Parole chiave: Fascismo, Rapporti istituzionali, Politecnico
Storia della Bocconi
1915-1945. Tra le due guerre
La costituzione della «Regia Università» modificò radicalmente i rapporti di forza tra i vari istituti superiori cittadini. Sino a quel momento l’egemonia del Politecnico era apparsa incontrastata: per il numero di gran lunga superiore degli studenti iscritti, per l’incidenza delle sue attività sui processi produttivi e sullo sviluppo cittadino, per l’ormai amplissima rete di laureati che detenevano posizioni di responsabilità nell’industria, nelle professioni, nei servizi, in ruoli pubblici di rilievo, per il conseguente prestigio e la forza di richiamo di cui l’Istituto godeva a livello nazionale. Non per niente era toccata al suo direttore la presidenza del Consorzio fra gli Istituti superiori cittadini, attivato nel 1875: un ruolo che in particolare Francesco Brioschi, negli oltre vent’anni in cui lo tenne, non aveva certo interpretato in maniera solo formale. Giuseppe Colombo, il suo successore alla testa del Politecnico fino alla morte, nel gennaio 1921, aveva maggiormente concentrato i suoi sforzi sulla crescita e sul rafforzamento dell’istituzione a lui affidata, trovandosi oltretutto ad avere a che fare con interlocutori, in rappresentanza degli altri enti, dalla più marcata personalità. La stessa realizzazione dell’Università Bocconi nella forma autonoma delineata da Sabbatini e non secondo il precedente progetto messo a punto da Colombo e De Angeli, di cui si è ampiamente parlato nel primo volume della presente opera, aveva rappresentato un elemento per alcuni aspetti limitativo dell’egemonia in questione. L’ulteriore, rilevante sviluppo che, per merito di Colombo, il Politecnico aveva conosciuto nel primo ’900 ne aveva comunque rafforzato vieppiù il credito e il peso relativo rispetto al contesto cittadino. Ed era di per sé sintomatico che, dei circa 150 mila metri quadrati assegnati originariamente alla Città degli Studi, i progettisti ne avessero destinati oltre 50 mila ai nove fabbricati, «fra di loro collegati da portichetti», del solo Regio Istituto tecnico superiore[1].
Il nuovo ateneo promosso da Mangiagalli, per dimensioni, fisionomia, entità degli iscritti, categorie professionali di cui diventava il referente, poneva in forse, e non solo potenzialmente, un primato sin lì indiscusso. Ma l’evento non sarebbe stato tanto preoccupante (le zone di effettiva concorrenza rimanevano, dopo tutto, ben circoscritte) se non fosse stato accompagnato da altre circostanze, e, in particolare, per cominciare, dalla classificazione anche del Politecnico, nel decreto Gentile del 30 settembre 1923, tra gli atenei di tipo B, con la conseguente immediata e drastica riduzione del contributo annuo statale da un milione e mezzo ad appena 400 mila lire (laddove al Politecnico di Torino, nelle medesime condizioni, venne attribuito quasi un milione in più)[2]. Si aggiunga che Mangiagalli manifestò inizialmente l’intenzione addirittura di incorporare anche il Politecnico nel nuovo ateneo: ipotesi che venne drasticamente respinta da un’affollata assemblea al Collegio degli Ingegneri, dove si sostenne invece
che l’autonomia del nostro Politecnico è condizione essenziale per la sua sistemazione ed il suo sviluppo e deve essere mantenuta come cardine fondamentale a somiglianza di tutte le Scuole di ingegneria d’Italia e dell’estero.
Il direttore Zunini insistette a sua volta sull’indirizzo didattico «diversissimo», e che tale doveva rimanere, tra i due tipi di istituzione. Cardine dell’insegnamento universitario era infatti la più «completa libertà nell’ordine degli studi e degli esami», laddove uno degli opposti sforzi dei docenti del Politecnico era stato proprio quello di «ripristinare quel preciso e rigoroso ordine logico didattico che era stato profondamente turbato dalla guerra». Erano d’altra parte «ben diverse» le esigenze finanziarie, così come gli enti ai quali ci si rivolgeva per ottenerle:
Dunque non uniformità di indirizzo didattico, non coincidenza nelle sorgenti a cui attingere le risorse finanziarie: quale scopo avrebbe l’abbassamento di un Ente fin qui gloriosamente autonomo al grado di facoltà universitaria[3]?
La fusione venne in effetti evitata, nonostante non dispiacesse al giovane Cesare Chiodi, all’epoca libero docente e assistente al Politecnico di Costruzione di ponti, nonché consigliere e assessore comunale, convinto invece che in un’operazione di quel tipo il suo istituto avrebbe potuto positivamente recare «il peso della propria tradizione e della propria fattività», guadagnandovi una più stretta contiguità con una «concezione sempre più umanistica ed eclettica della cultura»[4]. Rimaneva tuttavia aperta la questione finanziaria. Considerata la diminuzione nel frattempo intervenuta nel numero degli iscritti dopo la transitoria espansione derivante dal riflusso dei combattenti, e l’opportunità d’altra parte, per ragioni didattiche e legate alle effettive possibilità occupazionali, che essi si mantenessero entro limiti contenuti, anche l’intervenuta concessione di lasciare all’ateneo i proventi delle tasse avrebbe compensato in maniera solo parziale la drastica riduzione dei contributi statali. Senza dire delle spese di impianto necessarie per rendere possibile il passaggio alla nuova sede e di quelle aggiuntive di funzionamento che esso avrebbe comportato. La considerazione delle zone di provenienza degli iscritti (meno della metà delle province lombarde) attestava d’altra parte della funzione nazionale dell’istituto: ma anche un simile argomento non fece breccia.
Ricevuto da Mussolini e Gentile, Zunini si sentì dire che la decisione governativa di falcidiare le sovvenzioni alle università milanesi era stata presa di proposito, per costringere la città e le sue forze economiche a eseguire la loro parte[5]. Dopo di che non ci fu, evidentemente, null’altro da fare, se non mettersi in cerca di aiuti sulla scena locale: dovendo però fare i conti con la parallela e ben maggiore foga promozionale (e con la posizione di sindaco) di Mangiagalli. Fu di per sé indicativa la diversa entità dei contributi garantiti ai due enti dal Comune: un milione all’Università ed appena 155 mila lire al Politecnico. Fu più generosa la Camera di Commercio, allora presieduta dall’ex allievo Angelo Salmoiraghi, che, oltre al contributo ordinario di 75 mila lire, si impegnò «per dieci anni per quel sussidio che di anno in anno si renderà necessario lino ad un massimo di 300.000 lire», consentendo intanto che si colmasse il primo deficit[6]. Altre 100 mila lire (tante quante ne dava all’Università) sarebbero venute dalla Cassa di Risparmio[7]. Ma anche l’invito rivolto da Zunini ai 5 mila laureati perché si vincolassero per almeno 100 lire all’anno per cinque anni ebbe esiti modesti.
A sanare la posizione di palese inferiorità e di isolamento della leadership del Politecnico rispetto a quella dell’Università, in una fase particolarmente delicata e problematica, prossimi, come ormai si era, al trasferimento alla Città degli Studi, intervenne la sostituzione, quale direttore, di Zunini con Gaudenzio Fantoli: un’operazione invero dai curiosi connotati, considerato come a promuoverla fosse un ampio numero di docenti, i quali, nell’ottobre 1924, quando Zunini era ancora in carica, inviarono una petizione in tal senso al ministro, al quale spettava, secondo le nuove norme, la designazione. Il fatto più singolare era che Fantoli, specialista di idraulica, pur essendosi formato al Politecnico ed essendovi stato chiamato «per chiara fama» nel 1919, non vi aveva mai insegnato – salvo un anno, subito dopo la laurea, trascorso a fare l’assistente – né vi insegnava. Designandolo, si intendeva in realtà affidarsi ad un personaggio ampiamente affermato sul piano tecnico-scientifico, con buone e qualificate relazioni, del quale erano note le capacità organizzative, ritenuto in grado di farsi valere e di sicuro peso (a differenza di Zunini) anche per la posizione politicamente ineccepibile della quale godeva, avendo percorsa tutta intera la parabola dal moderatismo giovanile al nazionalismo, e da questo al fascismo, del quale si dichiarava fervido sostenitore, avendone ottenuta l’iscrizione formale nel marzo 1923[8]. Si può ritenere inoltre fondata l’ipotesi che attribuisce un peso determinante nella sua designazione a Giuseppe Belluzzo, al quale era legato. Ordinario di Costruzione dei motori termici ed idraulici, approdato egli pure nel 1923 al fascismo, attraverso il quale avrebbe tentato di affermare (e in una prima fase con apparente successo) un suo programma dalle marcate implicazioni tecnocratiche[9], Belluzzo era stato eletto deputato nell’aprile 1924, venendo nominato ministro dell’Economia nazionale nel luglio 1925. Dal luglio 1928 al settembre 1929 sarebbe stato addirittura ministro della Pubblica istruzione, primo ingegnere a ricoprire quella carica dopo Quintino Sella, rimasto peraltro a quel dicastero solo pochi mesi, nel 1872. Era ovvio pensare che i suoi successi politici potessero tradursi in un parallelo rafforzamento della scuola dalla quale veniva e nella quale continuava ad identificarsi e che Fantoli potesse apparire come l’uomo adatto a ricavare i frutti di una simile, più favorevole condizione.
In carica dal gennaio 1926, il nuovo direttore entrò quasi subito in rotta di collisione con il Comune (e con Mangiagalli, ancora sindaco), ponendo in luglio, come condizione per il passaggio nella nuova sede, che gli venissero assicurati i cinque milioni necessari per far fronte all’operazione. Assodato (si è visto come) che da Roma non sarebbe venuto nulla, Fantoli puntò sull’altro componente del Consorzio promotore del progetto, chiedendogli di intervenire, previo nulla osta del governo, tenuto conto dei ricavi che avrebbe realizzato vendendo, secondo gli antichi accordi (ma a prezzi di molto maggiorati) gli edifici delle vecchie scuole. Mangiagalli telegrafò a Mussolini sostenendo la scorrettezza, in quei termini, della richiesta, avvertendo che, nell’ultima riunione del Consorzio, si era deliberato all’unanimità «che intanto il Politecnico per dare prova di buona volontà ordinasse i mobili riservando la questione finanziaria». E in un primo tempo parve che gli si desse ragione[10]. Fantoli tornò tuttavia alla carica presso il ministro Fedele, trasmettendogli le risultanze dei computi eseguiti dall’ingegnere capo del Genio Civile di Milano, dai quali risultava come lo Stato, tra contributi liquidi e proventi demaniali, stesse in realtà finanziando l’operazione della Città degli Studi per l’80%, mentre Palazzo Marino vi avrebbe messo solo il 20%, laddove, prendendo per base la convenzione del 1913, le percentuali avrebbero dovuto essere, rispettivamente, del 55% e del 45%[11]. Impressionato, Fedele risollevò la questione presso Mussolini[12].
Intanto, uscito di scena Mangiagalli, una soluzione veniva trovata a livello locale. Una delibera dell’ottobre 1926 del commissario prefettizio Belloni stabilì che ai cinque milioni richiesti provvedesse effettivamente per il momento il Comune, in due distinte rate. In termini di principio si continuò a sostenere che si trattava di una spesa di competenza dello Stato. Il Comune la assumeva appunto «per conto del Governo Nazionale», salvo il rimborso dello Stato «appena possibile»: una impostazione che, quando ne vennero a conoscenza, fu contestata sia da Fedele, sia dal titolare delle Finanze Volpi, che non avevano dato alcuna autorizzazione in quel senso. Come scrisse Volpi al collega, era stato in ogni caso accertato come, grazie alla vecchia convenzione, il Comune avesse acquisito, con l’edificio già sede del Politecnico, «un bene patrimoniale vistosissimo», che lo metteva tranquillamente nelle condizioni di provvedere alla spesa in questione[13]. Qualche mese più tardi Volpi confermava in effetti direttamente a Belloni, nel frattempo diventato podestà, che toccava inequivocabilmente al Comune di farsene carico[14].
Segnato quel primo importante punto a proprio vantaggio, Fantoli aveva nel frattempo potuto mettere in moto le ordinazioni e le commesse indispensabili alla presa di possesso, nel settembre 1927, dei nuovi spazi, superiori di otto volte quelli di piazza Cavour. Coperti i costi relativi, occorreva ora pensare agli oneri ordinari e, soprattutto, all’impianto e allo sviluppo dei laboratori e a nuove strutture di perfezionamento e per la ricerca e la sperimentazione. Il modello al quale ricorrere era d’altronde già stato verificato nei trascorsi decenni: a partire da quando, nel 1887, grazie alla donazione dell’industriale farmaceutico Carlo Erba, si era dato vita all’Istituzione elettrotecnica a lui intitolata. Altri istituti speciali e laboratori con fini particolari erano stati successivamente costituiti grazie al concorso di enti e privati. Nel primo dopoguerra era stata attivata, nel nome di Carlo Esterle – alla testa della Edison dal 1896 alla morte, nel 1918 – una apposita Fondazione con un milione e duecentomila lire di capitale, che, oltre a promuovere un premio triennale, si era data come scopi la propaganda e il patrocinio degli studi elettrotecnici. Nel dicembre 1925, poco prima dell’arrivo di Fantoli, per iniziativa principalmente del successore di Esterle quale consigliere delegato della Edison, Giacinto Motta (in precedenza insegnante di Tecnologie elettriche e legatissimo sino alla fine all’istituto dal quale proveniva), era stata istituita la Fondazione politecnica italiana, avente come obiettivi specifici, oltre ad onorare Giuseppe Colombo con un premio a lui dedicato e pubblicandone gli scritti, l’attivazione di due scuole superiori, una di telegrafia e telefonia (che non si sarebbe in realtà riusciti a realizzare) ed una di ingegneria stradale. Gli scopi promozionali stabiliti dallo statuto erano in ogni caso più vasti, riguardando «tutti i campi dell’ingegneria civile, industriale ed elettrotecnica». Quella che di fatto si costituiva era una sorta di istituzione parallela di sostegno, sulla quale contare e alla quale ricorrere ogni volta che se ne fosse presentata la necessità; un’istituzione imperniata su quello che stava per diventare «il principale gruppo industriale finanziario italiano» e in grado di garantire da allora in poi più larghi e costanti rapporti e afflussi di mezzi da parte dell’ambiente economico locale[15]. In aggiunta a quanto assicurava tramite la Fondazione politecnica, la Edison si impegnò ad un versamento annuale di mezzo milione. La Italcementi, società dei fratelli Pesenti – altri vecchi laureati – diede avvio nel 1930, con una donazione di 200 mila lire, alla realizzazione, ad opera di Arturo Danusso, di un nuovo Laboratorio per lo studio dei materiali. In quattro anni i contributi con carattere di continuità passarono da 780 mila lire ad oltre tre milioni, «dati quasi per intero da Enti e Benefattori milanesi»[16]. Nel marzo 1933, grazie ad una donazione di 400 mila lire da parte di Antonietta Puricelli Tosi, Fantoli avviava la nuova Scuola di perfezionamento, da lui voluta, in Ingegneria idraulico-agraria. Due settimane prima, in corrispondenza con il conferimento della laurea ad honorem a Giorgio Enrico Falck, era stato dato l’annuncio della istituzione di una nuova Fondazione, con un milione di capitale, elargito per metà da lui stesso e per metà dalla sua società, con le cui rendite favorire gli studi, le ricerche e le applicazioni in campo siderurgico.
Il periodo di direzione di Fantoli coincise altresì con un marcato ricambio e rinnovamento dei quadri docenti. Erano già in servizio, al suo arrivo, sul medesimo o su altri insegnamenti, Federigo Giordano titolare di Costruzione delle macchine, Ferdinando Lori di Elettrotecnica generale, Umberto Cisotti di Analisi matematica, Angelo Barbagelata di Tecnologie elettriche, Mario Dornig di Macchine termiche e idrauliche, il già citato Arturo Danusso di Scienza delle costruzioni. Erano arrivati da poco, o giunsero o si affermarono in quegli anni, tra gli altri, Giuseppe Bruni, ordinario di Chimica generale e inorganica, Mario Giacomo Levi di Chimica industriale, Adolfo Quilico di Chimica organica, Michele Lo Presti di Costruzione dei motori termici, Oscar Scarpa di Elettrochimica ed elettrometallurgia, Giulio De Marchi di Idraulica generale, Oscar Chisini di Geometria analitica, Arnaldo Masotti di Meccanica razionale, Gino Cassinis di Topografia e geodesia[17]. Senza naturalmente dimenticare, sul fronte degli architetti e degli urbanisti, in aggiunta a Gaetano Moretti (già successore di Boito nel 1908), i nomi dei più giovani Piero Portaluppi, Ambrogio Annoni, Cesare Chiodi, Giovanni Muzio.
Orgoglioso della sua opera, Fantoli la collegava, senza incertezze, con aderenza piena e senza ombre, alla militanza fascista, non lasciandosi sfuggire occasione per riproporre l’immagine di un Politecnico «non secondo a verun altro Ateneo cittadino nell’importanza, nella vastità dell’opera e dei risultati» e «assolutamente primo come focolare puro di fede fascista»[18]. Una primazia che Fantoli ci teneva soprattutto a rimarcare nei confronti della Regia Università, rispetto alla quale, e rispetto in particolare al suo rettore (fino al novembre 1930) Baldo Rossi, non nascondeva la sua animosità. I dissensi tra i due investirono, ad un certo punto, anche le rappresentanze locali di partito, arrivando sino allo stesso Mussolini. Fantoli se ne giustificò con quest’ultimo adducendo l’esigenza, stante l’estrema modestia del contributo statale, di difendersi dalle «pressioni ingiuste» esercitate dal rivale sugli enti locali per sviarli «dalla equa considerazione del Politecnico»[19].
Poteva essere considerato un elemento di discrepanza nel comportamento proprio dei due enti anche il fatto che il Politecnico, nel rispetto dei piani a suo tempo stabiliti, si fosse trasferito «definitivamente e senza rimpianti nella nuovisima sede della Città degli Studi»[20], laddove l’Università, appena uscita dal controllo di Mangiagalli, vi aveva lasciato solo quel che era riuscita a sistemarvi delle Facoltà di Scienze e di Medicina, riportando in centro, come si è visto, Rettorato e Facoltà umanistiche. Non è dato sapere se Fantoli vi avesse parte; certo è che, in una serie di articoli dedicati dal «Corriere della sera» alla zona, vari dei quali, particolarmente positivi, riguardanti gli impianti e le attività del Politecnico, ne apparve anche uno teso a rimettere in discussione la scelta compiuta da Rossi e a rilanciare la «soluzione totalitaria» da lui tradita: soluzione destinata comunque ad imporsi
perché è la sola degna di una grande città e dei sacrifici fatti per una Università che, dopo aver creato con lungimirante coraggio edifici e servizi quali non si vedono di frequente neanche nelle più ricche e moderne Università dell’estero, è sembrata poi esitare e mettere tutte le sue compiacenze a raggiungere un ordinario piede di casa, che per essa non è certo giustificato neanche dalla tradizione[21].
Può valer la pena di rilevare che il segretario federale del PNF, Cottini, scrisse nel febbraio 1930 al segretario particolare di Mussolini, Chiavolini, deprecando «il dissidio, con base personalistica» tra Rossi e Fantoli, ma aggiungendo che occorreva «assolutamente che la Università di Milano, (…) arbitrariamente portata dal Senatore Baldo Rossi in pieno centro, e precisamente in Corso Roma, ritornasse, specialmente per quanto riflette gli studenti e le aule, alla Città degli Studi: questo non soltanto per un criterio di logica, ma anche per giustizia ed equità nei confronti degli studenti di altre facoltà»[22]. Alla luce delle dichiarazioni fatte alcuni mesi più tardi in Consiglio di amministrazione, alla prima riunione dopo la nomina del successore[23], si può ritenere che tra i dissidenti ci fosse pure il presidente, anche se ancora per poco, dell’Amministrazione provinciale, Sileno Fabbri, in passato molto vicino a Mangiagalli e impegnatosi attivamente per il buon esito dei suoi progetti.
All’inizio di marzo Baldo Rossi riferì in effetti al suo Consiglio di amministrazione che, «in seguito alla campagna svolta da alcuni interessati, e di cui si era fatto eco un giornale cittadino», era giunto l’ordine» del sottosegretario agli Interni, tramite il prefetto, di ritrasferire il Rettorato e le due Facoltà di Lettere e filosofia e di Giurisprudenza alla Città degli Studi. Ottenuto un immediato incontro con il capo del governo, era stato però possibile esporgli le ragioni che avevano determinato la scelta e che sconsigliavano di rivederla, ragioni che Mussolini aveva trovato fondate, sicché l’ordine di trasferimento non aveva avuto più seguito[24]. Se si deve dar credito alle sottolineature a matita che accompagnano il memoriale predisposto per l’occasione da Rossi e lasciato, o fatto preventivamente pervenire, al duce, uno degli argomenti più convincenti dovette essere il richiamo al «grandioso edificio» che l’Università Cattolica stava completando di fianco alla basilica di Sant’Ambrogio, «al centro di Milano»: «questa Università è la naturale concorrente dell’Ateneo Regio e Fascista, il quale, lontano dal centro, si troverebbe in condizioni di assoluta inferiorità»[25].
↑ 1
Progetti esecutivi, in L’Associazione per lo sviluppo dell’Alta Coltura e l’Opera sua, [Milano 1922], p. 1.
↑ 2
G.B. Stracca, La vita del Politecnico tra il 1914 e il 1963. Eventi principali, attività istituzionali e dati statistici, in Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), Milano 1988, vol. I, p. 54.
↑ 3
«Corriere della sera», 15 dicembre 1923, Il Politecnico e l’Università di Milano. Chiarimenti del direttore del Politecnico.
↑ 4
Comune di Milano, Atti del Consiglio comunale, Seduta del 13 dicembre 1923, p. 354.
↑ 5
Stracca, La vita del Politecnico, cit., loc. cit., pp. 54-55.
↑ 6
«Corriere della sera», 29 giugno 1924, La sottoscrizione per il Politecnico.
↑ 7
Il testo della Convenzione del 2 marzo 1925 si trova in R. Scuola di Ingegneria di Milano (R. Politecnico), Annuario 1926-1927, Milano 1927, pp. 64-67.
↑ 8
Su di lui, anche con riferimento alla designazione alla testa del Politecnico, dr. C.G. Lacaita, I tecnici milanesi dal moderatismo al fascismo: il caso Fantoli, in Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), cit., vol. I, pp. 171-201. Altri elementi relativi alla sua nomina in Stracca, La vita del Politecnico, cit., ivi, pp. 42-43.
↑ 9
Cfr. su di lui, nella chiave accennata, I. Granata, Un tecnocrate del fascismo: Giuseppe Belluzzo, in Il Politecnico di Milano, cit., voI. I, pp. 230-250.
↑ 10
Il sottosegretario Suardo al ministro della P.I. Fedele, 15 luglio 1926, ACS, Min. Pubbl. Istruz., Direz. gen. Istruz. sup., Div. III, 1923-45, b. 24.
↑ 11
Copia della relazione dell’ing. G. Baselli a G. Fantoli del 20 luglio 1926, ibidem.
↑ 12
Ivi, minuta del 3 agosto 1926.
↑ 13
Ivi, copia della delibera di Belloni del 19 ottobre 1926; lettera di Volpi a Fedele del 17 dicembre 1926 e minuta della lettera di risposta di Fedele, s.d.
↑ 14
Ivi, Volpi a Fedele, 17 maggio 1927.
↑ 15
Cfr. V. Castronovo, Il Politecnico e lo sviluppo industriale lombardo, in Il Politecnico di Milano, cit., vol. I, pp. 107 e sgg.
↑ 16
Regia Scuola di Ingegneria di Milano (R. Politecnico), Annuario anni accademici 1930-1931, 1931-1932, Milano 1932, p. 47.
↑ 17
Sull’espansione didattico-scientifica dei settori ingegneristici del Politecnico in questa fase cfr. C.G. Lacaita, Politecnico, ingegneri e istruzione professionale, in Storia di Milano, cit., vol. XVIII**, pp. 778-786.
↑ 18
Regio Istituto superiore d’Ingegneria di Milano (R. Politecnico), Annuario anni accademici 1932-1933, 1933-1934, Milano 1934, p. 27.
↑ 19
Cfr. la lettera a Mussolini del 23 febbraio 1930, in Lacaita, I tecnici milanesi, cit., loc. cit., pp. 200-201.
↑ 20
«Corriere della sera», 22 gennaio 1930, «Quartiere latino 1930».
↑ 21
«Corriere della sera», 25 gennaio 1930, La soluzione totalitaria della Città degli Studi. Sul Politecnico cfr. gli articoli del 13 febbraio, Il Politecnico scuola e officina, del 18 febbraio, Le scuole di specializzazione del Politecnico. Dai problemi stradali alla tecnica delle bonifiche, e dell’1 marzo, Dove si trasforma il carbone in benzina. L’anonimo articolista dava conto anche delle posizioni contrarie all’eventuale fusione degli Istituti superiori di Agraria e Veterinaria nell’Università: cfr. 14 marzo 1930, Gli Istituti di Agraria e di Veterinaria e una crisi di crescenza.
↑ 22
F. Cottini a A. Chiavolini, 15 febbraio 1930, ACS, SPD-CO, fasc. 509.619.
↑ 23
AUSM, Verbali delle sedute del Consiglio di amministrazione, seduta del 30 dicembre 1930.
↑ 24
AUSM, Verbali delle sedute del Consiglio di amministrazione, seduta dell’1 marzo 1930.
↑ 25
«Memoriale relativo alla Sede del Rettorato e delle Facoltà di Lettere e di Giurisprudenza della R. Università di Milano», s.d., ACS, SPD-CO, loc. cit.
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Prefazione
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Milano città universitaria
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«Bocconi über Alles!»: l'organizzazione della didattica e la ricerca (1914-1945)
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L'aula e l'ufficio: il consiglio direttivo dell'Università Bocconi al lavoro (1915-1945)
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Gli studenti e la loro università nei trent'anni da una guerra all'altra (1915-1944)
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Appendice