Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

La ricerca in Bocconi


Parole chiave: Fundraising, Strutture organizzative

La storia della Bocconi negli ultimi vent’anni è una storia di crescenti investimenti nell’attività di ricerca, sempre più valorizzata in quanto tale, indipendentemente dalle ricadute sull’attività didattica. Questo impegno si vede non solo e non tanto nel forte incremento delle risorse stanziate per gli incentivi alla ricerca o per il finanziamento di progetti e centri di ricerca (passate da meno di un milione nel 2000 a quasi 6 milioni nel 2018) quanto nel capitale politico investito nel creare consenso attorno a criteri di misurazione dei prodotti della ricerca non autoreferenziali e coerenti con standard internazionali sempre più sfidanti. Solo questo cospicuo investimento iniziale ha permesso, negli ultimi dieci anni, di adottare parametri oggettivi per la valutazione della ricerca non manipolabili dai diretti interessati e di individuare una struttura di incentivi tale da favorire l’impegno della faculty nella ricerca, senza per questo spiazzare le attività di insegnamento.

In queste pagine proviamo a ripercorrere la strada intrapresa a partire dal documento master sulla ricerca del 2007 che valorizzava la figura di prorettore alla ricerca affidandole il compito precipuo di «promuovere l’attività di ricerca dell’università, anche elaborando progetti di sviluppo con l’obiettivo di rafforzare l’accreditamento dell’università e dei suoi studiosi presso le comunità scientifiche nazionali e internazionali di riferimento».

20140922_cd467_IPP0012

La storia precedente viene narrata in questo volume in particolare dai contributi di Francesco Giavazzi e di Lorenzo Peccati[1], tra i primi prorettori alla ricerca (assieme a Vittorio Coda, Aldo Montesano, Giancarlo Forestieri e Vincenzo Perrone). Gli anni precedenti al biennio 2007-08 sono importanti non solo per il lavoro certosino svolto nel definire metriche dell’attività di ricerca, ma anche e soprattutto per maturare il consenso attorno alle scelte che hanno guidato la politica della ricerca in Bocconi negli ultimi dieci anni. In una democrazia estesa e complessa come quella di una università, la raccolta di consenso attorno all’idea di un passaggio progressivo da teaching university a teaching and research university è stata non meno importante della concreta articolazione di questa scelta, tema cui è dedicato questo capitolo. Cercheremo, dapprima, di riassumere le principali tappe della riforma delle politiche per la ricerca e, successivamente, di offrirne una valutazione.

Il documento master e la lista delle riviste

Il documento master sul «Sistema di valutazione, incentivazione e sostegno dell’attività di ricerca» nasceva nell’ambito del cosiddetto piano di sviluppo (quello che oggi verrebbe chiamato piano strategico), elaborato sotto il rettorato di Angelo Provasoli, per definire obiettivi di medio periodo dell’Università. Il documento partiva dal presupposto che «gli organi di governo dell’università hanno espresso in modo esplicito la volontà di migliorare la reputazione dell’Università nel campo della ricerca europea e internazionale». Questa premessa giustificava la proposta di un sistema di valutazione dei prodotti dell’attività di ricerca che coinvolgesse l’intero corpo docente, a eccezione dei docenti a contratto. La valutazione era la base per selezionare l’accesso al «profilo research» (con conseguente diminuzione del carico didattico) e ai fondi per la ricerca di base, nonché per stabilire i vincitori delle indennità di eccellenza nella ricerca e del premio alla ricerca.

La valutazione dei singoli prodotti di ricerca era differenziata a seconda della tipologia di pubblicazioni (articoli su riviste scientifiche, note e commenti, monografie scientifiche ecc.). Nell’ambito di ciascuna di queste categorie vennero determinate delle fasce (A+, A, B, C) corrispondenti alla qualità delle riviste (nel caso di articoli su riviste scientifiche) o delle case editrici (nel caso delle monografie). Pur contemplando una pluralità di prodotti di ricerca valutabili, la volontà era quella di incoraggiare pubblicazioni su riviste scientifiche, soprattutto quelle di maggiore prestigio. Questo proposito si rifletteva in punteggi relativamente elevati per questa tipologia di prodotti. La classificazione delle riviste nell’ambito delle quattro fasce (lista delle riviste) rappresentava perciò il cuore degli incentivi alla ricerca e, per questa ragione, fu al centro di lunghe, spesso estenuanti, controversie.

20070219_cd053_IMG_3466

Anche se il documento master non escludeva la possibilità di rivolgersi a referee esterni per una valutazione nel merito dei singoli prodotti, indipendentemente dalla classificazione delle riviste, oltre che nell’attribuzione dei premi alla ricerca, il metodo cosiddetto «indiretto» di valutazione in base alla rivista era quello di gran lunga prevalente e l’unico peraltro attuabile alla luce della numerosità delle pubblicazioni, della frequenza annuale delle valutazioni e dei costi dei referaggi esterni.

In sintesi, il documento portava l’Università a dotarsi di potenti antidoti contro una valutazione autoreferenziale dell’attività di ricerca ricorrendo perlopiù a parametri oggettivi; tra i quali i più importanti erano i punteggi assegnati nella lista delle riviste. Questi punteggi guardavano (anche se non da subito in modo formalizzato) all’impatto delle diverse riviste sulla ricerca condotta a livello internazionale. Nel caso fossero state richieste valutazioni qualitative di alcuni prodotti di ricerca, queste dovevano comunque contemplare l’intervento di referee esterni.

Il prorettore alla ricerca

Uno degli aspetti maggiormente innovativi del documento master era la valorizzazione del ruolo del prorettore alla ricerca. Questi veniva supportato, sul piano amministrativo, dalla potenziata divisione ricerca con il compito di assicurare, di concerto con il prorettore alle risorse umane, la supervisione del processo di valutazione e di aggiornare periodicamente la lista delle riviste nell’ambito del comitato ricerca, che raccoglieva rappresentanti di tutti i dipartimenti. Il prorettore alla ricerca si sarebbe, quindi, rivelato una figura centrale per mediare fra le diverse posizioni e per far accettare le nuove regole del gioco anche ai dipartimenti e ai docenti più reticenti. La valorizzazione di un prorettorato specificamente dedicato alla ricerca era un’altra indicazione della determinazione con cui l’Università aveva imboccato la strada dell’incentivazione dell’attività di ricerca da parte di tutto il corpo docente; posto che non tutti i dipartimenti avevano aderito con la stessa convinzione ai nuovi indirizzi di politica della ricerca.

Il comitato ricerca è stato negli anni successivi molto più che un ambito in cui discutere aggiustamenti alla lista delle riviste, a seguito dell’apertura di nuovi percorsi di ricerca e di cambiamenti nella gerarchia delle riviste; è diventato l’organismo dove è maturato il consenso per una serie di innovazioni incrementali al metodo introdotto con il documento master.

Fra queste ci preme ricordare le innovazioni introdotte nel luglio 2013 (mentre ero prorettore alla ricerca), volte a: accelerare i tempi della valutazione e rendere il sistema maggiormente inclusivo (permettendo l’accesso ai profili research e ai fondi per la ricerca anche a docenti che avevano subito interruzioni di carriera per congedi parentali o compiti esterni); ridurre le discontinuità e gli effetti soglia presenti nel sistema di valutazione; permettere ai vincitori di grant internazionali (a partire dai progetti dell’European Research Council-ERC) di beneficiare di una serie di incentivi interni – tra cui l’integrazione della propria remunerazione accademica e la riduzione di aula per concentrarsi maggiormente sulla ricerca; rendere più restrittivo l’accesso ai premi per l’eccellenza nella ricerca (confinandoli alle sole pubblicazioni nella fascia A+).

In quella occasione si introdusse anche un premio per la rilevanza pratica della ricerca, destinato a pubblicazioni che, seppur non pubblicate sui top journal della fascia A+, avessero avuto un impatto importante sulla comunità scientifica e sulle scelte di politica economica o nella giurisprudenza.

Si decise anche, nell’ambito del comitato ricerca, l’utilizzo di una metrica obiettiva, come l’article influence score (AIS), per la classificazione delle riviste[2]. E, nel 2014, si riuscì a estendere anche al dipartimento di studi giuridici, sino a quel momento in difficoltà nell’adottare misurazioni oggettive dell’attività di ricerca, una lista delle riviste con l’individuazione di una fascia A+, premessa per una piena attuazione dei nuovi orientamenti per l’attività di ricerca[3].

Nel 2015 (prorettore alla ricerca Eliana La Ferrara) venne istituito il Junior Researchers Grant, con l’obiettivo di favorire i giovani ricercatori, che hanno meno possibilità di acquisire grant competitivi esterni, grazie anche al contributo della Fondazione Invernizzi. E, nel 2017 (prorettore alla ricerca Marco Ottaviani) venne istituito il Senior Researcher Grant, programma cofinanziato da donazioni filantropiche da parte di fonti private, con l’obiettivo di incoraggiare i ricercatori a intraprendere ricerche che possano portare a ulteriori finanziamenti da parte di organismi esterni.

Nel 2016 fu previsto anche un incentivo alla partecipazione a bandi di ricerca dell’European Research Council o del programma quadro UE Horizon2020 (H2020), riconoscendo un seed grant ai membri della faculty che avessero presentato proposte progettuali competitive ottenendo una buona valutazione senza aver ottenuto il finanziamento.

La razionalizzazione dei centri di ricerca

Il prorettore alla ricerca ebbe fin da subito anche compiti legati alla valutazione dell’attività dei centri di ricerca dell’Università. Questo ruolo di supervisione della ricerca collettiva svolta dai centri, oltre che di quella individuale condotta dai singoli docenti, diventò sempre più importante nel corso del tempo, come riconosciuto dai decreti di nomina dei prorettori successivi al primo. Nel 2010 gli si attribuì il compito di individuare i criteri e parametri per «l’attivazione/disattivazione dei centri di ricerca» e, nel 2012 gli si chiese di presiedere, oltre al comitato ricerca, anche il neoistituito comitato dei direttori dei centri di ricerca.

200612_cd050_IMG_6729

È soprattutto nel periodo che va dal 2012 al 2014 (mentre ero prorettore alla ricerca) che l’Università procedette a una razionalizzazione della struttura dei centri di ricerca. Il loro numero venne drasticamente ridimensionato portandoli dai 19 del 2012 agli 8 (più la divisione ricerca della SDA) del dicembre 2014 e ai 7 del dicembre 2018. La razionalizzazione rispondeva ad alcuni criteri generali su cui era stato raggiunto un non facile consenso nell’ambito del prorettorato di Vincenzo Perrone. Tra questi:

  • l’aggregazione di centri simili in modo da raggiungere massa critica, migliorare l’interlocuzione con stakeholder esterni (evitare duplicazioni inutili, soprattutto in fase di proposta di progetti e di raccolta di quote associative), favorire l’interdisciplinarietà e ridurre la complessità gestionale del sistema migliorando nel contempo l’immagine esterna della Bocconi;
  • trasformare i centri di minori dimensioni e con volumi d’attività non rilevanti in «unità» interne alla nuova divisione ricerca, in modo da semplificare la governance e la gestione, rendere più efficace il controllo, condividere risorse e servizi centrali, ridurre il numero di centri migliorando l’interazione con gli stakeholder esterni;
  • rivedere le politiche di fundraising condotte autonomamente dai centri (anche nella forma di quote associative senza vincolo di servizio/prodotto) alla luce dello sforzo centralizzato varato con la campagna di fundraising Bocconi, gestita da un prorettore allo sviluppo all’uopo nominato, da una struttura professionale facente capo a un direttore sviluppo e sostenuta dai vertici dell’Ateneo incluso il CdA.

Con questa riduzione si ottenne una diminuzione dei costi fissi sostenuti per la gestione dei singoli centri; si raggiunsero economie di scopo nel condurre attività di ricerca in ambiti affini e si rese operativo il principio secondo il quale i centri avrebbero dovuto essere un veicolo per promuovere attività di ricerca a livello interdipartimentale, essendo perciò complementari ai dipartimenti nella programmazione e nell’incentivazione alla ricerca. Anche in questo caso si è trattato di un processo che ha incontrato non poche resistenze e che è stato portato a termine solo grazie al sostegno convinto del rettore dell’epoca, Andrea Sironi.

Una valutazione della valutazione

Sin qui le principali tappe delle politiche a sostegno della ricerca negli ultimi dieci anni. Vorrei ora passare a una, pur breve «valutazione della valutazione», affrontando due interrogativi molto importanti sull’efficacia delle politiche di incentivazione precedentemente descritte. Il primo quesito riguarda l’efficacia del sistema premiante precedentemente delineato rispetto alla ricerca di un legame più stretto fra remunerazione del corpo docente e produttività scientifica. Il secondo quesito ha, invece, a che vedere con il rischio di spiazzamento dell’attività didattica, la complementarietà o sostituibilità fra attività di ricerca e insegnamento.

Incentivi alla ricerca e nuovo modello retributivo. A giudizio di chi scrive il sistema di incentivi descritto rimane efficace anche a seguito dell’introduzione del Modello Retributivo Bocconi (MRB) per i docenti di ruolo, un sistema che riconosce incrementi permanenti alla retribuzione sulla base, inter alia, del contributo all’attività di ricerca della Bocconi offerta dai singoli membri della faculty. Vi sono, infatti, diverse ragioni per cui l’MRB non può rappresentare un sostituto del sistema di incentivi individuali introdotto a partire dal 2008.

20060508_cd040_IMG_1958

La prima ragione è che il riconoscimento di pubblicazioni eccellenti richiede di essere tempestivo, come nel caso delle indennità di eccellenza erogate nello stesso anno di accettazione degli articoli. Le revisioni dell’MRB procedono, invece, con tempi relativamente lunghi, richiedendo fino a tre anni, dato che generalmente ogni anno un terzo dei docenti viene valutato in questo processo. Il secondo motivo è che i premi per la ricerca offrono anche un premio reputazionale; al contrario dell’MRB che, per sua natura, si basa su valutazioni messe a disposizione del solo diretto interessato. La terza ragione è che gli incentivi conferiscono anche fondi per l’attività di ricerca (acquisto di banche dati, ore di RA ecc.) che non possono essere offerti alle stesse condizioni nell’ambito di una classe stipendiale. Infine, i premi alla ricerca non sono un sostituto dell’MRB perché offrono la possibilità di ridurre il carico didattico promuovendone al contempo la qualità. L’idea è quella di insegnare meno, ma di insegnare meglio, come discusso in seguito.

Ci sono anche indicazioni fattuali di una certa efficacia del sistema premiante applicato a partire dal 2008. In particolare i dati, analizzati dalla divisione ricerca nel 2013 sulla produttività scientifica dei docenti della Bocconi prima e dopo il 2008, avevano confermato l’efficacia del sistema premiante. In queste analisi gli effetti degli incentivi venivano identificati utilizzando una seconda differenza, oltre a quella fra prima e dopo la riforma, vale a dire la distinzione fra i docenti di ruolo della Bocconi, «trattati» dalla riforma, e i professori a contratto, un «gruppo di controllo» dato che i premi erano circoscritti ai docenti di ruolo. I premi alla ricerca potrebbero anche avere incoraggiato il reclutamento di ricercatori di frontiera, permettendo così all’Università di migliorare la propria performance, grazie sia a una maggiore prolificità dei docenti già presenti nell’Università (margine intensivo) sia all’attrazione di nuove leve con una produttività superiore a quella della media dei docenti della Bocconi (margine estensivo).

Gli eccellenti risultati ottenuti nella ricerca sono confermati dai risultati raggiunti dall’Università nell’ambito del processo nazionale di valutazione della qualità della ricerca (VQR) effettuato dall’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), rispettivamente per gli anni 2004-10 e 2011-14. Nella prima valutazione la Bocconi si collocava al primo posto nel numero di docenti che avevano ottenuto il punteggio massimo (70, di cui 18 reclutati dopo il 2006, a riprova dell’importanza del margine estensivo)[4]. La VQR metteva peraltro in luce una distribuzione bimodale, polarizzata, dei punteggi dei docenti, collocati ai due estremi dell’eccellenza o della pressoché totale inattività (punteggio pari a 0 nella VQR). I risultati di questa valutazione avrebbero ispirato la riforma del sistema incentivante del luglio 2013 di cui si è dato conto in precedenza. La seconda VQR certificava ulteriori progressi della Bocconi in pressoché tutte le aree (con le discipline storiche come unica eccezione).

20121128_cd432_IMG_5955

Insegnare meglio insegnare tutti. Come già sottolineato anche in altri contributi del volume, il passaggio da teaching university a teaching and research university non vuole certo comportare un peggioramento della qualità della didattica. Al contrario, l’idea è quella di promuovere il più possibile forme di complementarietà fra i due tipi di attività. Il quesito da porsi, dunque, è se gli incentivi alla ricerca abbiano involontariamente finito per spiazzare l’investimento di molti docenti nella qualità dell’insegnamento. La questione è tanto più importante quando si riconosca che vi sono diverse ragioni teoriche per ritenere che a un’università non convenga mai azzerare l’attività didattica dei membri della faculty maggiormente prolifici sul piano della ricerca. Vi è infatti una componente del teaching che è strettamente funzionale alla ricerca e viceversa. Un esempio tipico è quello dell’insegnamento nell’ambito dei dottorati che offre a molti ricercatori l’opportunità di approfondire la propria conoscenza della letteratura di riferimento, oltre che di interagire con studenti molto bravi e raccogliere idee per nuovi progetti. In altre parole, i due obiettivi, promozione della ricerca e miglioramento della qualità della didattica, non possono essere perseguiti specializzando due diverse componenti della faculty, la prima interamente nella ricerca e la seconda interamente nell’insegnamento.

Occorre perciò definire strutture premianti e politiche retributive multidimensionali, che guardino a entrambi agli obiettivi permettendo alla faculty di ottimizzare l’impiego del proprio tempo fra didattica e ricerca, senza mai scegliere soluzioni angolari. L’impegno profuso dalla Bocconi in questi anni per valorizzare l’attività di ricerca non ci sembra abbia corso il rischio di spiazzare completamente gli investimenti nella qualità della didattica. Non a caso l’introduzione delle indennità per la ricerca è andata di pari passo con l’introduzione di quelle per la didattica e vi sono stati molti casi di eccellenze riconosciute allo stesso membro della faculty su entrambi i versanti. Nel periodo 2008-18, il 20 per cento della faculty ha ottenuto un premio e il 30 per cento circa di questi ha ricevuto entrambi i riconoscimenti. Si potrà fare ancora meglio in questa direzione permettendo ai membri della faculty di insegnare il più possibile in aree affini ai propri interessi di ricerca; magari incoraggiandoli a preparare materiali didattici che possano essere condivisi con altri membri della faculty.

Si è semmai corso il rischio opposto, quello di spingere una parte della faculty a investire solo nell’insegnamento, a fronte di standard sempre più stringenti posti per la ricerca. Questo effetto ha un profilo generazionale molto marcato – e non solo per questioni legate alla transizione verso l’internalizzazione dell’università italiana. È, dunque, un rischio destinato a permanere nel corso del tempo. Potrà essere in futuro ridotto riconoscendo che esiste un ciclo di vita nella didattica e nell’attività di ricerca. Il tipo di complementarietà precedentemente delineato (fra insegnamento nei dottorati e ricerca di frontiera) vale probabilmente soprattutto nelle prime fasi della carriera accademica. Verso la fine della carriera è possibile, invece, valorizzare complementarietà di tipo longitudinale: chi ha lungamente investito in ricerca è in grado di tradurre in modo relativamente semplice concetti e apparati analitici complessi, rendendoli maggiormente accessibili agli studenti. Forse questi aspetti del ciclo di vita nella carriera accademica dovranno in futuro essere meglio compresi e valorizzati; non tanto modificando la struttura degli incentivi in base all’età, ma chiedendo ai dipartimenti di tenere maggiormente conto di questi aspetti nell’allocazione del carico didattico fra trienni, bienni e dottorati.


2

Il vantaggio dell’AIS è che copre 5 anni e che non è autoreferenziale perché, a differenza dell’impact factor (IF) sino a quel momento utilizzato, pesa le citazioni in base all’influenza delle riviste citanti (grazie all’algoritmo Eigenfactor).

3

Il processo fu particolarmente laborioso e richiedette la nomina di una commissione di giuristi esterni – Alan Schwartz (Chair), Giacinto della Cananea, Eilis Ferran, Michele Graziadei e Anup Malani) – allo scopo di identificare i giornali di caratura internazionale e di maggiore impatto.

4

La seconda università in questa graduatoria poteva contare sulla metà di «ricercatori eccellenti» in base ai parametri ANVUR.

Indice

Archivio