Milano presso la Facoltà di Scienze Politiche della Cattolica ed approvato dal ministero nel 1936[5].

 

Figura 7 Provenienza geografica degli studenti iscritti all’Università Bocconi (1902-1933).

Figura 7

Nei primi anni Trenta, dunque, per una somma di circostanze prevalentemente esogene, e per effetto di dinamiche incontrollabili tanto dal Consiglio d’Amministrazione quanto da quello Direttivo, la composizione regionale dei giovani immatricolati alla Bocconi risultò profondamente mutata rispetto agli assetti raggiunti nel corso dei primi vent’anni di storia dell’ateneo commerciale. Poco meno dei tre quarti degli studenti provenivano ormai dalle regioni del triangolo industriale. A differenza, però, di quanto era capitato fino alla vigilia della guerra europea, gli apporti di piemontesi e di liguri si erano ridotti al lumicino concorrendo rispettivamente col 4,5 e col 2,7% di iscritti alla percentuale complessiva del 72%, vale a dire offrendo esattamente la decima parte degli allievi originari del Nord-Ovest. In conclusione, stava prendendo il sopravvento un processo centripeto, che potrebbe essere sinteticamente enunciato con lo slogan: i bocconiani degli anni Trenta erano per almeno due terzi lombardi e, per tre quarti, ragionieri.

Le indagini condotte sui luoghi d’origine dei giovani italiani laureatisi alla Bocconi fra il 1915 ed il 1943[6], opportunamente aggregati secondo i criteri geo-socio-economici più volte richiamati (si veda in Appendice la Tabella 4.8), confermano largamente le tendenze emerse trattando degli iscritti, la maggior parte dei quali, vale la pena di ricordarlo, non sarebbe mai arrivata ad addottorarsi. Se la distribuzione calcolata per il primo decennio (1915-24) dà effettivamente conto della vocazione nazionale della Bocconi, pienamente realizzata fino alla metà degli anni ’20, a partire dal 1925 le percentuali denunciano una involuzione davvero stupefacente, causata da un insieme di trasformazioni non meno accelerate ed intense intervenute nelle mentalità collettive, nella vita politica centrale e periferica, nella cultura, negli assetti sociali e nell’economia del paese. Trasformazioni tutte uniformemente orientate verso un progressivo irrigidimento ed una chiusura nel particolarismo, che ben sono rappresentate e sintetizzate dalla condizione di autarchia nella quale l’economia italiana finì per trovarsi inviluppata dopo la grande crisi del 1929-33 ed, ancor più, all’indomani delle sanzioni prese dalla Società delle Nazioni a nostro carico nel novembre del 1935.

Con riguardo ai dottori originari di Milano, il processo di crescita, oltre che rapido, appare quanto meno vistoso. Le percentuali riunite nella Tabella 4.7, pubblicata nell’Appendice, testimoniano di una progressione che, dal sorprendente basso livello del 4,5% del quadriennio 1915-18, ne raggiunse uno più che quadruplo (18,5%) entro il 1923-26 e non s’interruppe fino ai primi anni Trenta (42,9%) quando, finalmente stabilizzatesi, le percentuali di ambrosiani si aggirarono per tutto il decennio attorno al 40%. Sul breve arco di un quarto di secolo, insomma, da una condizione di generosa apertura verso giovani provenienti da ogni contrada della penisola, la moltiplicazione dei corsi di laurea in Economia, gli effetti della riforma scolastica di Giovanni Gentile, il raddoppio degli organici della burocrazia statale ed, infine, una congiuntura economica lungamente sfavorevole, concorsero a modificare radicalmente la geografia d’origine degli allievi bocconiani accentuandone il carattere lombardo e metropolitano ed attenuandone quello nazionale, proprio negli stessi anni in cui i flussi migratori orientati da molte regioni verso la grande Milano conoscevano un’apprezzabile ripresa, dopo una stagione di ristagno durata dal 1927 al ’31[7].

Le informazioni di cui disponiamo attorno alle carriere dei laureati permettono di gettare qualche sguardo sui loro destini secondo una prospettiva che tiene conto della specificità del titolo di studio che avevano conseguito. Il loro inserimento nel concerto delle professioni non fu né agevole né spedito. I bocconiani presentavano un profilo tecnico assimilabile a quello dei manager comparsi sulla scena europea al tempo della seconda rivoluzione industriale, il cui potere si fondava sulla competenza e su di una cultura acquisita attraverso una formazione di livello superiore[8]. Basti pensare al contrastato processo di affermazione dei laureati in Scienze economiche e commerciali nelle posizioni che andavano da quella di funzionario e di impiegato nel settore pubblico centrale e periferico fino a quella di gestore e contabile delle aziende municipalizzate. Né meno problematico fu il riconoscimento di ruoli e funzioni specifiche esercitabili nelle imprese private commerciali, industriali e soprattutto creditizie oppure nel campo dell’insegnamento negli Istituti Tecnici ed, infine, nell’esercizio della libera professione, come si è potuto vedere più addietro trattando delle vicende dell’Associazione fra laureati.

Un modo per identificare il profilo culturale dei bocconiani è rappresentato dagli argomenti affrontati in occasione della dissertazioni di laurea. Un accurato inventario sistematico dei relatori delle tesi non solo permette di discernere verso quali campi disciplinari si orientassero di preferenza i laureandi, ma ci informa anche sul genere di competenze da loro vantate al momento dell’inserimento nel mondo del lavoro. La tripartizione nei settori economico, giuridico e tecnico, a suo tempo escogitata da Leopoldo Sabbatini nel predisporre il piano generale degli studi, torna utile nonostante le riforme introdotte soprattutto in quel comparto che le innovative intuizioni di Gino Zappa, in seguito, avrebbero suggerito di identificare con l’Economia aziendale. I risultati di un’indagine analoga, già condotta sugli argomenti delle tesi discusse fra il 1906 ed il 1914[9], verranno utilizzati, come utili termini di raffronto, per i due periodi nei quali sono state suddivise le informazioni di cui si è arrivati a disporre al termine di un paziente lavoro di ricognizione su titoli e relatori di poco meno di duemila dissertazioni di laurea (vedi Figura 8).

I risultati cui si è pervenuti sono più che mai espliciti. L’impianto disciplinare e didattico originario, per quanto riformato dall’interno e, talvolta, tempestivamente allineato a provvedimenti presi in sede ministeriale, permase sostanzialmente immutato fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel periodo intermedio 1915-1930, nella scelta degli argomenti di tesi, vi fu un notevole cedimento d’interesse da parte dei laureandi tanto per le discipline aziendali e merceologiche, quanto, ed ancor più nettamente, per quelle giuridiche. Non è agevole risalire alle ragioni di una polarizzazione così forte verso l’Economia politica, se non facendo ricorso a due fattori esplicativi che sembrano soprattutto validi per gli anni Venti. Il primo è rappresentato dal non semplice né indolore innesto della Ragioneria e delle Tecniche (anzitutto bancaria e, poi, industriale e commerciale) in un’architettura che, all’inizio, aveva intenzionalmente sottovalutato quel comparto disciplinare per prendere nettamente le distanze dalle tradizionali competenze dei ragionieri. Né sembrano da sottovalutare, nella scelta dei docenti con i quali svolgere la tesi, gli effetti dissuasivi dovuti alle votazioni bassissime ed alle numerose bocciature ricorrenti negli esami di Ragioneria. Il secondo fattore sembra ravvisabile nel ricambio di numerosi docenti dei corsi giuridici e nella loro orgogliosa «distanza» dagli studenti di economia.

Col passare del tempo, nel secondo quindicennio del periodo qui studiato (1931-1945), l’innesto delle discipline aziendali cominciò a dare consistenti frutti. Le tesi in Economia politica, Politica economica (dirette da Giovanni Demaria) e, soprattutto, in Statistica demografica ed economica tornarono ad assumere le proporzioni fisiologiche che avevano nel primo Novecento. La sensibile crescita delle dissertazioni nel comparto tecnico, come lo aveva a suo tempo chiamato Sabbatini, dava ragione della scelta strategica di migliorare, con una cura da cavallo, la zoppicante cultura ragionieristica dei bocconiani, mentre anche le dissertazioni di laurea nelle discipline giuridiche riuscirono a riguadagnare uno spazio consistente.

 

Figura 8 Suddivisione disciplinare degli argomenti di tesi di laurea all’Università Bocconi (1906-1945).

Figura 8

Conviene ora uscire dalle aule dell’Università commerciale per tentare di seguire i destini professionali dei relativamente pochi giovani che avevano coronato con la laurea il loro impegnativo curricolo di studi. Gli oltre mille e trecento dottori per i quali si hanno dettagliate informazioni si distribuiscono lungo un trentennio contrassegnato, come si è potuto accertare, da non pochi aggiustamenti e mutamenti dei caratteri originari dell’istituzione educativa milanese. Per di più, nell’analizzare le loro carriere, è pur necessario tenere conto di due ordini di condizionamenti, entrambi di non poco peso. Il primo è dato dall’epoca in cui queste ultime vennero intraprese. È superfluo osservare che, se si analizzano le informazioni di cui si dispone per l’anno 1940, è inevitabile privilegiare i laureati più anziani. Infatti, quanti si addottorarono entro il 1922 ebbero molto più tempo a disposizione per migliorare la loro posizione professionale. Per contro, non pochi fra i 327 laureati usciti dalla Bocconi fra il 1931 ed il 1938, per quanto capaci ed intraprendenti fossero stati, nel 1940 si trovavano ancora nella fase di avvio e di rodaggio della loro personale carriera, sicché la loro condizione momentanea sembra assimilabile assai più ad una indicazione di tendenza piuttosto che ad una stabile identificazione di status.

Il secondo ordine di condizionamenti esterni è dato dai mutamenti intervenuti nel soma economico, politico e sociale del nostro paese sull’arco del trentennio nel quale vennero svolgendosi le carriere che si sono potute considerare. Fino allo scoppio della Grande Guerra, l’economia italiana aveva sperimentato una stagione singolarmente favorevole con particolare riguardo a quelle attività di produzione, distribuzione e servizi in qualche misura collegate al commercio nazionale ed internazionale. Si potrebbe dire che, fino ai primi anni Venti, nonostante la pausa bellica, i problemi di riconversione industriale ad un’economia di pace, l’inflazione della lira e gli accesissimi conflitti fra padronato e mondo operaio come fra agrari e contadini, non intralciarono troppo l’inserimento nel mondo produttivo dei dottori in Economia e Commercio. Dal 1923 in avanti, e secondo una progressione che avrebbe conosciuto il suo minimo congiunturale nei primissimi anni Trenta, un processo di concentrazione del capitalismo italiano ridimensionò invece la capacità di assorbimento del settore privato. Solo il raddoppio dell’organico di colletti bianchi della pubblica amministrazione centrale e periferica intervenne ad aprire accessi e sbocchi per un crescente numero di laureati bocconiani offrendo, però, soprattutto posizioni intermedie.

Le «torte» ricavate dalla Tabella 4.11, pubblicata in Appendice, offrono un’immagine tanto efficace quanto sintetica delle occupazioni dei laureati e mettono in chiara evidenza una dinamica generale uniformemente orientata da un capo all’altro del periodo storico considerato (vedi Figura 9). Col passare del tempo, si profilò un cedimento dei bocconiani in carriera nelle attività indipendenti che, da uno su tre, negli anni precedenti la Grande Guerra, scesero a uno su quattro negli anni Trenta. Nel contesto di quel genere di attività, al crollo degli imprenditori, passati da 12,3% a 4,9% da un estremo cronologico all’altro, fece da contrappeso la tenuta dei commercialisti: l’unica professione stabile delle sei che è stato possibile considerare.

Alla progressiva chiusura degli sbocchi nell’imprenditoria privata corrispose un contemporaneo speculare incremento del numero di bocconiani che trovarono impiego nella pubblica amministrazione, secondo una progressione largamente superiore alla dinamica di ampliamento degli organici realizzata dal governo nel decennio Trenta. Nell’insieme, gli inserimenti nel mondo del lavoro privato – quello costantemente maggioritario fra i tre comparti – non conobbero apprezzabili cambiamenti per i quattro gruppi di laureati che sono stati identificati, oscillando costantemente attorno al 53%. In quel vasto campo d’impiego, semmai, col passare del tempo si profilò un processo di declassamento economico e sociale della figura del laureato in Economia e Commercio. Le percentuali di laureati promossi ai quadri superiori ad esercitare funzioni dirigenti non smisero di diminuire, secondo una regressione quasi lineare che, partita da un indice quattro, ripiegò gradualmente fino ad uno. In pari tempo, un processo pressoché speculare interessò quei laureati addetti a funzioni di concetto, come allora si diceva, il cui peso percentuale triplicò da un estremo all’altro del trentennio considerato.

 

Figura 9 Posizione professionale dei laureati bocconiani (1907-1938).

Figura 9

In conclusione, e lasciando da parte le attività indipendenti, se poco meno della metà (46,6%) dei laureati degli anni 1907-14 nel 1940 era giunta ad occupare posizioni di vertice tanto nel settore privato quanto in quello pubblico, quanti guadagnarono la laurea negli anni della guerra ed in quelli del dopoguerra incontrarono crescenti difficoltà per accedere a posizioni elevate ed a ruoli di alta responsabilità; posizioni e ruoli divenuti pressoché inaccessibili per le giovani leve dal 1929 in avanti. Di fatto, fra i laureati del periodo 1931-38, nell’anno 1940 prescelto come osservatorio delle carriere, solo il 13,8% era riuscito a raggiungere i piani alti delle funzioni professionali. Un divario tanto netto fra due generazioni di portatori di competenze e di abilità identiche solo in parte sembra spiegabile con la brevità delle carriere degli ultimi arrivati – poco meno, poco più che trentenni – rispetto a quelle dei colleghi cinquantacinque-sessantenni da molto tempo inseriti nel mondo del lavoro. La conclusione cui si può ragionevolmente approdare al termine di un’analisi non particolarmente raffinata è che una crescente offerta di prestazioni specialistiche, profilatasi oltretutto in una fase congiunturale in cui le posizioni disponibili negli organici dell’economia privata italiana andavano progressivamente restringendosi, comportò inevitabilmente un abbassamento del livello generale delle funzioni esercitate e dei compensi percepiti[10].

La residenza accertata nell’anno 1939 dei laureati fra il 1907 ed il 1938, ripartiti secondo le aggregazioni territoriali sin qui più volte utilizzate, permette di verificare un altro interessante aspetto delle carriere e cioè la concentrazione ovvero la dispersione dei bocconiani nelle aree geografiche a più alto potenziale economico e politico, in modo tale da misurarne l’integrazione nel ceto dirigente nazionale (vedi Figura 10).

 

Figura 10 Distribuzione percentuale dei 1988 laureati iscritti all’Alub nel 1939 in cinque aree geo-socio-economiche di residenza.

Figura 10

Il primato assoluto spettante al triangolo industriale, e soprattutto alla città di Milano (55,8%), denota nel fenomeno osservato una schiacciante dominante lombarda. Nel 1939 entro i confini della regione risiedevano poco meno dei due terzi (59,4%) di tutti i laureati bocconiani. Il profondo squilibrio a vantaggio dell’area Nord-occidentale derivò anzitutto dalla localizzazione che vi si realizzò del tessuto industriale, commerciale e creditizio italiano fin dall’ultimo Ottocento; localizzazione che, per di più, attivò un sostenuto processo migratorio di specialisti e di quadri non lombardi a favore della Lombardia. La maggior parte degli studenti giunti alla laurea, lungi dal fare ritorno nei luoghi d’origine per intraprendervi una professione, preferì stabilirsi nelle regioni del triangolo industriale, con una preferenza assoluta per il Milanese. Nei secondi anni Trenta, presa assieme, la popolazione di Lombardia, Piemonte e Liguria rappresentava la quarta parte di tutti gli abitanti della penisola. Vi operava il 53,4% degli stabilimenti industriali che contavano più di 500 addetti, vi risiedeva il 49,6% degli impiegati ed operai del settore secondario e vi avevano stabilito la loro sede legale società anonime il cui ammontare di capitale rappresentava i due terzi di tutto quello all’epoca esistente in Italia[11].

Non a caso, fuori dell’area del triangolo industriale, e del Milanese in particolare, la percentuale più alta di presenze di bocconiani riguardava l’Italia centro meridionale evoluta e soprattutto Roma, la città italiana che, con i suoi 111 residenti, nel 1939, seppur a grandissima distanza, era seconda solo a Milano. Si tratta di una significativa posizione che sembra ovvio ricondurre a carriere strettamente collegate all’impegno dei tecnici nell’amministrazione dello stato ed in quella del parastato, alla cui crescita il regime fascista dedicò cure e risorse. Merita infine di essere segnalata la piccola colonia di bocconiani residenti all’estero. A parte quelli attivi nelle colonie italiane dell’Africa orientale e in Libia, la maggioranza abitava nelle Americhe, né mancavano alcuni intraprendenti esploratori spintisi nei vicini Balcani in Jugoslavia, Romania e Bulgaria.


1

Cfr. V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia, Bologna 1978, per i raggruppamenti delle regioni in zone omogenee si veda il mio La genesi della società contemporanea europea, lineamenti di storia economica e sociale dal XVIII secolo alla prima guerra mondiale, Parma 1992, p. 485. Un procedimento analogo è stato adottato per i dati 1902-1914, suddivisi in tre sotto-periodi in M. Cattini, Gli studenti, etc., cit. pp. 319-23.

2

G. Panjek, La Scuola Superiore di Commercio a Trieste, in A.A.V.V., Dalla Scuola Superiore di Commercio allo Facoltà di Economia, Genova 1993, p. 148.

3

T. Fanfani, La facoltà dalle origini alla fine degli anni ’60, in U. Bertini, C. Casarosa, S. D’Albergo, T. Fanfani, R. Varaldo, Facoltà di Economia cinquant’anni di storia, Pisa 1995, p. 24.

4

Ibidem, B. Farolfi, L’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Bologna (1929-1937), in Dalla Scuola Superiore, etc., cit., p. 151.

5

A proposito della quale si dilunga M.A. Romani nel suo saggio.

6

ASUB, Libri matricolari degli studenti, passim.

7

E. Borruso, La società milanese, etc., cit., pp. 44-47.

8

D. Musiedlak, op. cit., p. 183. Nel Bollettino ALUB dell’ottobre 1926 (p. 101) l’orgoglio di appartenere ad un gruppo ristretto e competente era ben espresso in alcune frasi: «La cura costante con cui questa scuola sceglie il personale insegnante, la severità delle prove d’esami degli allievi, la disciplina esemplare della scolaresca, l’ampiezza e la ricchezza dei corsi speciali, delle esercitazioni, delle conferenze su questioni della più fresca attualità sono altrettanti coefficienti del prestigio di cui gode questi istituto, prestigio del quale sente tutto il compiacimento ed insieme tutta la responsabilità. I giovani che ne escono laureati, quando non si dedichino all’esercizio professionale continuano a trovare la più favorevole accoglienza nelle Banche, nelle grandi aziende commerciali e industriali, nelle organizzazioni economiche ed è con profonda soddisfazione che abbiamo visto recentemente nostri dottori chiamati a dare la loro collaborazione anche in consessi internazionali (il Dott. C. Corti, Vice Presidente della Camera di Commercio italiana a Vienna, in qualità di membro del comitato permanente del Congresso economico Centro-europeo; il Dott. F. Marmont come esperto per la determinazione dell’ammontare dei capitali tedeschi all’estero).

9

M. Cattini, Gli studenti, etc., cit., pp. 342-46 e Tab. 4.11. di p. 364.

10

A risultati analoghi, seppure al termine di ben più raffinate analisi qualitative, perviene D. Musiedlak, op. cit., pp. 183-91.

11

Ibidem, pp. 204 e 209.

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