Parole chiave: Presidente Monti Mario, Vice presidente Guatri Luigi, Pavesi Bruno, Borse di studio, Rettore Sironi Andrea
Storia della Bocconi
1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione
La proposta di assumere il ruolo di rettore della Bocconi nel luglio del 2012 mi fu fatta dal vicepresidente dell’Università, Luigi Guatri che, assieme a Piergaetano Marchetti, in assenza del presidente Mario Monti impegnato a guidare il governo italiano dal novembre 2011, aveva condotto le consuete consultazioni con alcuni docenti dell’Ateneo, con l’intento di raccogliere l’opinione della faculty in merito ai possibili candidati per la guida dell’Università per il biennio 2012/14. Accettai immediatamente, felice del fatto che numerosi colleghi e amici avessero visto in me la persona giusta per guidare l’Università, ma al contempo timoroso di non essere all’altezza della fiducia e delle aspettative che molti nutrivano nei miei confronti.
La nomina ufficiale si tenne in occasione della riunione del consiglio di amministrazione del 3 ottobre. Ricordo che mi trovavo all’Università Bicocca per partecipare, in qualità di commissario, a una riunione per un concorso da ricercatore. Lasciai la stessa per recarmi in scooter in Bocconi e durante il tragitto ricevetti una telefonata. Ero indeciso se rispondere o meno in quanto ero già stretto con i tempi e temevo di arrivare in ritardo alla prima riunione del consiglio. Alla fine decisi di rispondere e mi fermai a un semaforo: era Mario Monti, che si era assentato da una riunione del Consiglio dei ministri per felicitarsi con me e farmi gli auguri. Mi disse che era felice della scelta che aveva fatto l’Università e confidava nel fatto che avrei svolto un ottimo lavoro. Per quanto si trattasse di un gesto banale, per me assumeva una particolare importanza.
Nel corso della riunione del CdA della Bocconi il mio predecessore, Guido Tabellini, presentò una relazione conclusiva relativa ai risultati conseguiti dal suo rettorato nel quadriennio 2008/12. La Bocconi era cresciuta in modo importante in termini di posizionamento e reputazione internazionale e fu per me naturale domandarmi se sarei riuscito a conseguire risultati altrettanto lusinghieri. Avevo avuto diverse esperienze sia nazionali che internazionali, ma era la prima volta che assumevo la guida di un’organizzazione complessa come la Bocconi e sentivo il peso di una responsabilità importante. Ricordo che quando espressi le mie preoccupazioni a Bruno Pavesi, il consigliere delegato con il quale avrei collaborato durante i quattro anni del rettorato e al quale ancora oggi mi lega un sincero rapporto di amicizia, lui cercò di rassicurarmi: «Non ti preoccupare Andrea, la Bocconi è come una nave che naviga sull’olio». Posso dire che il lavoro è stato forse più impegnativo di quanto mi sarei inizialmente immaginato; ma è anche vero che il percorso positivo di internazionalizzazione dell’Ateneo era ormai segnato e il potenziale era molto elevato.
In queste note cercherò di illustrare i principali obiettivi che hanno guidato l’azione del mio rettorato nel corso del quadriennio 2012/16, ripercorrendo le tappe principali del lavoro svolto e illustrando i risultati conseguiti. Si è trattato di un quadriennio intenso per la Bocconi, che ha visto proseguire il percorso di crescita del grado di internazionalizzazione del corpo docente, degli studenti e dei programmi formativi e al contempo aumentare la visibilità e la reputazione internazionale dell’Università.
Prima di iniziare credo sia utile evidenziare due aspetti che considero importanti per chi ne assume la guida nella veste di rettore. Il primo è rappresentato dalla continuità, intesa come coerenza nel tempo delle politiche perseguite dall’Ateneo. In questo senso, il singolo rettore può porre maggiore enfasi su alcuni obiettivi rispetto ad altri, ma le linee di fondo, definite all’interno di un piano strategico quinquennale approvato dal consiglio di amministrazione, ne contrassegnano la politica. Si tratta di un aspetto positivo, che garantisce all’Università un percorso lineare ed efficace e soprattutto la capacità di perseguire obiettivi di medio-lungo termine, senza soffrire della miopia e della discontinuità che sovente caratterizzano la gestione di organizzazioni complesse.
La seconda è rappresentata dal ritardo con cui generalmente le decisioni e le azioni assunte in uno specifico periodo manifestano i propri effetti. In questo senso, chi governa l’Ateneo in determinati anni si trova a beneficiare – com’è capitato nel mio caso – del prezioso lavoro svolto dai colleghi che lo hanno preceduto.
Ciò premesso, tre sono le priorità che hanno guidato l’azione del rettorato nel quadriennio 2012/16: l’internazionalizzazione, la mobilità sociale e l’innovazione didattica.
Internazionalizzazione: la Bocconi come porta aperta sul mondo
L’internazionalizzazione ha sempre rappresentato, a partire dagli anni Novanta, un obiettivo importante della Bocconi. Risale ancora al 1990 il lancio della versione internazionale del programma MBA, cui sono seguiti, negli anni Duemila, altri programmi internazionali a livello Bachelor e Master of Science. Nel corso del quadriennio 2012/16, tuttavia, gli sforzi per promuoverne il grado di internazionalizzazione sono cresciuti in modo significativo.
La motivazione sottostante a questi sforzi si fondava su una semplice considerazione, relativa al contesto di riferimento: la crescente mobilità internazionale di studenti e docenti. A partire dall’inizio degli anni Duemila, infatti, il numero di giovani che decidevano di recarsi in un Paese diverso dal proprio per gli studi universitari aveva cominciato a crescere in modo esponenziale. I dati OCSE mostravano come il numero di studenti internazionali, ossia che si trasferiscono in un altro Paese per la propria istruzione terziaria, fosse cresciuto da circa 2 milioni nel 2000 a circa 4,1 milioni nel 2010, un aumento superiore al 100 per cento. Parallelamente, anche il mercato della faculty, ossia dei docenti, stava registrando una crescente mobilità internazionale. Peraltro, i ricercatori maggiormente mobili a livello internazionale erano – e sono ancora oggi generalmente – quelli più produttivi, per i quali esiste un mercato molto attivo.
A fronte di questi fenomeni si prospettava uno scenario del sistema accademico sempre più polarizzato fra due categorie di istituzioni. Da un lato, atenei internazionali, capaci di svolgere un ruolo a livello europeo o mondiale, attirando studenti, docenti e ricercatori da tutto il mondo; dall’altro, università locali, inevitabilmente relegate a un ruolo di secondo piano. A fronte di questo scenario, il cui realismo si è peraltro sempre più manifestato anche negli ultimi anni, diveniva cruciale per un’università, che desiderasse rientrare nella prima categoria, risultare attrattiva per studenti e docenti di tutto il mondo. Questo era ancora più vero per la Bocconi, la quale aveva sempre fondato la propria forza competitiva sulla capacità di attirare i migliori studenti del Paese; gli stessi che ora guardavano con attenzione crescente alle opportunità offerte da atenei di altri Paesi ed erano dunque sempre più mobili. Non si trattava di frenare il flusso di studenti italiani di qualità verso università di altri Paesi, ma piuttosto di assicurarsi che un analogo flusso di studenti stranieri di qualità venisse a studiare in Bocconi. Sottolineo l’aggettivo qualità: non era difficile attrarre stranieri, lo era invece esercitare questa attrazione nei confronti di studenti stranieri della medesima qualità dei migliori italiani che migravano all’estero.
Perseguire questo obiettivo significava lavorare in quattro direzioni:
- accrescere l’attrattività nei confronti di studenti stranieri;
- aumentare l’offerta formativa internazionale, ossia in lingua inglese;
- accrescere l’attrattività nei confronti di docenti e ricercatori di tutto il mondo;
- potenziare le opportunità di studio all’estero offerte agli studenti.
Le quattro azioni sono fra loro strettamente collegate: per attirare studenti stranieri occorre offrire più programmi internazionali in lingua inglese. Parallelamente, l’offerta di programmi internazionali richiede una faculty internazionale. Infine, un numero crescente di opportunità internazionali consente di «trattenere» in Bocconi gli studenti italiani più brillanti, offrendo loro la possibilità di svolgere un percorso internazionale anche restando in Italia o approfittando delle partnership estere messe in atto.
Il lavoro rivolto a questi obiettivi è stato intenso per tutta la squadra rettorale, con un ruolo di punta del prorettore alle relazioni internazionali, Stefano Caselli, il quale penso abbia trascorso, durante i quattro anni del rettorato, più tempo su aerei che non al fianco dei suoi cari. Si è trattato tuttavia di un lavoro che non ha incontrato particolari ostacoli all’interno dell’Ateneo, dato che la Bocconi era ormai già impegnata da diversi anni nella propria strategia di internazionalizzazione. Non vi erano dunque particolari resistenze nei confronti di un’accelerazione su questo fronte.
I risultati conseguiti nel quadriennio sono stati molto positivi. La faculty internazionale, ossia l’insieme dei docenti di ruolo con nazionalità diversa da quella italiana, è cresciuta del 56 per cento nel periodo 2012/16, passando da 32 a 50 unità. Al di là della nazionalità, sono cresciuti in misura significativa (di oltre il 30%) i docenti reclutati nel mercato internazionale che hanno completato la propria formazione con un dottorato all’estero.
Questo potenziamento della faculty ha consentito di rafforzare l’offerta formativa internazionale[1]. L’effetto di queste innovazioni è stato tale per cui, alla fine del quadriennio, la maggioranza della didattica in Bocconi era offerta in lingua inglese[2].
L’ampliamento dell’offerta di programmi internazionali ha contribuito ad accrescere l’attrattività della Bocconi anche sul fronte degli studenti. Dal 2012 al 2016 le domande di accesso di studenti non italiani sono cresciute del 60 per cento e hanno raggiunto quasi 4000 unità. Parallelamente, è cresciuto il numero di studenti stranieri iscritti ai diversi corsi di studio (oltre 2000)[3], anche se non allo stesso ritmo delle application. A fronte di un aumento significativo delle domande, è stata infatti resa più severa la selezione.
L’internazionalizzazione dell’Università è passata anche da un rafforzamento significativo della rete di alleanze volta ad accrescere le opportunità offerte agli studenti. Gli accordi di scambio con atenei di altri Paesi sono aumentati di oltre il 28 per cento dal 2012 al 2016 (da 202 a 259), attraverso un’estensione degli stessi ai principali dipartimenti di Economia nordamericani, l’allargamento di destinazioni in aree del mondo a più forte crescita, la stipula di convenzioni a sostegno del lancio dei nuovi programmi nell’area di political science, management e computer science. Lo stesso è avvenuto nel caso degli accordi di double degree, passati dai 17 del 2012 ai 26 del 2016. Nel corso del quadriennio sono stati inoltre lanciati programmi internazionali con formati innovativi volti a garantire l’esposizione degli studenti a contesti culturali differenti: nel 2013 è partita la prima edizione del World Bachelor in Business e nel 2016 è stato lanciato il double degree in Management in partnership con la francese Essec, che prevede lo svolgimento dei quattro semestri a Parigi, Milano, Mumbai e Singapore.
Parallelamente, sono aumentate in modo significativo le opportunità di permanenza all’estero per i nostri studenti, realizzate mediante stage e internship internazionali. Per effetto di questi sforzi, è salito a oltre 4000 il numero dei bocconiani che ogni anno beneficiano di una significativa esperienza internazionale di studio o di lavoro.
Il risultato di questi sforzi è stato quello di costruire un campus competitivo a livello europeo e internazionale, dove studiano e lavorano studenti e docenti di oltre 80 diverse nazionalità. In questo modo, la Bocconi svolge un ruolo di «laboratorio di pace» simile a quello svolto dal CERN. In un mondo in cui aumentano conflitti e tensioni fra etnie, religioni, culture e nazionalità differenti, penso non vi sia strumento più efficace che educare i giovani a convivere e lavorare insieme, approfondendo la conoscenza e la comprensione reciproca.
I progressi su questo fronte si sono tradotti anche in significativi miglioramenti dei più importanti ranking internazionali, con posizionamenti fra le prime dieci università in Europa e le prime venticinque nel mondo. Per i giovani che giungono a Milano da tante regioni d’Italia così come da numerosi altri Paesi, la Bocconi è divenuta sempre più, grazie alla propria reputazione nel mondo accademico e in quello del lavoro, una porta aperta sul mondo.
Mobilità sociale: la Bocconi come ascensore sociale
Il secondo obiettivo perseguito nel corso del quadriennio è stato quello legato alla capacità dell’Ateneo di contribuire alla mobilità sociale in Italia, ossia di attirare giovani provenienti da famiglie non abbienti e di consentire loro, dopo un adeguato percorso formativo, di trovare la propria realizzazione personale nel mondo del lavoro.
Si trattava di un punto a me particolarmente caro. Diversi studi empirici avevano mostrato come la mobilità sociale fosse particolarmente bassa nel nostro Paese. In pratica, chi nasce da una famiglia poco abbiente ha una probabilità molto bassa di riuscire ad accedere a una classe sociale più elevata e viceversa. Questi studi sottolineavano, peraltro, come l’estrazione sociale rappresentasse un fattore determinante di accesso all’istruzione universitaria. In questo modo, veniva frenata la possibilità di un giovane di realizzare il proprio potenziale e di affermarsi nel mondo del lavoro. A livello di Paese, una distribuzione iniqua dell’istruzione, oltre che una forma di disuguaglianza, rappresentava – e rappresenta ancora oggi – un freno al pieno sfruttamento del potenziale intellettuale nazionale – e dunque allo sviluppo e alla crescita.
In questo senso, una bassa mobilità sociale non ha solo conseguenze dal punto di vista dell’equità, ma anche da quello dell’efficienza: se capacità e impegno non sono adeguatamente remunerati, l’allocazione delle risorse umane di maggiori qualità non è ottimale e la crescita economica ne risulta penalizzata.
Nella mia visione, per contribuire, anche in minima parte, ad alleviare questo problema occorreva potenziare le agevolazioni a favore degli studenti provenienti da famiglie meno abbienti e fare in modo che un numero maggiore degli stessi arrivasse in Bocconi. L’Università in realtà investiva già risorse importanti per ampliare il più possibile il proprio bacino di reclutamento e per offrire l’opportunità di una formazione di qualità agli studenti migliori, sulla base del merito, indipendentemente dalle disponibilità economiche della famiglia di origine. Lo faceva attraverso la differenziazione delle rette in funzione della capacità contributiva, attraverso la concessione di quasi 2000 agevolazioni fra borse di studio di merito e agevolazioni per reddito, per un importo complessivo superiore a 20 milioni di euro. E, infine, attraverso l’attività dei prestiti agli studenti, concessi da primarie istituzioni finanziarie con garanzie offerte dal nostro Ateneo[4].
Vi era tuttavia, a mio avviso, un importante problema di immagine, che frenava la nostra capacità di svolgere al meglio questo ruolo. La Bocconi continuava – e per certi versi continua ancora oggi – a essere percepita in Italia come un’istituzione di élite, riservata a studenti provenienti da famiglie di ceto sociale elevato. Non sarebbe stato un problema se l’immagine fosse stata riferita a un’élite intellettuale, ma rappresentava un grande problema essendo riferita a un’élite socio-economica.
Chi conosce l’Università sa che questa immagine non corrisponde al vero; nel senso che, da sempre, moltissimi studenti di ceti sociali medio-bassi frequentano la Bocconi beneficiando di borse di studio e di alloggio in uno dei pensionati. Si trattava tuttavia di uno stereotipo che danneggiava la nostra Università, non solo in modo diretto, trasmettendo un’immagine negativa, ma anche indirettamente, frenando la domanda di giovani provenienti da famiglie in condizioni economiche difficili.
Decisi dunque, in questo supportato soprattutto dal collega e amico Alberto Grando, che nella squadra rettorale ricopriva l’incarico di prorettore allo sviluppo, di agire in due direzioni. Innanzitutto potenziando in modo significativo l’erogazione di borse di studio di reddito, ossia rivolte a studenti provenienti da famiglie non abbienti[5]; e in questo trovai il pieno appoggio sia del presidente sia del consigliere delegato, i quali approvarono l’idea e la sostennero anche nei confronti del consiglio di amministrazione dell’Università. In secondo luogo, introducendo un nuovo meccanismo tale per cui, invece di essere gli studenti a domandare un’agevolazione, sarebbe stata l’Università ad andare a cercare i ragazzi meritevoli e brillanti che non avrebbero potuto permettersi di continuare negli studi universitari. Questa seconda idea trovava ispirazione nella politica promossa da Richard Descoing, il visionario direttore dell’università parigina di Sciences Po, il quale negli anni Duemila aveva introdotto un sistema di accesso privilegiato e finanziariamente agevolato per gli studenti che provenivano da alcune scuole superiori della banlieue parigina.
Il progetto, denominato «Una scelta possibile», prevedeva che a un numero limitato di studenti venissero offerti l’esenzione dalla retta, un alloggio, un computer e una borsa di studio. I beneficiari avrebbero dovuto crescere nel tempo grazie alle risorse reperite anche attraverso una campagna ad hoc di raccolta fondi. Cominciai così a contattare alcuni nostri laureati che si erano affermati nel mondo del lavoro ai quali piacque molto l’idea di poter restituire alla Bocconi, nella forma di agevolazioni rivolte a ragazzi che non avrebbero potuto permettersi gli studi, una parte di quanto avevano ricevuto dall’Università[6].
L’obiettivo era dunque duplice: favorire l’accesso di studenti con alto potenziale, ma provenienti da contesti tali per cui non avrebbero potuto permettersi di proseguire gli studi; contribuire in questo modo a demolire l’immagine di Bocconi come università destinata esclusivamente a élite economico-sociali.
Cominciai anche a inserire il progetto nelle mie comunicazioni verso l’esterno. Ogni volta che rilasciavo un’intervista – o che intervenivo in occasioni pubbliche – parlavo di internazionalizzazione e di mobilità sociale. Pensavo che avessimo davvero un enorme potenziale in questa direzione, favorito dall’elevato tasso di occupazione dei nostri laureati, superiore al 94 per cento. Ricordo che un giorno rilasciai un’intervista al Corriere della Sera nella quale descrivevo il progetto e anche l’idea ispiratrice. Mi chiese un colloquio un imprenditore italiano che aveva rilevato un’azienda farmaceutica negli Stati Uniti. Non si trattava di un nostro laureato, ma di una persona molto sensibile ai temi della mobilità sociale e dell’importanza per il nostro Paese di affrontare questo problema. Mi interrogò per circa mezz’ora sulla natura del progetto fino a un punto nel quale stavo per chiedergli cortesemente di lasciarmi lavorare quando improvvisamente mi guardò e disse: «Bene, mi ha convinto, ho deciso di donarle 300.000 euro per sostenere questo progetto». Rimasi molto sorpreso e al contempo felice del fatto che una persona con un background molto diverso – era un laureato in chimica che per diversi anni aveva svolto attività di ricerca – che non aveva alcun debito di riconoscenza nei confronti dell’Università, riconoscesse il valore di quanto stavamo facendo e decidesse di offrire il suo contributo.
Dietro suggerimento di Alberto Grando, prevedemmo anche che a ogni studente selezionato venisse assegnato un mentore, un docente che lo avrebbe seguito e assistito nel percorso accademico. Non potevamo permetterci che il progetto fallisse nella sua fase iniziale. Era cruciale che i primi studenti ammessi completassero al meglio gli studi e trovassero un’occupazione per far sì che il progetto acquisisse credibilità e che i donatori continuassero a sostenerlo. In questo fui motivato anche dall’esperienza di Descoing a Sciences Po, dove sapevo che la prima fase aveva incontrato problemi nei risultati accademici dei beneficiari. Chiedemmo dunque ai colleghi chi fosse disponibile a dare una mano seguendo personalmente uno degli studenti beneficiari. Anche qui la risposta fu molto positiva, le disponibilità furono superiori ai bisogni e numerosi colleghi espressero il loro apprezzamento per l’iniziativa.
L’obiettivo della mobilità sociale è stato perseguito non solo incrementando le risorse interne destinate a borse di studio e altre forme di agevolazione finanziaria, ma anche intensificando gli sforzi connessi all’attività di fundraising. In quest’area, si erano già ottenuti risultati soddisfacenti nella raccolta fondi da fondazioni, banche e grandi gruppi industriali. Molto modesti erano invece stati fino a quel momento i risultati ottenuti con gli alumni, che rappresentano in altri Paesi, specie negli Stati Uniti, la colonna portante dell’attività di fundraising degli atenei più prestigiosi.
Decisi così di intensificare gli sforzi in questa direzione, impegnandomi a visitare periodicamente le associazioni degli alumni nelle città più importanti – Londra, New York, Parigi, Shanghai ecc. – cercando da un lato di rafforzare il legame con l’alma mater e dall’altro di aggiornarli sulla strategia dell’Università, sugli obiettivi ambiziosi che ci eravamo prefissati e sull’importanza del loro sostegno in una logica di give back. Si è trattato di un lavoro impegnativo, che mi imponeva di viaggiare molto, ma che penso abbia posto le basi per una crescita progressiva del sostegno dei nostri laureati.
Innovazione didattica
Un terzo obiettivo prioritario del rettorato è stato quello relativo alla didattica. Esso ha in particolare riguardato due aspetti: le metodologie didattiche e i confini disciplinari dei programmi formativi.
Metodologie didattiche. Su questo primo fronte, la ratio sottostante le innovazioni introdotte nel quadriennio è stata la crescente diffusione delle nuove tecnologie digitali, che minacciavano direttamente il modello di business delle università tradizionali, fondate su una didattica frontale. L’offerta di singoli corsi e di interi programmi formativi online – i cosiddetti Massive Open Online Course (MOOC) – stava conoscendo una crescita esponenziale. Università di prestigio offrivano gratuitamente corsi in rete e ognuno di questi veniva seguito da migliaia di studenti localizzati in ogni continente. Si trattava di un fenomeno con implicazioni rilevanti per le università: la conoscenza più avanzata, così come il conseguimento di un titolo universitario, una volta possibili solo mediante la presenza fisica nelle aule, divenivano accessibili a giovani di tutto il mondo a costi contenuti e senza la necessità di alcuno spostamento fisico. Gli studenti venivano esposti alla conoscenza, ai materiali e ai modelli didattici dei migliori atenei del mondo. Questo processo favoriva la trasparenza, la diffusione delle best practice e stimolava la concorrenza fra atenei. Esso rendeva inevitabile innovare e aggiornare i modelli didattici e formativi. Il processo di apprendimento doveva arricchirsi e differenziarsi sempre più rispetto alla semplice trasmissione di contenuti.
Per perseguire questo obiettivo è stato istituito il centro BETA (Bocconi Excellence in Teaching Alliance), un’unità organizzativa alla quale sono state assegnate risorse economiche e obiettivi di sviluppo dell’innovazione nella didattica. Nei quattro anni del rettorato, BETA, sotto la guida del collega Luigi Proserpio, ha promosso numerose iniziative rilevanti, in stretta collaborazione non solo con le scuole dell’Università ma anche con numerosi servizi amministrativi dell’Ateneo, dalla biblioteca alla programmazione didattica, dal servizio tecnico ai sistemi informativi. Fra queste, lo sviluppo di corsi MOOC e la connessa partnership con Coursera (la più diffusa piattaforma di corsi online originata da Stanford), la riprogettazione delle aule in chiave tecnologica, l’introduzione di un corso obbligatorio di metodologie didattiche per tutti i nuovi docenti e di corsi facoltativi su temi più specifici destinati a tutta la faculty, il supporto ai docenti nello sviluppo di metodi didattici innovativi fondati sull’utilizzo di tecnologie digitali, e altre ancora.
Confini disciplinari dei programmi formativi. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, si è assistito a un ampliamento. Bocconi era – ed è ancora fortemente centrata – su tre gradi aree disciplinari: economia, management e diritto. Vi erano tuttavia diversi brillanti colleghi attivi, nella didattica così come nella ricerca, in due aree disciplinari molto vicine a quelle menzionate: da un lato scienze politiche, dall’altro computer science. Entrare in modo più deciso in queste due aree disciplinari, sviluppando programmi dedicati, avrebbe consentito all’Università di ottenere due importanti vantaggi. Innanzitutto la possibilità, mediante lo sviluppo della faculty di scienze politiche, di attivarsi a tutto campo nell’area più ampia delle scienze sociali. Ciò comportava un beneficio non solo dal punto di vista delle sinergie e delle complementarietà nell’attività di ricerca, ma anche sul fronte dei ranking internazionali, nei quali generalmente gli atenei focalizzati su poche discipline tendono a essere penalizzati. In secondo luogo, la possibilità, mediante lo sviluppo di programmi formativi e dell’attività di ricerca in aree quali computer science e data science, di fornire un supporto diretto alle discipline più core – quali economia, finanza, management, marketing – per le quali l’utilizzo di strumenti di programmazione e soprattutto di moli rilevanti di dati sono venuti assumendo una rilevanza crescente.
Una spinta forte nella direzione del potenziamento, sia nella didattica che nella ricerca, delle competenze legate all’area di computer science, data science e business analytics è anche venuta dall’International Advisory Council (IAC) dell’Università, un organismo fortemente voluto dal presidente Monti, all’interno del quale siedono personaggi di grande levatura del mondo dell’industria, della finanza e dell’accademia. Lo IAC si riuniva, e ancora oggi si riunisce, una volta l’anno, a dicembre, per discutere il piano strategico dell’Università, lo stato di avanzamento dello stesso, fornendo a rettore e consigliere delegato preziose indicazioni per lo sviluppo futuro dell’Ateneo.
Seguendo questa logica, abbiamo lavorato al disegno e poi al lancio di nuovi programmi internazionali nell’area delle scienze politiche (Bachelor in International Politics and Government) e in quella, sempre più rilevante, che sta a cavallo fra economia, management e computer science (Bachelor in Economics, Management and Computer Science). L’idea sottostante quest’ultimo programma non è tanto quella di formare esperti di informatica o computer scientists, quanto piuttosto economisti e manager che conoscano bene il linguaggio dell’informatica, che sappiano programmare e che possano muoversi con facilità nel nuovo mondo digitale. I due nuovi programmi hanno avuto successo sul fronte delle domande e sono stati successivamente completati dall’introduzione di due corrispondenti Master of Science internazionali e dal lancio del master (LLM) in Law of Internet Technologies.
In conclusione
Ripercorrendo obiettivi e risultati conseguiti durante il quadriennio si ha l’impressione che si sia trattato di un periodo impegnativo ma lineare, privo di particolari difficoltà o ostacoli. In realtà, come sempre accade nella gestione di organizzazioni complesse, non vi sono stati solo momenti di soddisfazione, ma anche di delusione e difficoltà. Fra le delusioni ricordo in particolare la testimonianza in Bocconi di Flavio Briatore, una figura certamente non coerente con il sistema di valori dell’Università. Era stato invitato da un gruppo di studenti e io venni purtroppo informato solo la sera prima dell’evento, quando era ormai troppo tardi per fermare l’iniziativa. I media diedero particolare rilievo all’episodio e io rimasi molto amareggiato dal numero dei messaggi di disapprovazione e di condanna che ricevetti da nostri laureati, operanti in Italia e in altri Paesi. Il mio giudizio relativo al danno reputazionale causato all’Università fu tale che pensai seriamente di rassegnare le dimissioni. Fu in questo caso il presidente Monti a convincermi a restare.
Fra le difficoltà ricordo un episodio particolare che ebbe anch’esso notevole eco sulla stampa: la diffusione su Facebook di alcuni quesiti relativi a un esame scritto di diritto pubblico. In pratica, durante una gita con alcuni studenti a Roma, un docente a contratto di diritto pubblico aveva comunicato ad alcuni di loro gli argomenti che sarebbero stati oggetto dell’esame alcuni giorni dopo. Gli studenti misero in rete tali argomenti la sera precedente l’esame. Trattandosi di un esame obbligatorio del triennio, parteciparono allo stesso oltre mille studenti, la stragrande maggioranza dei quali non aveva naturalmente avuto alcun accesso ai quesiti prima dello stesso esame. Fui informato dell’accaduto il giorno successivo e mi si assicurò che, in realtà, solo una ventina di studenti avevano avuto la possibilità di approfittare della soffiata. Dopo averci riflettuto per una notte ed essermi consultato con alcuni colleghi e con i rappresentanti degli studenti, convocai il titolare del corso e decisi che, nonostante il danno che questo avrebbe recato a molti studenti, l’esame andava annullato e ripetuto. Chiesi inoltre di annullare il contratto con il docente responsabile dell’accaduto, il quale cessò così la sua collaborazione con l’Università. Mi aspettavo una reazione molto pesante da parte di quella maggioranza che aveva sostenuto in buona fede l’esame e che ora si vedeva costretta a ripeterlo. In realtà ricevetti solo un paio di email negative e la decisione fu in generale accolta con favore.
Fra le soddisfazioni maggiori ricordo una decisione relativamente semplice, quella legata a Pane Quotidiano, un centro di distribuzione gratuita del cibo con sede in viale Toscana, molto vicino alla Bocconi, presso il quale ogni giorno diverse centinaia di persone in difficoltà si mettono in coda per ricevere pane, latte, formaggio, frutta, verdura, pasta, vestiti e altri generi di prima necessità. Avevo sempre trovato il sistema di sanzioni per gli studenti, fondato sulla sospensione da corsi ed esami, inutile e poco costruttivo. Purtroppo la normativa non consentiva scelte di natura differente, quali periodi di lavoro o di volontariato. Chiesi a Salvatore Grillo, direttore dell’ISU, di farmi conoscere i responsabili di Pane Quotidiano e, in quell’occasione, chiesi a Jean Pierre Bichard, direttore del centro, se sarebbe stato disponibile ad accogliere, come volontari, gli studenti della Bocconi che avessero ricevuto una sanzione[7]. Jean Pierre fu entusiasta dell’idea, che portai in consiglio accademico proponendo che a ogni studente sanzionato fosse offerta la possibilità di svolgere attività di volontariato presso Pane Quotidiano. Se avesse accettato, il rettore avrebbe poi valutato, sulla base del rapporto ricevuto dall’istituzione benefica, se concedere la «grazia» e sospendere la sanzione. Il sistema fu ben accolto anche dai rappresentanti degli studenti che ne apprezzarono il contenuto formativo e di utilità sociale e ancora oggi è in uso.
Fra i momenti di maggiore soddisfazione ricordo la mia ultima inaugurazione dell’anno accademico (ottobre 2016), con l’intervento di Fabiola Giannotti, direttrice del CERN di Ginevra e grande scienziata italiana. Fabiola tenne una bellissima relazione dedicata non solo alle attività e alle scoperte del CERN, ma anche ai valori della ricerca scientifica e al piacere di contribuire al progresso della conoscenza. Si trattava forse di una figura di minore notorietà rispetto ai relatori delle precedenti inaugurazioni del mio rettorato – Mario Draghi, Christine Lagarde, Vittorio Colao e Tim Cook – ma fu in grado di trasmettere grande entusiasmo e passione e di raccogliere un lungo e caloroso applauso – e per me fu l’occasione di fare il punto sui risultati conseguiti dalla Bocconi nel corso del quadriennio e di salutare e ringraziare tutti i colleghi che mi erano stati così vicini.
Mi piace chiudere queste brevi note con qualche semplice considerazione relativa alle lezioni che ho tratto dall’esperienza del rettorato, facendo anche riferimento al lavoro della squadra che mi ha così generosamente sostenuto durante i quattro anni. Una prima lezione riguarda l’importanza di definire in modo chiaro e trasparente gli obiettivi della propria azione. Quando si arriva a una posizione di vertice dall’interno di una grande organizzazione si hanno vantaggi e svantaggi. I primi sono legati alla conoscenza del funzionamento della macchina organizzativa che deriva dagli anni trascorsi al suo interno: sono noti i meccanismi operativi, le grandezze di riferimento, le persone, i punti di forza e di debolezza. Gli svantaggi invece hanno paradossalmente a che fare con i legami di amicizia nati in quegli stessi anni all’interno dell’istituzione; legami che rendono difficile assumere decisioni in modo del tutto razionale, prescindendo dagli effetti che queste possono avere sulle persone amiche. Sperimentai queste difficoltà già nel primo periodo del rettorato, quando dovetti fare alcune scelte delicate; e lo sperimentai anche in seguito ogni volta che si trattava di assumere una posizione relativa a promozioni. Il fatto di avere una visione, tradotta in obiettivi chiari e oggettivi, ben definiti all’interno di un piano strategico, ha rappresentato un importante aiuto, un utile ancoraggio che ha guidato la mia azione e le decisioni più difficili.
Una seconda lezione riguarda l’importanza di adottare un orizzonte temporale di medio termine, senza cercare risultati nel breve periodo. Per quanto apparentemente banale, è normale che chi assume un ruolo di guida di un’organizzazione complessa sia tentato dal desiderio di ottenere risultati immediati. Si tratta di una tentazione alla quale è importante resistere, per evitare di essere preda di quello short termism che sovente viene lamentato da chi si deve confrontare con i mercati finanziari. Nel mio caso la tentazione veniva anche da una situazione contingente particolare. Mi era infatti stato chiesto di assumere l’incarico di rettore nel luglio del 2012, in una fase delicata della vita. Avevo superato da pochi mesi un delicato intervento chirurgico che mi aveva costretto a un periodo di qualche mese di allontanamento dalla vita attiva in Bocconi e non mi aspettavo, almeno fino a qualche mese prima, che mi potesse essere chiesto di guidare l’Università dove avevo trascorso l’intera mia vita professionale. La combinazione di questi due fattori fece sì che la fase iniziale fosse per me difficile – o almeno io la vissi come tale. Sentivo gli occhi di molti colleghi e amici addosso e al contempo avvertivo il peso di aspettative molto elevate.
Infine, la lezione forse più importante riguarda l’esigenza che la squadra sia coesa, motivata e determinata. In questo ritengo di essere stato particolarmente fortunato, avendo beneficiato del supporto di colleghi che, nei loro rispettivi ruoli (prorettori, dean di scuole, direttori di dipartimento, direttori di divisioni, responsabili di servizi ecc.) hanno lavorato in armonia e con passione, rispettando il lavoro altrui e sottoponendo periodicamente il proprio alla critica costruttiva degli altri membri della squadra[8].
In conclusione, l’esperienza del rettorato è stata per me unica. Ho avuto l’onore di servire un’istituzione che rappresenta un’eccellenza internazionale del nostro Paese e il piacere di farlo lavorando a fianco di tanti colleghi nei quali è vivo e forte, allora come oggi, l’orgoglio di appartenere a una grande Università, la quale svolge un ruolo importante per il proprio Paese e per l’Europa.
↑ 1
A titolo di esempio, la Undergraduate School nel 2012 offriva un programma internazionale e quattro programmi in italiano. Alla fine del quadriennio i programmi Bachelor internazionali erano passati a sei. Analoghi progressi sono stati compiuti dalla Scuola Graduate – la cui maggioranza dei programmi era rappresentata da Master of Science internazionali – dalla Scuola di PhD, che offriva ormai esclusivamente programmi internazionali, e dalla SDA. Anche la School of Law, oltre ad aver potenziato in modo rilevante l’offerta di corsi opzionali in inglese, nell’ambito del tradizionale corso di laurea magistrale in Giurisprudenza (CLMG), ha lanciato un nuovo master internazionale.
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Credo sia importante sottolineare come questo fenomeno – diversamente da quanto pensano numerosi critici, sostenitori della difesa della lingua italiana come lingua per la didattica universitaria – contribuisca alla promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Esso infatti agevola l’arrivo in Italia di studenti di diversi Paesi, giovani che decidono di trascorrere una parte importante della loro vita a Milano, in Italia. In questi anni imparano a conoscere il nostro Paese, la nostra lingua, la nostra cultura e ne diventano i migliori ambasciatori nel mondo.
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Ad accrescere l’attrattività nei confronti di studenti di altri Paesi ha contribuito anche il lancio della Bocconi Summer School, una serie di corsi estivi aperti a studenti di tutto il mondo, la cui offerta si è progressivamente ampliata negli anni successivi.
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La Bocconi è ancora oggi l’università maggiormente attiva in tale ambito in Italia, con ormai oltre 50 milioni di euro erogati a oltre 3000 studenti.
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Nella mia visione, queste sarebbero dovute crescere del 50 per cento, da 20 a 30 milioni di euro, entro il 2020.
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Aderirono a titolo personale numerosi laureati vicini alla Bocconi quali Massimiliano Cagliero, Vittorio Colao, Diego De Giorgi, Diego Piacentini e Davide Serra. La disponibilità a contribuire finanziariamente sarebbe stata più elevata per i laureati che vivevano o avevano vissuto all’estero, specie a Londra o negli Stati Uniti, dove la cultura del give back nei confronti della propria alma mater è più sentita e diffusa. L’effetto di queste donazioni fu tale per cui il progetto si sarebbe sostenuto da solo.
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Si tratta, in genere, di sanzioni legate a copiature agli esami, bravate nei pensionati o altre forme di comportamenti scorretti.
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In questo, un ruolo chiave è stato svolto da due persone. La prima è il consigliere delegato, Bruno Pavesi, con il quale ho avuto la fortuna di sviluppare un rapporto aperto, trasparente, caratterizzato naturalmente a volte di opinioni e visioni differenti, ma sempre volto a un confronto costruttivo e a soluzioni pragmatiche guidate solo dall’interesse dell’Ateneo. Anche grazie a questo rapporto ho potuto lavorare in modo costruttivo e aperto con i colleghi dell’amministrazione, i quali hanno sposato gli obiettivi ambiziosi del rettorato e si sono impegnati senza riserve, anche oltre le mie aspettative. La seconda è Marco Agliati, prorettore all’organizzazione con delega ai rapporti con gli studenti, il quale ha svolto nei quattro anni un paziente lavoro di coordinamento dei lavori della squadra rettorale, prendendosi sovente in carico i compiti più difficili e al contempo favorendo il dialogo e la trasparenza fra i diversi prorettori e direttori di scuola.
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