Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

Le origini di una research university


Parole chiave: IGIER

Lorenzo Peccati ha descritto con vivacità e precisione la trasformazione della Bocconi da teaching college con un’ottima reputazione internazionale in teaching and research university[1]; una transizione faticosa, ma non priva di grandi soddisfazioni, cui egli si dedicò, con determinazione e chiarezza di obiettivi, per oltre un decennio attraverso quattro rettorati. A queste pagine vorrei affidare qualche ricordo personale sulle origini di quel processo.

Lo spirito di una research university si avverte camminando nei suoi corridoi. In un teaching college si parla di sport e della scuola dei figli. In una research university la domanda più frequente è: «Che paper hai scritto settimana scorsa?». Nonostante la Bocconi degli anni Ottanta fosse sostanzialmente un teaching college, non era raro per i suoi laureati, almeno per quelli che decidevano di intraprendere un corso di dottorato, essere ammessi in università americane eccellenti e lì risultare fra gli studenti migliori. Luigi Zingales, futuro presidente dell’American Finance Association e professore all’Università di Chicago, si laurea in Bocconi nel 1987 e viene ammesso nel programma di dottorato in economia del MIT; sei anni prima si era laureato Alberto Alesina, che dalla Bocconi andò a Harvard dove divenne full professor e per diversi anni fu direttore del dipartimento di Economia, e così tanti altri.

È della fine degli anni Novanta un articolo del New York Times che, valutando i giovani PhD in Economia sulla base delle università in cui hanno trovato il loro primo lavoro, trovava che i migliori programmi di dottorato erano, non sorprendentemente, MIT, Harvard e Stanford. Se invece ci si chiede dove quegli stessi giovani si erano formati nei corsi undergraduate, certo, Princeton e Harvard erano i due programmi migliori, ma poco distante si collocavano Swarthmore, Williams College e la Bocconi.

Sebbene in Bocconi l’autoselezione abbia sempre contato – cioè il fatto che gli studenti bocconiani tendono a essere particolarmente motivati – è evidente che risultati così eccellenti non sarebbero stati possibili senza corsi e docenti altrettanto buoni. Tuttavia la research university rimaneva lontana.

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Reversing the European Brain Drain in Economics

Il problema della scarsa centralità della ricerca – già chiaramente messo in luce nel progetto Bocconi 2000 – fu individuato come una priorità durante il rettorato di Mario Monti con un documento del comitato ricerca dell’autunno 2000, intitolato Migliorare (in tempi brevi) la ricerca nella nostra università, in cui si evidenziava:

Negli anni recenti la nostra università ha compiuto passi significativi per migliorare la ricerca: separando più nettamente l’attività dei centri di ricerca dalla ricerca di base; modificando le procedure per l’assegnazione dei fondi di ricerca; introducendo premi per le migliori ricerche di base; avviando la valutazione della ricerca da parte di comitati esterni all’università. E, tuttavia, la cultura dell’eccellenza nella ricerca rimane pressoché sconosciuta in Bocconi. “Ricerca” è un termine che spesso applichiamo, in modo inappropriato, ad attività che in realtà sono più prossime alla consulenza. La vera “ricerca di base”, quella che si propone di allargare le conoscenze, rimane un’attività marginale.

The importance of excellent, curiosity-driven research cannot be over-emphasized. It is of vital importance to industry. Major innovations follow from breakthroughs made by curiosity-driven research. It is no accident that the universities that are famous for producing spin-off companies and for stimulating growth in their local economies, are also famous for the fundamental research they do. Exposure to excellent research is also a critical factor in educating students (UK Government, Science Policy for the 21st Century, July 2000).

Il motivo principale per cui la Bocconi è ancora lontana dall’eccellenza nella ricerca si può individuare abbastanza facilmente: non siamo ancora stati capaci di creare un “ambiente” nel quale l’eccellenza nella ricerca è un fattore importante nel determinare la reputazione delle persone che lavorano nell’Università, a ogni livello. Non si tratta evidentemente di un problema specifico della Bocconi: è una caratteristica di gran parte dell’università italiana e, più vicino a noi, della città in cui lavoriamo, che ha perduto un interesse per la ricerca che pure esisteva negli anni Sessanta (era l’autunno di vent’anni fa). Migliorare questa situazione, anche in tempi brevi, non è impossibile.

Il cambiamento in realtà era già stato avviato. Nell’inverno del 1989, Mario Monti, da poco nominato rettore della Bocconi, Richard Portes, presidente e fondatore del Center for Economic Policy Research (CEPR), e io, che allora insegnavo all’Università di Bologna, osservammo che vi era l’opportunità di portare in Bocconi alcuni giovani economisti europei che stavano riscuotendo un notevole successo negli Stati Uniti. Questo però richiedeva una massa critica, senza la quale non avrebbero accettato di lasciare le università prestigiose in cui insegnavano. Un primo passo in quella direzione era iniziato già da qualche anno, proprio grazie alla lungimiranza di Richard Portes che aveva creato, attraverso il CEPR, un network di economisti europei che riprendeva il modello dell’americano National Bureau of Economic Research (NBER). Discutemmo l’idea con Stanley Fischer, allora professore al MIT, e William Branson, direttore del programma di economia internazionale dell’NBER, e alla fine Bocconi, CEPR e NBER decisero di avviare un’iniziativa congiunta con sede in Bocconi. Il primo passo fu la richiesta di un finanziamento alla Commissione europea che fu concesso con un progetto intitolato «Reversing the European Brain Drain in Economics».

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Questa storia ha una premessa personale. Rientrato dagli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta, dopo incarichi di insegnamento a Padova e Venezia, avevo vinto una cattedra in Economia politica a Bologna nel dipartimento di Andreatta, Prodi, Zamagni e Basevi. Un giorno, nel 1989, mi trovai seduto accanto a Mario Monti, su un volo per Roma in occasione di una conferenza presso la Banca d’Italia. Durante il viaggio Monti mi chiese di considerare un trasferimento in Bocconi. La mia reazione fu cauta: sul piano della ricerca economica pensavo che quello di Bologna fosse allora un dipartimento migliore. Il colloquio si interruppe all’atterraggio e, una volta entrati in aeroporto, il mio compagno di viaggio mi disse che avrebbe preso il prossimo aereo per Milano: «In fondo l’unica ragione per venire a Roma era passare un’ora con te e cercare di convincerti!».

Seguirono lunghi colloqui in cui prese forma il progetto per la creazione di un istituto di ricerca in partnership con NBER e CEPR. Questo iniziò a funzionare nel settembre del 1991 con un primo gruppo di sei ricercatori rientrati dagli Stati Uniti. Non tutto fu facile e solo la determinazione di Mario Monti riuscì a vincere le perplessità dell’Università. Queste erano giustificate dall’esperienza dei centri di ricerca, istituzioni interne alla Bocconi ma che in taluni casi funzionavano in modo più simile a società di consulenza indipendenti e che da tempo la Bocconi stava cercando di riformare. Aggiungere un altro centro di ricerca, seppur con obiettivi affatto diversi, sembrava contraddire quel processo.

La nuova iniziativa comunque partì e fu dedicata alla memoria di Innocenzo Gasparini, in ricordo del rettore che per primo aveva spronato tanti suoi allievi ad andare a studiare negli Stati Uniti. L’Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research (IGIER) fu inizialmente collocato in un luogo bellissimo, ma lontano da via Sarfatti: l’abbazia di Mirasole. Lì rimase per alcuni anni, fino a quando venne spostato presso la sede dell’Università.

Con il passare del tempo il seme piantato all’abbazia di Mirasole trasformò prima l’istituto di economia politica e poi altre parti dell’Università. Oggi sono fellows dell’IGIER docenti di cinque diversi dipartimenti e la governance comune ha creato un solido rapporto fra Bocconi, CEPR e NBER, i due migliori network di ricercatori in economia al mondo.

In conclusione

Il processo di contaminazione ebbe un punto di rottura nel 2002, come ben racconta Lorenzo Peccati, e proprio nel momento in cui il comitato Borges stava stendendo il suo rapporto. Un conto era accogliere in Università docenti eccellenti, anche stranieri, ma in posizioni sostanzialmente di «visitatori» temporanei, diverso era assumerli come professori a tempo pieno, membri del consiglio di facoltà. Il processo di promozione e assunzione dei professori era infatti rimasto sostanzialmente invariato e lontano dai criteri che avevano informato la nascita dell’IGIER. In un documento sottoposto al consiglio in veste di prorettore con responsabilità per la ricerca e la faculty scrissi:

Alcuni colleghi già parlano di un nuovo aumento di organico: non ritengo affatto che essi pensino alla possibilità di reclutare professori davvero nuovi, né di colmare quei vuoti di competenza che non è stato possibile affrontare con il primo allargamento dell’organico; penso che essi siano soprattutto spinti dalla pressione di una popolazione interna le cui aspettative è sempre più difficile non soddisfare. Penso, per concludere, che in questo modo la nostra università verrà definitivamente affossata: certamente non farà concorrenza alle migliori università d’Europa.

Fu proprio una diversità di opinioni con la maggioranza dei membri del consiglio sui criteri di promozione dei docenti che mi indusse alle dimissioni. Esse innescarono – almeno questa è la mia personale interpretazione – un processo che ricorda un’osservazione di Albert Hirshman (1985) e che è ben illustrato, seppur in ambito diverso, da un articolo pubblicato nel 1993 sull’American Economic Review da Allan Drazen e Vittorio Grilli (laureato alla Bocconi, poi professore a Yale e ministro dell’Economia nel 2012-13) con il titolo «The benefit of crises for economic reforms»[2].

Quali lezioni trarre da questa esperienza? Cambiare la direzione di marcia di una grande istituzione richiede inserirvi un seme capace di dar vita al cambiamento. Questo fu il ruolo dell’IGIER. E poi, forse banalmente, per vincere una guerra bisogna saper perdere una battaglia. Nel 2002 sembrò che il processo di trasformazione iniziato dieci anni prima fosse stato sconfitto. Fu merito di Mario Monti, Carlo Secchi, rettore in quegli anni, e Lorenzo Peccati spiegare che la direzione di marcia intrapresa non era negoziabile.

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Nel loro modello le crisi hanno effetti benefici perché consentono di accelerare l’adozione di riforme. Per esempio, un periodo di alta inflazione che provoca costi economici elevati accelera la soluzione dei conflitti fra gruppi sociali che prima non consentivano il passaggio di alcune riforme. Invece, politiche che riducono il costo dell’inflazione, per esempio forme di indicizzazione dei prezzi, ritardano l’adozione delle riforme.

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