Parole chiave: Bocconi Ferdinando, Presidente Sabbatini Leopoldo, Vice presidente Gentile Giovanni, Milano
Storia della Bocconi
1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione
Quando Ferdinando Bocconi, nel 1898, donò al Comune di Milano la somma di 400.000 lire per la fondazione di un istituto superiore di commercio, la città era ormai molto più vivace e ambiziosa, politicamente ed economicamente, di quanto fosse stata negli anni immediatamente successivi all’Unità.
Vi era stata nel 1871 un’esposizione organizzata dall’Associazione industriale italiana nei luoghi dove sorge oggi il Civico Museo di storia naturale. Vi era stata dieci anni dopo una nuova esposizione, più importante. Gli organizzatori avevano certamente visitato quelle di Londra, Parigi, Vienna e sapevano di non poter gareggiare con le grandi capitali europee. I visitatori furono soltanto 53.000 (contro i 6 milioni che avevano visitato Parigi nel 1878). Ma l’esposizione milanese dimostrò che la città aveva già un’idea di se stessa e di ciò che voleva diventare. Voleva essere «industriale» in un Paese, come ha ricordato lo storico Enrico Decleva, non ancora convinto «che il suo futuro potesse dipendere in maniera crescente e via via sempre più determinante dallo sviluppo di manifatture e officine».
Quanto più aumentavano le sue attività economiche tanto più cresceva quella parte della società che avrebbe chiesto migliori salari e maggiori diritti. Nel marzo del 1882 i socialisti milanesi, riuniti insieme ai rappresentanti di altre città lombarde e venete, decisero di prendere parte alle elezioni nazionali che si sarebbero tenute nell’anno seguente con una nuova legge elettorale e un più largo elettorato. Tre anni dopo, in primavera, il Partito operaio italiano tenne a Milano il suo primo congresso; e verso la fine del decennio, nel luglio 1889, Filippo Turati fondò la Lega socialista milanese che raccolse anche socialisti di altre tendenze. Nei mesi seguenti il socialismo avrà una rivista, Critica Sociale, e la Lega un programma. L’iniziativa, in entrambi i casi, fu di due personalità milanesi, Filippo Turati e Anna Kuliscioff, che sarebbero state, da allora e per molti anni, fra le più rappresentative del socialismo italiano. Ma non mancavano altre forze politiche: gli anarchici di Errico Malatesta e del Partito socialista anarchico rivoluzionario, gli evoluzionisti, i teorici del terrorismo individuale, i fondatori della Lega di resistenza degli operai, i cattolici di Giuseppe Toniolo. Industria, politica e sindacalismo erano ormai volti di una stessa realtà e destinati a influenzarsi vicendevolmente.
L’economia, non soltanto in Italia, attraversava momenti difficili. La caduta dei prezzi, quasi ovunque in Europa, aveva colpito il valore delle esportazioni agricole italiane. La politica doganale di Francesco Crispi aveva provocato la rottura delle relazioni commerciali con la Francia. Le statistiche registravano, insieme all’aumento dell’emigrazione, la diminuzione delle costruzioni ferroviarie e del movimento delle merci. Un altro segno del generale malessere era lo stato di salute di alcune fra le maggiori banche del Paese, quasi tutte appesantite da strategie clientelari, operazioni speculative e crediti non esigibili.
Ma anche in momenti difficili, nel frattempo, lo sviluppo di una società ormai unita da quasi trent’anni e le ambizioni di Milano sollecitavano altre iniziative e attività. Nel 1870 un mercante di tessuti, Ferdinando Bocconi, aveva aperto nel centro di Milano un negozio ispirato ai grandi magazzini delle maggiori capitali europee, gli aveva dato un nome francese (Aux Villes d’Italie) ed era stato tra i primi a comprendere che nella Milano di quegli anni, insieme alla classe operaia, stava crescendo una nuova classe media, più facoltosa e meno sobria di quella delle generazioni precedenti.
Il successo del suo grande negozio (negli anni Ottanta aveva 300 dipendenti) lo rese ancora più ambizioso. Nel 1889 decise di costruire una nuova sede in piazza del Duomo, dove le persone impiegate erano 1432 e le merci (biancheria, merceria, giocattoli, arredamento e mobili, profumeria) erano esposte su banchi e scaffali che misuravano complessivamente 2300 metri.
Come accadrà ad altri imprenditori milanesi, il successo in affari ebbe ricadute politiche. Bocconi era consapevole della notorietà che stava conquistando nel Paese e prese in considerazione, per qualche tempo, la pubblicazione di un giornale. Francesco Crispi lo corteggiava perché sperava di poter contare sul suo sostegno finanziario. E qualche esponente di sinistra criticava i suoi metodi di lavoro, un po’ troppo ruvidi e padronali.
Dopo gli anni della stagnazione il vento cominciò a soffiare nella buona direzione, fra il 1895 e il 1896. Le ragioni suggerite da Gino Luzzatto nella sua Storia dell’economia mondiale sono numerose, spesso legate all’individuazione di nuove fonti di energia e alla maggiore disponibilità di oro grazie alla scoperta di importanti giacimenti africani. Ma anche il nuovo ruolo dello Stato fece la sua parte.
Per far crescere le industrie occorreva denaro. Come Genova e altri poli di sviluppo del sistema economico italiano, Milano aveva bisogno di un istituto di credito più grande e meglio attrezzato di quelli che già esistevano nella città. Nacquero così, quasi contemporaneamente, due banche, a Milano e a Genova: la prima con capitali tedeschi e personale dirigente tedesco, la seconda con capitale tedesco, belga e svizzero. La prima si chiamò Banca Commerciale Italiana e aprì i suoi sportelli nel 1894; la seconda Credito Italiano e fu fondata un anno dopo. I capitali tedeschi suscitarono critiche e sospetti, soprattutto alla vigilia della Grande guerra. Ma l’interesse per Milano della finanza della maggiore potenza economica europea era in realtà un omaggio alla città e alla sua intraprendenza.
Come ha scritto Gino Luzzatto, «dopo pochi anni le due banche, consolidate, diventarono sempre meno straniere e contribuirono in modo molto efficace a promuovere in un clima favorevole lo sviluppo dell’industria italiana, anche in vari casi in cui le nuove industrie minacciavano di fare una concorrenza temibile a quelle del Paese dei loro fondatori».
Industria e impegno politico, intanto, crescevano insieme. La città era laboriosa, ma anche, in alcuni momenti, turbolenta. Nel marzo 1896, quando l’Italia apprese che il suo corpo di spedizione in Abissinia era stato sconfitto dalle truppe di Menelik, vi furono a Milano grandi manifestazioni popolari contro la politica coloniale del governo Crispi che ne provocarono le dimissioni. Molto più gravi, per gli equilibri e la stabilità del Paese, furono le agitazioni contro l’aumento del prezzo del pane che ebbero luogo nel maggio 1898. In un articolo pubblicato dalla Gazette de Lausanne il 28 maggio, Vilfredo Pareto citò giornali stranieri che attribuivano le proteste alla politica protezionista del governo e all’aumento del dazio sul grano importato. Vi fu certamente il tentativo di trasformare la protesta in un moto rivoluzionario e due guardie di pubblica sicurezza, a Milano, furono uccise dai manifestanti. Ma all’origine dei disordini vi erano soprattutto le condizioni di vita dei ceti sociali più bisognosi.
Il governo, invece, volle vedere in quella vicenda un pericolo per l’integrità e la stabilità dello Stato. In un momento in cui il socialismo, in molti ambienti, era considerato una minaccia sociale, l’uomo a cui il governo affidò il compito di restaurare l’ordine – il generale Fiorenzo Bava Beccaris – dovette credere che quelle manifestazioni annunciassero eventi simili a quelli di Parigi nel 1870. La repressione fu brutale, accompagnata da migliaia di arresti e da un numero considerevole di processi sommari. A Milano, in particolare, Bava Beccaris trattò la città come una fortezza da espugnare e i suoi abitanti come nemici da annientare. Paradossalmente i socialisti, in quella vicenda, erano stati molto meno presenti e impegnati degli anarchici.
Il nuovo presidente del Consiglio, scelto dal re dopo la fine dei torbidi, fu un altro militare, il generale Luigi Pelloux. A differenza di Bava Beccaris, tuttavia, ebbe il merito di evitare le prove di forza e rifiutò di cedere alle richieste degli ambienti che premevano per la proclamazione della legge marziale. La vicenda avrà il suo tragico epilogo nel 1900 quando un anarchico giunto dagli Stati Uniti uccise Umberto I a Monza e dichiarò di averlo fatto per vendicare i morti del 1898.
Milano, nel frattempo, continuava a crescere. L’azienda di Giovanni Battista Pirelli, fondata nel 1872, aveva cominciato a produrre pneumatici nel 1890 e cavi telegrafici su scala internazionale dal 1896. La prima ferrovia elettrica fra Milano e Monza fu inaugurata nel 1899; la Società anonima Acciaierie e Ferriere Lombarde fu fondata da Giorgio Enrico Falck nel 1906. In quello stesso anno, in aprile, per celebrare il traforo del Sempione, Milano ebbe la sua prima Esposizione internazionale con la partecipazione di 40 Paesi e 120 edifici o padiglioni su un’area di 980.000 metri quadrati.
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento le sinistre (coalizioni di radicali, repubblicani e socialisti) conquistarono due volte il comune: il radicale Giuseppe Mussi fu sindaco dal 1889 al 1903 e il radicale Giovanni Battista Barinetti dal 1903 al 1904. Durante la sua carica Barinetti fu anche membro del consiglio di amministrazione dell’università nata nel 1902 con le 400.000 lire donate da Ferdinando Bocconi nel 1898 (alle quali nel frattempo il commerciante milanese ne aveva aggiunte altre 600.000).
L’università si chiamò commerciale perché questa fu la volontà di un uomo che doveva la sua fortuna a un grande talento mercantile, conosceva il mondo del commercio, sapeva che la città avrebbe avuto un crescente bisogno di persone addestrate a lavorare anche con ditte straniere e su mercati internazionali. Sapeva altresì, probabilmente, che le écoles de commerce esistevano in Francia sin dall’inizio dell’Ottocento e che erano state nobilitate dalla fondazione a Parigi, nel 1881, di un istituto di Hautes Etudes Commerciales. «Commercio», d’altro canto, non significa soltanto «scambio di merci contro denaro». Nella lingua degli illuministi era anche scambio di idee, sentimenti, impressioni; e in questo senso la Bocconi può ancora considerarsi «commerciale».
Come ricorda in Memorie di un testimone, Enrico Resti, segretario e direttore amministrativo della Bocconi per oltre trent’anni, prima esistevano in Italia soltanto le tre scuole superiori di commercio di Bari, Genova e Venezia, alle dipendenze del ministero dell’Agricoltura, industria e commercio, con corsi biennali o triennali, aperte di fatto ai soli licenziati della sezione ragioneria degli istituti tecnici. Fu evidente sin dagli inizi, comunque, che la Bocconi non sarebbe stata una scuola di contabili aziendali e non avrebbe avuto le caratteristiche di altre scuole (come l’Istituto tecnico industriale statale di Vicenza, fondato nel 1878) che avevano avuto un ruolo importante nel passaggio da un’economia prevalentemente agricola a una industriale. La Bocconi fu subito università e offrì ai suoi studenti un corso di laurea in Economia.
Più tardi le sarebbe accaduto l’esatto opposto di ciò che accadde a una scuola francese e a una inglese. L’École Libre de Sciences Politiques, meglio nota come SciencesPo, fu fondata nel 1872, due anni dopo la sconfitta della Francia nella guerra prussiana e i moti rivoluzionari che fecero della capitale francese una comune anarco-comunista. A una guerra perduta e a una sanguinosa sollevazione rivoluzionaria la Francia reagì investendo impegno e denaro nella formazione di una nuova classe politica. Ma dalla fine della seconda guerra mondiale i suoi programmi daranno largo spazio all’economia. La London School of Economics nacque nel 1895 e deve la sua esistenza ad alcuni esponenti del socialismo fabiano, fra cui un’economista, Beatrice Webb, e un brillante commediografo con passioni politiche non sempre ben riposte, George Bernard Shaw. Era interessata soprattutto all’economia e alla società, ma il modello a cui i suoi patroni si ispiravano era la scuola francese del 1872. Parigi dava maggiore spazio alla politica e Londra all’economia. Ma entrambe si proponevano la formazione di una classe dirigente.
Credo che le stesse considerazioni valgano per la Bocconi. Può essere considerata una business school ante litteram, ma è già (grazie a Leopoldo Sabbatini, il suo geniale creatore) un’università di economia con interessi politici e sociali che la rendono alquanto diversa dalle più tradizionali scuole di amministrazione aziendale e che ha molto allargato, soprattutto negli ultimi decenni, la gamma degli studenti che la frequentano.
Molte cose sono cambiate nel frattempo, ma l’impronta che Sabbatini dette alla Bocconi fu decisiva. In un «programma» del 1902 ricordò i grandi mutamenti dei Paesi civili negli anni precedenti e si disse convinto che «la base del civile consorzio fosse ormai prevalentemente, se non esclusivamente, economica». Da questa riflessione trasse la conclusione che fosse ormai «indispensabile essere in grado di conoscere, di valutare, di interpretare le leggi che governano il mondo economico» e che per raggiugere questo risultato non bastasse impartire agli studenti una formazione professionale. Occorreva un’istituzione ispirata da «una cultura strettamente scientifica».
Il decollo della Bocconi fu rapido e dovuto in buona parte all’interesse con cui venne accolta dai maggiori studiosi del momento. Quando accettò di insegnarvi scienza delle finanze, nel 1904, Luigi Einaudi aveva trent’anni, si era laureato in Giurisprudenza nel 1895, insegnava la stessa disciplina all’Università di Torino, ma anche economia politica e legislazione industriale al Politecnico della città. Agli inizi del secolo fu attratto dal socialismo e collaborò con qualche articolo a Critica sociale; ma quando cominciò i suoi corsi alla Bocconi era già un convinto liberista e pubblicava da un anno le sue analisi e riflessioni sul Corriere della Sera.
L’appartenenza al corpo accademico della Bocconi fu da quel momento una sorte di promozione culturale. Uno dei casi più indicativi è quello di Attilio Cabiati, economista liberale, autore nel 1918 con Giovanni Agnelli (il fondatore della Fiat) di un libro, Federazione europea o Lega delle nazioni?, per molti aspetti profetico. Professore ordinario nel 1917, dopo l’esame di una commissione che comprendeva, tra gli altri, Luigi Einaudi e Antonio de Viti de Marco, Cabiati insegnava politica commerciale e legislazione doganale all’Istituto superiore di Genova. Ma quando Angelo Sraffa, da poco nominato rettore della Bocconi, gli propose su suggerimento di Gino Zappa, d’accordo con Einaudi e Pietro Bonfante, di trasferirsi a Milano, Cabiati rispose subito che la Bocconi era «un suo antico sogno». A Einaudi, qualche giorno dopo, scrisse: «Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere ciò che mi scrivi riguardo alla Bocconi. Se dovessi scegliere tra un regalo di 50.000 lire e un posto a codesta università, opterei senza esitare un istante per quest’ultimo».
All’orgoglio dei docenti corrispose, sin dagli inizi, quello degli studenti. Nel 1907 i primi laureati (erano 38) decisero di costituire un’associazione (ALUB) che avrebbe avuto come presidente onorario il primo presidente-rettore (Leopoldo Sabbatini) e come presidente effettivo un giovane (Amedeo Gambarova) che si era laureato con una tesi sull’industria laniera nel biellese. Tutti avevano già trovato un impiego e ognuno avrebbe fatto la sua carriera professionale, spesso lontano da Milano, ma non volevano perdersi di vista e desideravano soprattutto avere una patria accademica di cui rivendicare la cittadinanza. Ancora giovanissima la Bocconi era già diventata un’alma mater. Di quell’evento resta il primo numero di un bollettino che l’associazione cominciò a pubblicare nel giugno 1907. Un’edizione anastatica fu inviata agli amici della Bocconi nel dicembre del 1993 con gli auguri per il 1994 del presidente e del rettore di quegli anni: Giovanni Spadolini e Mario Monti.
Il credito che l’Università stava conquistando le permise di fare una straordinaria messe di talenti. Sin dai suoi primi decenni poté contare su giuristi come Angelo Sraffa, Leone Bolaffio, Pietro Bonfante, Francesco Carnelutti, Luigi Majno, Paolo Greco, Ariberto Mignoli, Gianguido Scalfi, Guido Rossi; filosofi della politica come Antonio Banfi e Gaetano Mosca; statistici come Francesco Coletti, Giorgio Mortara, Libero Lenti, Francesco Brambilla; economisti come Ulisse Gobbi, Gustavo Del Vecchio, Giovanni Demaria, Valentino Dominedò, Innocenzo Gasparini; storici dell’economia come Armando Sapori, Aldo De Maddalena e Marzio A. Romani; studiosi di Keynes come Ferdinando di Fenizio; organizzatori ed educatori come il suo primo presidente e rettore, Leopoldo Sabbatini, fondatore e primo segretario dell’Unione delle Camere di commercio, Girolamo Palazzina, direttore amministrativo per più di sessant’anni, e ancora eminenti aziendalisti come Gino Zappa, Ugo Caprara, Giordano Dell’Amore, Carlo Masini, Luigi Guatri, Tancredi Bianchi, Vittorio Coda, Claudio Demattè.
Vi sono stati bocconiani prestati alla politica o alla pubblica amministrazione per periodi più o meno lunghi e con incarichi talora molto importanti. Maffeo Pantaleoni fu ministro delle Finanze del piccolo Stato creato da D’Annunzio a Fiume nel 1919. Giovanni Demaria fu presidente della Commissione economica dell’Assemblea costituente, Tommaso Padoa-Schioppa persuase Jacques Delors a promuovere la creazione di un’unione monetaria, fu membro della Banca Centrale Europea e ministro dell’Economia e delle finanze del governo Prodi dal 2006 al 2008. Mario Monti fu presidente del Consiglio dal 2011 al 2013. Ma credo che tutti, quando lasciavano temporaneamente gli studi, avessero con la politica, un rapporto distaccato e guardingo. Fu questo l’atteggiamento dell’Università durante il fascismo. Mussolini rispettava gli economisti e gli imprenditori più di quanto rispettasse altri rappresentanti della vita pubblica nazionale. In molte circostanze, come nel dibattito sul ritorno all’oro, impose la sua volontà e ordinò il sequestro del giornale che aveva pubblicato integralmente le critiche del senatore Ettore Conti, ma non gli impedì di spiegare al Senato quali sarebbero state le conseguenze e andò ad ascoltarlo. Stimava Alberto Pirelli ed ebbe con lui incontri frequenti. Volle spesso portare al governo alcuni fra i migliori imprenditori del momento, da Giuseppe Volpi a Vittorio Cini.
La Bocconi fu duramente colpita quando le leggi razziali la privarono di alcuni fra i suoi migliori docenti. Ma, con qualche atto di formale disciplina, continuò a svolgere una funzione che giovava al Paese molto più di quanto giovasse al regime. Riuscì a farlo anche perché poté sempre contare sulla protezione di un vicepresidente che era divenuto universalmente noto come il filosofo del regime. Giovanni Gentile era stato ministro della Pubblica istruzione durante il primo governo di Mussolini, aveva scritto con lui per l’Enciclopedia italiana il saggio sulla dottrina del fascismo e gli rimase fedele anche durante i mesi della Repubblica di Salò. Ma trattava i suoi allievi come gli intoccabili pupilli della sua famiglia accademica e approfittò spesso della sua autorità a palazzo Venezia per salvarli dalla collera del regime quando davano segni di indisciplina. Insieme alla Scuola Normale Superiore, di cui Gentile fu direttore fino al 1943, l’Università Bocconi ebbe nel cuore scolastico del Paese un intelligente angelo custode, pronto a intervenire per risolvere problemi materiali e preservare l’integrità accademica dell’istituzione. Un altro senatore (Giovanni Spadolini, presidente dal 1976 al 1994) fu felice di svolgere, in un contesto alquanto diverso, le stesse funzioni.
Dalla fine della seconda guerra mondiale ai nostri giorni la storia della Bocconi è quella di un’università impaziente e instancabile, continuamente impegnata a migliorare i programmi di studio e a costruire nuove sedi per le sue crescenti esigenze.
Confesso di avere appreso con un certo rammarico l’interruzione nel 1968 del corso di lingue e letterature straniere. Pensavo che una buona dose di letteratura di altri Paesi, insieme all’apprendimento delle lingue, avrebbe giovato alla formazione di un futuro uomo d’affari e avrebbe allargato l’orizzonte dei suoi interessi. Riconosco tuttavia che la Bocconi ha supplito a questa esigenza con l’insegnamento delle lingue e con la sua crescente internazionalizzazione. È un obiettivo, secondo il suo rettore, che è stato raggiunto in tre tempi: con l’arrivo dei visiting professor negli anni Ottanta e Novanta, con il rientro dei cervelli negli anni Duemila, con il reclutamento di docenti provenienti dalle maggiori scuole del mondo e con un numero crescente di studenti stranieri. Non è tutto. La Bocconi è un’università milanese, nata e cresciuta in una città che è divenuta, senza rinunciare al meglio del suo passato, un’ambiziosa e dinamica città europea. Con un’espressione cara a Guido Carli, potremmo dire che Milano e la Bocconi sono riusciti ad alzare l’asticella del salto in alto per l’intero Paese.
-
Dalla contestazione al crollo del muro di Berlino
-
Verso il 2000 e oltre
-
Verso la teaching and research university
-
SDA, la formazione post-esperienza
-
Un universo complesso e sempre in divenire