Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

Per l’arte e la cultura: il progetto CLEACC


Parole chiave: Master, Centenario Bocconi

Si dice, a volte, che il diavolo si nasconde nei dettagli. Forse questo vale anche per gli angeli; sicuramente i dettagli hanno avuto molto significato nella genesi e nella crescita del Corso di Laurea in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione (CLEACC) tra la metà degli anni Novanta e i nostri giorni. Uno di essi, apparentemente marginale, ma denso di conseguenze è rappresentato dalla differenza tra la preposizione «per» e la proposizione «di» nel suo titolo: ovvero dall’alternativa tra «Economia delle arti e della cultura» o «Economia per le arti e la cultura».

Dettagli: angeli e diavoli, che hanno dato le loro ali e le loro cadute al grappolo di innovazioni che, avviate vent’anni fa, hanno provocato: la creazione di un corso di laurea triennale con classi in italiano e in inglese; due programmi della Scuola di Direzione Aziendale (MASP e poi MAMA), due bienni di specializzazione universitaria post-graduate (CLEACC LS e ACME in inglese) e un centro di ricerca (ASK); oltre 4000 studenti da tutto il mondo, decine di progetti di ricerca, alleanze con università prestigiose, decine di articoli e libri, alcune carriere di successo nel mondo della cultura e dell’accademia contemporanea, una leva di giovani accademici di valore e alcuni matrimoni felici.

Quattro parole possono raccontare, necessariamente in modo molto sommario, la storia di questo progetto: entusiasmo, diffidenze, scelte, concretezza.

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Entusiasmo: la cultura non è una questione privata

Corre la metà degli anni Novanta. Claudio Demattè raccoglie un gruppo di lavoro chiamato a riflettere sulla possibilità di creare un corso di laurea dedicato ai mestieri della creazione artistica. L’idea ispira. È vero che da qualche tempo nuclei di giovani ricercatori, tra loro diversi, hanno cominciato a occuparsi di filosofia, di storia culturale, di management e regolazione dei settori culturali (Anna Merlo e Silvia Bagdadli, Severino Salvemini, Guido Guerzoni, Gino Zaccaria, Marco Cattini e chi scrive); ma, dalla chiusura della facoltà di Lingue negli anni Settanta, il tema della cultura e delle arti viene considerato perlopiù appannaggio di passioni private, individuali, certo non una questione da affrontare in modo istituzionale. Claudio Demattè, che tutti noi ricordiamo con profondo affetto, viene, però, dall’importante esperienza istituzionale della presidenza RAI e – ricco del carisma acquisito con il successo della SDA[1] – decide di proteggere e legittimare l’improbabile.

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Chiunque abbia partecipato al lavoro di gestazione del progetto, tra il 1997 e il 1999 (oltre a quelli prima citati sicuramente Paola Dubini, Fabrizio Perretti, Gabriele Troilo, Antonella Carù, Enrico Valdani, Mirka Giacoletto Papas) è testimone di mesi pieni di speranza. Non solo per il tema, ricco di implicazioni etiche oltre che economiche, che finalmente consente di liberare passioni e interessi fino ad allora latenti, ma anche per la libertà con cui Demattè lascia lavorare, riuscendo a tenere insieme prospettive e visioni anche molto diverse. Da una parte interrogazioni riguardanti la dimensione manageriale del lavoro culturale, ovvero domande sui modi in cui le discipline manageriali possono avere un ruolo nello sviluppo dei settori in cui cultura e attività simbolico-estetica sono centrali; dall’altra domande provenienti dall’esperienza del primo DES sullo statuto filosofico ed epistemologico della pratica artistica e delle discipline umanistiche nei loro rapporti con le scienze sociali ed economiche; riflessioni – proposte con forza da Gino Zaccaria – sui modi in cui economia e management possono servire le esigenze di libertà e di «non economicità» proprie dell’arte, dell’educazione e della ricerca, cercando quindi in questa istanza anche la propria esattezza e il proprio limite. Insomma: Economia «della» e/o Economia «per» la cultura.

La speranza si trasforma in certezza quando – per una sorta di inaspettata combinazione di eventi, tra cui il rettorato di Roberto Ruozi (che allora era presidente del Piccolo Teatro) – il corso viene approvato e poi varato nei termini di «economia per la cultura». Il gruppo è quasi inebriato dalla prospettiva di un compito e di un campo di azione quasi illimitato: arti visive, performative, cinema, editoria, giornalismo, archivi, televisione, design, moda, turismo culturale, sport... Sensazione che poi si trasforma in entusiasmo quando gli studenti, in numero di mille, si presentano per i primi cento posti. Ragazze e ragazzi, in nome del politicamente corretto, di qualità rara, che non si sarebbero iscritti in Bocconi senza il CLEACC, ma che poi diventeranno studenti Bocconi a tutti gli effetti; in molti casi capaci di avere carriere di straordinario successo, esempio per le generazioni successive.

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Diffidenze: cultura, taglio e cucito

L'intensità «vocazionale» con cui la giovane leva dei fondatori si impegna nel progetto dal 1999 al 2003, anno in cui si presentano i primi laureati sul mercato del lavoro, serve a reggere i contrasti che l’innovazione genera all’interno e all’esterno dell’Ateneo. Ma le difficoltà ci sono, e assumono un’effettiva rilevanza per il futuro del corso.

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Negli anni precedenti i settori e le istituzioni culturali italiane avevano vissuto come una minaccia l’esigenza di «economicità» dettata dalla necessità di un contenimento della spesa pubblica. Questo sentimento è molto meno diffuso nelle industrie culturali (editoria, moda, televisione, cinema, design), già strutturate in prospettiva industriale, ma è molto sentito nelle arti e nel patrimonio. La creazione delle fondazioni liriche, l’ingresso dei privati nei musei dopo la legge Ronchey del 1993, la reimpostazione dei finanziamenti centrali al teatro – interventi in cui docenti Bocconi hanno avuto un ruolo – sono visti come esterni e calati dall’alto. Davanti agli stessi il mondo della cultura – i cui vertici sono tradizionalmente popolati da esperti storici dell’arte, archeologi, architetti, uomini di lettere – prima arretra e poi, in nome dell’eccezione culturale, si oppone. La presenza di professori e ricercatori della Bocconi è vissuta dunque in modo ambivalente: in certi casi, come una manna capace di risolvere i problemi di sostenibilità di settori oggettivamente arcaici sul piano gestionale; in altri, altrettanto ingiustamente, come il rostro che violentemente supporta l’invasione barbarica dei «contabili nella cultura». Giuliano Urbani, professore della Bocconi, è nominato ministro dei Beni culturali del governo Berlusconi suscitando posizioni contrastate. Si va delineando un’antitesi tra cultura ed economia che andava per quanto possibile disinnescata per il futuro del progetto.

Nello stesso tempo il corso CLEACC, pur annoverando tra i docenti personaggi del calibro di Fernando Bandini, Angela Vettese, Antonio Calabrò, attiva anticorpi anche all’interno della Bocconi. Data la rigidità delle tabelle ministeriali, la volontà di introdurre insegnamenti curriculari di origine umanistica e storico-artistica im­pone una certa riduzione dei carichi didattici su alcune materie quantitative. Rapidamente si addensa il giudizio, alimentato anche da certi elementi della faculty, ma non da tutti condiviso, che il corso sia facile; la forte presenza femminile, determinata da motivi vocazionali, ispira il simpatico e maschilista epiteto di «corso di taglio e cucito» che per anni viene percepito dagli studenti CLEACC (tra i migliori entrati e tra i migliori poi anche laureati in Bocconi) come un’ingiusta stimmate. Questo per altro senza considerare che «tagliare» e «cucire», intese metaforicamente, sono atti fondamentali del pensiero e della vita sociale e politica.

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Scelte: sviluppi, interessi e vocazioni

Quando si diplomano i primi laureati del corso, nel 2003, la consapevolezza di queste opposizioni è chiara, e il gruppo dei docenti è chiamato a intensificare i registri del progetto, sia sul piano istituzionale che su quello personale e culturale. Severino Salvemini, direttore del triennio e successore di Demattè diventa presidente della SDA, lancia il MASP (Master di Arti dello Spettacolo) con Accademia della Scala e Piccolo Teatro e organizza a Milano il convegno internazionale dell’AIMAC (International Association of Management of Art and Culture). Io, direttore del biennio, con il supporto del rettore Carlo Secchi, progetto il centro di ricerca ASK (Art Science Knowledge, 2004), la fondazione ERGA con Salvatore Settis e la Scuola Normale di Pisa (2005) e poi il biennio internazionale ACME (2007). Alla faculty CLEACC è affidato il compito di progettare la mostra che celebra a Palazzo Reale i Cento Anni dell’Università Bocconi.

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Questa crescita di iniziative istituzionali, tesa a legittimare il progetto all’interno e all’esterno della facoltà, aggrega nuovi docenti e ricercatori tra cui Alex Turrini, Francesco Perrini, Andrea Ordanini e più tardi Andrea Rurale e Magda Antonioli. La coesione del gruppo originario è però alterata dai segni di una crescente polarizzazione nelle scelte professionali e anche culturali di alcuni dei suoi membri storici. Le distanze si misurano su due principali terreni: professionale e concettuale. Alcuni docenti scelgono di dedicarsi in modo esclusivo al compito di entrare in relazione con i sistemi professionali dei settori artistici e culturali – anche a costo di forzare i confini e talvolta lasciare gli ormeggi sicuri delle discipline accademiche di origine. Il dubbio che la mera applicazione dei principi economici, non compensati da una specifica conoscenza di campo, produca una trasformazione dei settori culturali, con esiti anche non felici, diventa oggetto di un dibattito anche duro. Sul fronte più specificamente accademico si delinea un confronto tra studiosi che considerano le arti prevalentemente come un campo di applicazione dell’economia e del management e studiosi che invece sentono la necessità di un dialogo più serrato con le discipline umanistiche (filosofia, storia dell’arte, studi culturali) e di una ricerca tesa a sottolineare i compiti di «servizio» dell’economia nei confronti della cultura.

La progressiva polarizzazione di queste differenze, presenti fin dall’inizio ma in modo più sfumato, accompagna nel tempo un’accentuazione del dibattito interno e una riduzione della sua fecondità.

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Concretezza: l’importanza della differenza

Al di là di questi confronti, il CLEACC resta una storia di innovazione e di vero, concreto, successo, che si è misurato sul mercato del lavoro nazionale e internazionale, sulla stabilizzazione della domanda da parte di studenti di elevata qualità, sulla consapevolezza, crescente e diffusa nelle migliori università, che una formazione capace di integrare scienza e umanesimo (le basi del progetto CLEACC) sia una prospettiva irrinunciabile per gli atenei che intendono creare capacità dirigenziali e di leadership.

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Oggi il progetto, anche grazie ai direttori che si sono susseguiti, Paola Dubini e Francesca Beccacece, ospita quasi mille studenti curriculari, espande il reclutamento Bocconi a categorie che non vi accederebbero senza di esso ed è un riferimento ineludibile per quanti si vogliono formare in questi settori. Diversi tra i docenti storici del corso svolgono ruoli apicali nel mondo della cultura e delle istituzioni culturali italiane.

Probabilmente il nucleo fondamentale di questo successo è proprio rappresentato dal valore delle «differenze», dalla tensione, proficua nel percorso formativo, tra arte, umanesimo, storia, scienze sociali, economia e diritto.

È una sfida che si delinea sul piano istituzionale e formativo. Sul piano formativo i passi sono stati importanti. Oggi chi studia in Bocconi acquisisce la capacità di tenere assieme contraddizioni, differenze, varietà: imparare a contare e a guardare, a calcolare e ad avere visione, a includere ciò che pare eterogeneo. Un tempo, prima del CLEACC, non era così. Ma questa capacità non sarà consolidata finché, anche sul piano istituzionale, non si sarà consapevoli delle differenze portate dalle materie artistiche e umanistiche tra le competenze che la facoltà è in grado di coltivare. Si tratta, credo, di un compito non semplice, ma probabilmente destinato ad avere importanti conseguenze istituzionali, culturali e politiche: avere la forza di reggere e far dialogare, in un’università che nasce come «commerciale», le differenze che separano i campi culturali da quelli scientifici; avere la solidità istituzionale di compendiare modalità di valutazione e legittimazione differenti, ma credibili; riconoscere nella libertà irriducibile dell’arte il confine attorno al quale le scienze sociali possono costruire una cautela e una cura feconda di futuro, sono alcune delle frontiere che potranno portare (o hanno portato) Bocconi a traguardi di eccellenza internazionale anche in questo settore.

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1

Vedi «SDA, la formazione post-esperienza» da p. 553.

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