Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

Dagli edifici al campus


Parole chiave: Campus

1968/2018. 50 anni strategici

Nell’identità e nella storia dell’Università Bocconi hanno una funzione determinante la sua presenza fisica, la qualità di progetto e di vita dei suoi edifici, il rapporto che si instaura tra questi e il contesto urbano e civile. Quel contesto in cui è nata l’idea di un’università privata che sapesse cogliere le istanze, le necessità e le visioni future di una società in costante trasformazione come quella italiana e che, allo stesso tempo, a queste trasformazioni sapesse dare l’apporto scientifico di studi e ricerche fondati sui principi dell’economia etica, che è fattore stesso di democrazia e sviluppo. Come ha notato il critico d’architettura Deyan Sudjic[1]:

Il ruolo essenziale dell’architettura universitaria è [...] fornire la manifestazione fisica dell’identità di una particolare istituzione, permettendo a quest’ultima di funzionare in forma di comunità di studiosi e rendere tale comunità visibile.

Questo principio è già alla base del lavoro iniziato alla fine degli anni Trenta dall’architetto Giuseppe Pagano[2] e che porterà nei primi anni Quaranta al completamento della sede storica di via Sarfatti, riconosciuta come una delle opere più importanti e significative del Razionalismo italiano. Intorno a questo nucleo originario si sono sviluppati nei decenni successivi gli edifici che formano l’originale modello di campus urbano, come può essere oggi definito il complesso dell’Università Bocconi. Dalle residenze per studenti di Giovanni Muzio (1956) alla chiesa dedicata a San Ferdinando di Ferdinando Reggiori (1962), fino agli edifici per aula magna, biblioteca e alcuni istituti (1962) – ancora di Giovanni Muzio con il figlio Lorenzo – si tratta di opere che, nel rispetto della tradizione modernista iniziata da Giuseppe Pagano, adeguano costruzione e linguaggio architettonico alle esigenze di una comunità studentesca e docente in costante espansione ed evoluzione. È motivo di soddisfazione personale per chi scrive aver potuto nell’arco di molti anni – a partire dal 1978 – contribuire alla concretizzazione di alcuni progetti di questa storia, che le note seguenti si propongono di descrivere sinteticamente, attraverso il racconto delle sue fasi più importanti.

Vittore Ceretti, la SDA e il Piano 2000

Il Piano 2000, ispirato da Luigi Guatri, definisce chiaramente una delle linee guida della politica di espansione fisica dell’Università: lo sviluppo di nuovi edifici per nuove funzioni dovrà avvenire nel contesto urbano di Milano, vicino tanto alla sede originale quanto alle persone e alle istituzioni che nel centro storico milanese vivono e svolgono il loro ruolo sociale. Anche di fronte alle molte opportunità che si presentano nel corso degli anni per trasferire, o fondare, gli istituti e altre funzioni dell’Università in zone anche di importante interesse economico, la scelta che resta confermata è reperire nelle zone limitrofe a quella originaria aree che permettano una facile permeabilità tra le diverse funzioni. È così che le superfici degli edifici di nuova occupazione o costruzione, tra il 1968 e il 1988, passano da 46.524 a 64.879 mq, con un incremento di quasi il 50 per cento. Le aree degli interventi – da quelli più strettamente funzionali come uffici o rimesse a quelli più rappresentativi come gli spazi dell’insegnamento o le residenze per studenti – sono comunque raggiungibili a piedi in pochi minuti dalla sede storica. Si delinea così la concezione, fondamentale per il futuro sviluppo della didattica e della ricerca, di una struttura «microurbanistica» che, seppure distribuita in diversi edifici, crea il primo tessuto connettivo di quello che sarà poi il vero e proprio campus della Bocconi.

Gli anni Settanta sono molto importanti per l’affermazione del­l’Uni­ver­si­tà come istituzione didattica e di ricerca di livello europeo, ma non vedono la costruzione di particolari edifici. Si dovrà attendere l’inizio degli anni Ottanta quando, per la Scuola di Direzione Aziendale (SDA), rifondata nel 1971 e divenuta, sotto la guida di Claudio Demattè, uno dei punti di forza nei programmi di formazione avanzata della Bocconi, viene iniziata la costruzione della nuova sede su un’area tra viale Bligny e via Bocconi, a pochi metri dai primi edifici di Pagano, originalmente destinata – con uno studio degli anni Sessanta di Giovanni e Lorenzo Muzio – a ospitare l’ampliamento delle residenze per studenti. L’obiettivo è completare l’edificio per il 1985 e l’incarico di progetto viene affidato all’ingegner Vittore Ceretti, un professionista molto abile e stimato, che ha già una lunga esperienza nella costruzione di edifici residenziali e per uffici. Proveniente da una famiglia di industriali, assistente di Giovanni Muzio nell’Istituto di Edilizia del Politecnico di Milano, Ceretti porta nella sua progettazione architettonica la razionalità della prefabbricazione e la sua esperienza di lavoro con componenti industrializzate.

L’impostazione del progetto, coerentemente al brief che gli viene dall’Università, punta a un’estrema praticità che esprima lo spirito di una scuola di tipo nuovo, moderna nella concezione degli spazi ma più riservata nelle intenzioni rappresentative. Ceretti avrà infatti modo di dichiarare:

Dovevo esprimere una scuola per dirigenti aziendali. Non un’università, ma qualcosa di diverso rispetto alla Bocconi: c’è una Bocconi nata all’epoca di Pagano, che riflette l’università classica e c’è un’università nuova che esprime il nuovo modo di far scuola post-universitario. Quindi mi sono sentito libero[3].

Il volume principale della SDA, rivestito in pannelli di alluminio color argento, è caratterizzato dalla struttura a gradoni, da cui aggettano delle vasche per il verde, in cemento a sezione triangolare. Si accede all’edificio dal corpo lungo la via Bocconi, svuotato a formare un «portico»: sul corpo si alternano le fasce del rivestimento di pannelli metallici e le finestrature vetrate continue che svuotano l’angolo. A segnalare anche cromaticamente la novità dell’istituzione che qui ha sede, Ceretti sceglie il contrasto tra il grigio di fondo e i volumi semicilindrici delle scale, rivestiti da lastre in alluminio termo-laccato di colore giallo. Anche nella semplicità della soluzione formale e costruttiva, si riconosce un linguaggio architettonico vicino all’immaginario industriale caro al progettista e importante testimonianza del design di quegli anni. Sul cantiere Ceretti opera in modo preciso ed efficace, con il rispetto delle maestranze – che gli riconoscono senza esitazioni l’autorità dell’esperienza e della conoscenza della tecnica costruttiva in cemento armato, vetro e metallo che dimostrerà negli anni una sostanziale tenuta – e negli spazi interni, principalmente fatti di open space, darà a studenti e docenti la possibilità di studiare e vivere un ambiente molto moderno e allo stesso tempo confortevole. Ceretti dedicherà in seguito molte delle sue energie allo sviluppo delle attività di costruzione dell’Università Bocconi, fino a rappresentarne per diversi anni l’anima progettuale, sul piano sia tecnico sia inventivo.

L’area Bligny/Roentgen e il «velodromo» di Ignazio Gardella

Negli anni successivi, sotto il forte impulso all’internazionalizzazione dell’Università, fortemente sostenuta dal rettore Monti, aumentano le esigenze di spazi per la didattica, così che vengono acquisite aree e alcuni edifici pre-esistenti nei dintorni. Nel 1989 viene realizzata (ancora su progetto di Ceretti) la sopraelevazione di un piano su uno degli edifici realizzati da Pagano (che risulta aver previsto la possibilità per l’edificio di salire in altezza grazie a una struttura portante adeguatamente calcolata) e il recupero delle aree interrate e seminterrate di via Sarfatti, dove trovano posto alcuni spazi destinati a soggiorno e studio.

Ma il vero nuovo progetto di maggiore complessità è quello per la costruzione di un nuovo complesso, destinato principalmente ad aule: in un’area posta tra il nucleo originale e la sede della SDA, in parte proprietà pubblica e in parte privata, si prevede un edificio di quattro piani, di circa 4000 mq per piano, e un secondo edificio destinato a uffici, istituti, centri di ricerca e una nuova aula magna, prospiciente via Roentgen.

Del progetto, nel 1991, viene incaricato un architetto di autorevolezza e fama internazionale, Ignazio Gardella. Questi concepisce l’edificio principale con una pianta ellissoidale, che richiama anche la funzione di snodo verso le altre unità cui è destinato a integrarsi. Il secondo edificio, parallelepipedo con una pianta a E – che richiama in parte le geometrie di Pagano – non verrà poi realizzato; ma l’area a esso destinata verrà in seguito utilizzata per un nuovo complesso progettato dallo studio Grafton Architects. Gardella è affiancato nel progetto dal figlio Jacopo, come in molti edifici degli ultimi anni della sua carriera (era nato infatti nel 1905)[4] e da due giovani architetti, Fabio Nonis e Marco Zanibelli.

Le fasi di bonifica dei terreni – storicamente occupati dalle officine del gas per l’illuminazione pubblica di Milano – richiedono un tempo lungo, così che le opere di costruzione vera e propria iniziano nel 1998. Direttore dei lavori è ancora l’ingegner Ceretti, che pure si trova a lavorare su un progetto piuttosto complesso. Gardella ha previsto per le aule – 30 distribuite sui tre piani soprastanti una grande hall internamente perimetrata da pilastri, intonacati di bianco e coronati da una copertura vetrata – una struttura con grandi luci, fino a 17,5 metri, per ottenere la massima utilizzazione degli spazi interni e poter accostare in successione le aule senza introdurre pilastri intermedi. Attorno al perimetro delle aule – nelle parti curve dell’ellissoide – sono disposte a corona le scale di sicurezza, racchiuse in volumi cilindrici di cemento intonacato bianco. L’imponente volume così formato è segnato da lesene a tutta altezza che incorniciano, con un passo modulare costante, gli elementi di facciata formati dai serramenti e da pannelli metallici in alluminio verniciato color bianco, con un motivo geometrico a rilievo. Le lesene e le facciate lungo le parti lineari sono realizzate in cotto. Per migliorare le condizioni ambientali, tutte le aule sono dotate di climatizzatore, con un impianto centralizzato di riscaldamento/condizionamento dell’edificio consistente in un sistema a pompa di calore, che utilizza l’acqua di prima falda per lo scambio termico. Questo sistema permette un elevato risparmio energetico e contribuisce al miglioramento della qualità dell’aria.

Come si può capire, l’edificio è sicuramente rappresentativo del­l’idea di università nuova e aperta che la Bocconi intende concretizzare; ma con la sua complessità è anche una sfida per la realizzazione a regola d’arte. Tanto che la tempistica – l’edificio dev’essere completato e perfettamente funzionante per l’inizio dell’a.a. 2001/02 – impone una certa velocità nella realizzazione. A questa urgenza si aggiunge la scomparsa di Ignazio Gardella, nel 1999, in piena fase di cantiere; ed è solo grazie alla formazione di un team di lavoro ben coordinato, con il costante supporto dell’allora consigliere delegato Giovanni Pavese che, anche la mancanza del progettista principale, viene compensata.

I lavori proseguono con la collaborazione degli architetti Fabio Nonis e Marco Zanibelli, allievi e collaboratori di Gardella fin dall’inizio del progetto: una particolare attenzione dev’essere data al completamento delle non semplici facciate, che impone di controllarne costantemente l’esecuzione. L’edificio viene comunque inaugurato in tempo per l’inizio delle lezioni nel settembre 2001 e rimane ancora oggi un punto di riferimento importante, non solo per la sua funzionalità, ma anche come landmark, un elemento iconico nel campus Bocconi: tanto familiare da essere ormai conosciuto con il soprannome di «velodromo», per la sua forma ellissoidale.

La Nuova Bocconi: Grafton Architects

Quasi contemporaneamente all’inaugurazione dell’edificio di Gardella viene bandito il concorso per una nuova struttura tra viale Bligny e via Roentgen, che dovrà contenere le attività degli istituti scientifici e di ricerca con 883 uffici, un’aula magna da 1000 posti, un grande foyer per eventi e mostre, spazi per convegni, per un totale di circa 68.000 mq.

È il punto di arrivo del Piano 2000, con cui le aree destinate alle attività dell’Università arriveranno a un totale di oltre 250.000 mq. Per la scelta dei progettisti viene usata la formula del concorso a inviti: il gruppo comprende tre italiani e sette stranieri, scelti tra architetti che si esprimono nel loro lavoro con un linguaggio innovativo. L’area interessata dall’intervento ha una presenza e una visibilità molto superiori a quella degli altri edifici del campus Bocconi. Viene formata una giuria di alto livello internazionale che comprende, tra gli altri, lo storico Kenneth Frampton come presidente, i progettisti Angelo Mangiarotti e Guido Nardi, l’editore Giovanna Mazzocchi Bordone, oltre a Carlo Secchi e Giovanni Pavese, allora rispettivamente rettore e consigliere delegato dell’Università. Dopo un’intensa discussione, il 27 gennaio 2002 la Giuria nomina, all’unanimità, vincitore il progetto dello studio Grafton Architects, che Yvonne Farrell e Shelley McNamara hanno fondato a Dublino e dirigono dal 1978.

La particolarità del sito e l’importanza dell’occasione trovano nelle progettiste due interpreti eccezionali. Farrell e McNamara dedicano un approfondito studio alla specificità della città di Milano e della sua architettura, che le porta a immaginare per Bocconi un complesso edilizio che rappresenta sia una notevole performance tecnica, sia l’idea «microurbanistica» di un nuovo pezzo di città. Per questo analizzano a fondo la natura specifica di alcuni edifici storici milanesi e ne derivano una tipologia originale di luogo allo stesso tempo chiuso e aperto; attenendosi strettamente al programma funzionale del nuovo intervento e contemporaneamente creando per esso un’immagine del tutto originale, così da non farne soltanto un altro edificio per uffici.

L’esperienza di questa collaborazione sarà esemplare sotto tutti i punti di vista, da quello tecnico a quello dei rapporti professionali, che le due progettiste intrattengono con grande competenza, calore e umanità. L’intesa che si viene così a creare tra noi è determinante per la migliore riuscita della realizzazione. Si tratta infatti di un’originale concezione costruttiva, basata sull’uso di una particolare tecnica del cemento armato, che risolve la necessità di grandi luci (fino a 24 metri) per gli spazi di lavoro e di studio.

Per alleggerire le strutture, viene adottato un particolare sistema di post-tensione di travi e solai. Il più originale elemento costruttivo sono le cosiddette travi-parete, che sostengono in copertura le travi principali, alle quali sono appesi tutti i solai. Si tratta di vere e proprie pareti in cemento armato, forate in corrispondenza del passaggio dei volumi rettangolari degli uffici. Sopra di esse vengono realizzate le travi principali, in calcestruzzo post-teso, su cui sono ancorati i tiranti in acciaio di sostegno dei solai dei piani sottostanti, regolabili per ottenere successivamente la tensione necessaria al funzionamento statico dell’intera struttura. In pratica, la costruzione assomiglia a quella di un ponte, una struttura a cui vengono poi «appesi» piani e volumi[5].

Alla complessità – e per alcuni aspetti novità – di queste soluzioni costruttive, si aggiungono le particolari esigenze di protezione delle fondazioni. A Milano e in quest’area, dove un tempo scorrevano le rogge, corsi d’acqua caratteristici del territorio milanese e lombardo, per una serie di fattori climatici e di uso del territorio, l’acqua di falda è arrivata a soli 10 metri dal livello stradale. Per proteggere le fondazioni e gli ambienti sotterranei del complesso (che arrivano fino a 18 metri sotto il livello stradale) è stato quindi necessario realizzare una «cassa» sotterranea di cemento armato, con un’altezza della parete fino a 25 metri e un tamponamento di fondo (jet grouting) alto ben 5 metri e pareti dello spessore di 80 centimetri. Come scrive l’ingegner Emilio Pereira, autore e responsabile della progettazione e l’esecuzione delle opere strutturali:

L’intero complesso poggia su una fondazione del tipo diretto a platea continua, dello spessore variabile tra 2 e 3 m. Tutto il volume compreso tra il piano di posa delle fondazioni e il secondo piano delle fondazioni si trova “immerso” in acqua. L’altezza del battente della falda si trova dai 6 ai 7 metri sopra la quota di posa delle fondazioni. Per l’impermeabilizzazione, anche in previsione di un possibile aumento della falda, è stata realizzata una “vasca” a tenuta stagna dalle acque presenti nel terreno. A sostegno e protezione dell’impermeabilizzazione verticale, si trova una controparete in calcestruzzo dello spessore di 20 cm[6].

Si tratta dunque non solo di uno dei cantieri più grandi e complessi nella storia degli edifici Bocconi, che ha richiesto l’impiego di centinaia di operai nell’arco di tre anni di lavori, ma anche di uno dei più tecnicamente avanzati per l’epoca, che meglio rappresenta, anche simbolicamente, la missione di innovazione dell’Università[7].

Non è esagerato infine affermare che il complesso di via Roentgen abbia anche una notevole fortuna critica: oltre alla rivista Domus, che ne segue le vicende progettuali e costruttive fin dall’inizio, con diversi articoli curati dall’allora vicedirettore Stefano Casciani[8], manifestano il loro apprezzamento fino all’ammirazione, autori come Francesco Cellini, preside della facoltà di Architettura Roma Tre. In un suo testo del 2009, dopo aver elogiato la funzionalità dell’edificio, riconosce come questi si sia anche ben inserito nel contesto:

[...] di fronte all’edificio finito, usabile, aperto, la percezione pubblica è mutata. Ci si è infine accorti che esso è permeabile, agevole, ragionevole, funzionale e poetico, che la città lo accoglie, che esso la accoglie e che davvero apre una “finestra su Milano”. Ci si è accorti insomma che si tratta di un progetto profondamente razionalista, animato da un insieme di invenzioni costruttive e compositive straordinariamente produttive, proprio per la loro intrinseca nitidezza e semplicità[9].

Cellini giunge infine alla conclusione che un tale successo è dovuto alla sapienza progettuale di Shelley McNamara e Yvonne Farrell:

Definita come abbiamo visto la strategia costruttiva e spaziale dell’insieme dell’edificio, alle autrici è bastato [...] dotare la sala di un sistema di prese di luce, per fargli calzare sopra, come dita negli ipogea di accesso, rendendola visibile dall’unica importante smagliatura del sistema edilizio generale; ed è per me assolutamente stupefacente che in tal modo siano riuscite a raggiungere (così semplicemente) un tale livello di congruenza e coerenza fra parti tanto diverse per funzione e forma[10].

Espansione e sostenibilità: il nuovo campus Bocconi 2020

Dopo il potenziamento del supporto alla didattica e alla ricerca con il completamento del complesso di Grafton Architects su via Roentgen, l’Università prosegue nel piano strategico per le infrastrutture 2010/2020, puntando sui valori dell’innovazione tecnologica, della sostenibilità e dell’inserimento degli interventi nel tessuto fisico e sociale della città. Si tratta probabilmente di una delle più grandi operazioni di rigenerazione del territorio urbano milanese e sicuramente della più grande in zone centrali, come quella prospicente la sede originale dell’architetto Pagano: la zona che si estende dalla storica Porta Ludovica fino a viale Tibaldi, con la grande area dell’ex Centrale del latte a lungo inutilizzata ma che l’Università rileva a dicembre 2006 dal Comune. I metri quadri del patrimonio immobiliare dell’Università passeranno infatti dai 251.013 del 2008 ai 328.034 del 2020, quando sarà completato il nuovo campus Bocconi 2020, progettato dagli architetti Sejima e Nishizawa (studio SANAA).

Con la dismissione della storica Centrale del latte di Milano si è venuta infatti a liberare una vasta area di 35.756 mq, in una zona di importanza strategica per l’equilibrio ambientale e urbanistico milanese, collocata all’intersezione tra alcuni dei progetti che il PGT (Piano Generale del Territorio) prevede per restituire all’uso pubblico e al riequilibrio ambientale una vasta parte della città. Si tratta di recuperare ampie parti del territorio urbano preesistente, con destinazione in origine prevalentemente industriale (come già accaduto per il complesso Grafton) che presentano criticità sotto il piano ecologico e dell’equilibrio tra pre-esistenze e nuove costruzioni, dove non solo le operazioni di bonifica hanno un’importanza fondamentale ma sul quale, anche da un punto di vista simbolico, per scelta strategica dell’Università, si vuole intervenire con l’obiettivo della massima qualità ambientale, in termini di sostenibilità, efficienza energetica e qualità di vita degli abitanti.

Questa strategia di sostenibilità può essere applicata «per punti» – nel caso di interventi di sostegno come le nuove residenze per studenti – o secondo un grande piano integrato come nel nuovo campus; ma in ogni caso è considerata conditio sine qua non per la realizzazione dei nuovi interventi.

Esempi significativi di interventi puntiformi sono i nuovi dorms realizzati tra il 2010 e il 2016, a partire da quello progettato dall’architetto Dante Bonuccelli[11] e realizzato in via Vittore Buzzi. L’area di questo intervento è quella dell’ex OM, una grande fabbrica di autoveicoli, poi specializzatasi in autocarri e chiusa negli anni Ottanta del secolo scorso: dalla fine del decennio successivo l’area, poco distante dal campus Bocconi, si sviluppa secondo un PRU (Piano di Recupero Urbano) che prevede un grande parco ma anche residenze, un centro commerciale ed edifici per uffici. Qui l’Istituto Javotte Bocconi – Associazione Amici della Bocconi acquisisce il diritto di superficie per la costruzione di uno studentato da 326 posti letto. Bonuccelli (con Morgan Orlandi) immagina lo studentato come un insieme di quattro corpi lineari di sei piani – collegati da ponti vetrati – accostati a formare una grande piazza centrale, per l’incontro e il ritrovo degli studenti. Tra le soluzioni per ottenere il massimo di comfort e sostenibilità ambientale, i prospetti esterni sono tutti rivestiti da aste in legno di cedro canadese (supportate da una struttura in acciaio zincato) che fanno sia da schermo della luce solare sia da filtro visivo tra gli interni abitati dagli studenti e l’esterno. Si ottiene così un miglior controllo dell’irraggiamento solare e si diminuisce l’impiego di energia per il condizionamento degli edifici. L’uso di materiali e finiture sostenibili, che potrebbero comportare costi maggiori, è ottimizzato dall’attenzione al contenimento dei costi (circa 1000 €/mq, arredi interni inclusi), anche con particolari soluzioni costruttive per le strutture, come i solai interpiano in lastre prefabbricate. Bonuccelli si conferma così progettista attento ai dettagli del costruito, senza perdere di vista la qualità anche estetica dell’insieme: per questo torneremo ad avvalerci della sua collaborazione in successivi interventi, come il nuovo ingresso e la nuova sala di lettura (2014) della biblioteca progettata da Muzio. L’accesso sottolinea anche il collegamento tra il corpo dell’edificio e la chiesa di San Ferdinando, costruita su disegno dell’architetto Reggiori, contribuendo a ridare omogeneità all’identità contemporanea dell’Università.

Mentre si avvia il processo di recupero delle aree dell’ex Centrale del latte, la Bocconi realizza altri due interventi per residenze studentesche: quello progettato dallo studio Costa/Zanibelli su viale Isonzo e quello a opera di Fabio Nonis (StudioNonis) su viale Bligny. Il primo si trova sulla cosiddetta Cerchia delle Regioni (linea filoviaria 90/91), che prosegue con viale Tibaldi, dove all’incrocio con via Castelbarco si trova l’area della ex Centrale del latte di Milano. Situata su questa direttrice di intenso traffico affiancata da edifici d’abitazione – da fine Ottocento a tutto il Novecento – l’area del nuovo studentato comprende due numeri civici: il 21, dove è possibile una nuova costruzione, e il 23 dove è richiesto solo un risanamento conservativo dell’edificio. Se per l’edificio da recuperare i vincoli limitano le possibilità di invenzione distributiva, il corpo di fabbrica al civico 23 viene pensato come vera e propria torre urbana, così da dare un chiaro segnale di rinnovamento dell’area. Nella torre di 12 piani (10 a funzione prevalentemente residenziale) il progetto ottimizza il rapporto tra le superfici minime richieste e le possibilità di aggregazione date da una tipologia ad appartamenti[12].

L’ultimo dei nuovi studentati previsto dal piano per le infrastrutture viene completato nel 2016 su disegno di Fabio Nonis che, come Marco Zanibelli, ha collaborato con Gardella nel progetto e nella realizzazione del «velodromo». In questo caso l’intervento è proprio sul fronte stradale di viale Bligny, a poca distanza dal landmark di Grafton Architects. Anche qui si tratta di un importante intervento di risanamento e rigenerazione urbana: per decenni occupata da un edificio industriale abbandonato, l’area è immediatamente confinante con il campus Bocconi, con una profondità abbastanza limitata, ma sufficiente a creare spazio per lo studentato e una «corte» aperta verso il campus. In questa viene creato un piccolo giardino di sculture e realizzato un padiglione basso, rivestito da brise-soleil in legno, per ospitare la libreria Egea, spostata dalla precedente sede – opera dell’architetto Mauro Galantino – nell’edificio della SDA.

L’impatto maggiore da un punto di vista architettonico e di inserimento urbanistico dell’intervento è certamente quello del fronte su viale Bligny, dove lo studentato si allinea tra due edifici preesistenti di scarso valore architettonico[13]. L’utilizzo del colore rosso per tutti i corpi di fabbrica amplifica il segnale dell’accesso all’Università: allo stesso tempo, la forte presenza dello studentato così determinata ricuce in qualche modo la continuità dell’area, e offre una nuova prospettiva contemporanea dello storico viale Bligny, verso la Nuova Bocconi di Grafton Architects.

Il nuovo campus Bocconi di Sejima e Nishizawa

Fin dai primi studi per un master plan dell’area ex Centrale del latte – affidati agli architetti di Progetto CMR – l’Università riconosce l’opportunità di realizzare una grande estensione del campus, che possa arricchire le attività di formazione e i servizi agli studenti e ai docenti e insieme consentire al pubblico di riappropriarsi dell’area come parte integrante di un nuovo sistema del verde. Anche nella fase di studio per il concorso, si tratta di creare un brief che porti non solo a poter scegliere tra le proposte più interessanti sotto il profilo formale e funzionale, ma di condurre a un vero e proprio progetto di riqualificazione urbana per determinare il nuovo assetto della zona, prefigurando l’impatto del nuovo campus sull’area e sul quartiere.

L’obiettivo, perseguito con decisione dalla dirigenza Bocconi, con il consigliere delegato Bruno Pavesi, è fare del futuro campus un polo che riunisca le attività culturali e formative dell’Università con quelle sportive e di svago che mirano al benessere del cittadino. Si avvia così un esperimento d’integrazione tra necessità dell’individuo e obiettivi di progresso sociale, che raccoglie nella stessa area gli edifici per la nuova SDA School of Management, una residenza per studenti e visiting professor da 300 posti letto, un centro fitness, due palestre, una piscina olimpica da 50 metri e una piscina da 25 metri, un parco pubblico di circa 15.000 mq e altri 4000 mq di verde all’interno delle costruzioni.

È un’occasione che viene affrontata con determinazione, definendo progressivamente un brief molto complesso (ai progettisti invitati verrà fornito un documento di 64 pagine) per il grande concorso internazionale per assegnare il progetto. La sfida è ricca di temi progettuali e articolata su diversi fronti tecnici e scientifici.

Da una parte l’obiettivo è sviluppare le strategie ambientali già iniziate con il complesso su via Roentgen, così da ottenere negli edifici l’autosufficienza energetica e i valori di emissioni zero[14], secondo una visione integrale della sostenibilità che mira a ridurre o annullare ogni impatto ambientale ed emissione nociva alla salute delle persone e all’equilibrio naturale.

Dall’altra parte vi è la grande questione urbanistica di come creare ex novo un complesso di costruzioni e di verde in un’area relativamente concentrata, un pezzo di città dove riprodurre l’ideale di un’architettura civile che riabilita il contesto ed è quindi al servizio di tutta la comunità. I progettisti invitati al concorso vengono individuati tra gli architetti che più si sono fatti riconoscere per la loro capacità di unire esperienza nelle costruzioni, innovazione formale e visione urbana. Si tratta degli italiani Cino Zucchi, Massimiliano Fuksas, Mario Cucinella, dell’inglese David Chipperfield, dell’olandese Rem Koolhaas (OMA), dello studio anglo-tedesco Sauerbruch Hutton, della francese Odile Decq (ODBC), dell’italo-iberica Benedetta Tagliabue (EMBT), dell’americano Thom Mayne (Morphosis) e dei giapponesi Kazuyo Sejima, Ryue Nishizawa (SANAA): in pratica una selezione dei più importanti studi internazionali di architettura.

Bandito il concorso nel 2011, gli elaborati[15] vengono presentati e discussi dai progettisti nel 2012 davanti a una prestigiosa giuria internazionale. Presieduta da Sir Peter Cook, ha tra i partecipanti le Grafton Architects Shelley Mc Namara e Yvonne Farrell, il direttore del Design Museum di Londra Deyan Sudjic, la direttrice del Pritzker Prize Martha Thorne, il vicedirettore uscente della rivista Domus Stefano Casciani, il docente del Politecnico di Milano Federico Oliva, insieme all’allora rettore Guido Tabellini e al consigliere delegato Bruno Pavesi in rappresentanza dell’Università. La discussione della giuria è molto approfondita perché dai progetti emerge il variegato panorama dell’immaginazione architettonica contemporanea: dalla spettacolarità nel progetto di Koolhaas/OMA alla forte impronta sostenibile di Cucinella/MCArchitects, dall’omaggio alla tendenza postmoderna italiana di Thom Mayne/Morphosis alla monumentalità moderna di David Chipperfield.

La giuria sottolinea quindi nelle sue considerazioni finali «la grande qualità comune a tutti i progetti presentati, che ha reso certamente non facile il suo compito»[16].

Progetto vincitore è giudicato all’unanimità – il giorno 7 luglio 2012 – quello di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (SANAA), con una ben circostanziata motivazione:

Il progetto dello studio SANAA rappresenta, tra tutti quelli presentati, la migliore interpretazione delle diverse e complesse esigenze prefigurate nel bando di concorso, introducendo allo stesso tempo interessanti variabili compositive, formali e concettuali, destinate a fare dell’intervento un nuovo modello di landmark: un segnale urbano che con la sua identità decisamente innovativa, data dall’impiego di soluzioni costruttive tanto essenziali quanto affascinanti, entra in dialogo con gli insediamenti già esistenti, sia quelli del complesso Bocconi che quelli delle residenze storiche dell’area. In particolare, la giuria rileva la capacità dello Studio SANAA nel ridefinire il concetto di campus come elemento integrante del tessuto urbano, con un insieme di edifici unitario, organico, non invasivo e contemporaneamente aperto – fisicamente e visivamente – al contesto. Questa caratteristica di apertura del progetto [...] assume particolare significato nella necessaria valorizzazione dell’intervento, destinato a essere il più importante insediamento del prossimo decennio tra il tessuto storico dell’urbanizzazione novecentesca e quello generato dal recente, frammentario sviluppo della zona di Milano posta oltre il limite Sud dell’area di concorso. Il nuovo campus ideato da SANAA viene così a costituire un segnale insieme forte e delicato dell’intenzione manifestamente espressa dall’Università Bocconi nel voler definire la sua identità [...] come motore di uno sviluppo sostenibile del territorio urbano, identità già progressivamente acquisita con gli altri recenti interventi realizzati nelle aree circostanti. La futura opera costruita, che già nel progetto di concorso bene affronta tutte le questioni della sostenibilità individuate dall’Università Bocconi, si propone in questo senso come patrimonio comune per Milano: sia perché concretamente usufruibile – in parte – da tutta la cittadinanza, sia perché rappresenta l’idea dell’Università stessa come “fabbrica del sapere”, da cui l’intera comunità può avvantaggiarsi come simbolo e come concreta realtà. In questo senso la giuria raccomanda, nelle successive fasi della progettazione e nella realizzazione del nuovo campus, la massima attenzione a rendere le aree a verde il più possibile permeabili all’uso pubblico, che pure già trova soddisfazione nel progetto con le interessanti soluzioni individuate per il complesso sportivo[17].

La raffinata interpretazione del brief Bocconi, l’integrazione tra ambiente naturale e costruito, tra verde e costruito ha effettivamente nel progetto di SANAA uno dei suoi fondamentali punti di forza. Gli edifici del nuovo campus si sviluppano su un’altezza massima di 4 piani (esclusa la torre dei dorms per studenti e visiting professor che raggiunge i 16 piani, poi ridotti a 10 ma rimanendo un segnale importante per l’area), hanno profondità ridotte e si sviluppano con andamento curvilineo «ad anello chiuso», così da far apparire il campus come un giardino incastonato di case-fiori preziose e accoglienti. La metafora della natura ritorna in tutto il progetto e in particolare nei materiali di rivestimento e finitura, che sottolineano la trasparenza come qualità simbolica e reale dell’architettura. Per facilitare il condizionamento naturale degli ambienti, le grandi superfici vetrate curve sono protette da una mesh metallica, la speciale rete appositamente messa a punto per il nuovo campus Bocconi, che di giorno filtra la luce solare e alla sera lascia intravedere le luci artificiali e l’intensa attività che ancora si svolge all’interno degli edifici e allo stesso tempo contiene il consumo energetico. Anche nel contesto edilizio variegato ed eclettico dell’area – dalle basse villette lungo via Castelbarco agli alti edifici d’abitazione anteguerra su via Sarfatti – la leggerezza e insieme la forza unitaria delle case-fiori di SANAA risaltano come «ricucitura» della grande ferita che per tanti anni è rimasta aperta nel tessuto urbano dell’area, almeno da quando la Centrale del latte è stata smantellata.

Particolare importanza in questo lavoro di riqualificazione sostenibile dell’area è stata data nel definire il nuovo campus Bocconi come sistema articolato di spazi dedicati a verde urbano e di quartiere. Il campus risulta infatti compreso fra due parchi urbani, il parco Baravalle e il parco Ravizza, a loro volta collocati su un ideale asse trasversale ambientale e paesaggistico, che include la nuova Darsena e il Naviglio, e a est il parco di Porta Romana, di prossima realizzazione all’interno del programma di recupero degli ex scali ferroviari. Anche in direzione nord-sud, il campus rappresenta un importante tassello della rete ecologica e ambientale, sull’asse che va dalla città storica a nord (il Parco delle Basiliche San Lorenzo e Santo Stefano) fino, a sud, al parco della Vettabbia e a quello delle memorie industriali ex OM. Il progetto paesaggistico sviluppato da SANAA ha quindi inteso fin dall’inizio valorizzare il nuovo campus come luogo d’incontro tra attività universitaria e vita cittadina, rendendolo permeabile e interamente percorribile per via pedonale, attraverso le vaste aree a verde aperto al pubblico. Nell’importante lavoro di affinamento del progetto di concorso, sono state anche soddisfatte le richieste venute dall’amministrazione comunale, con l’aumento delle dotazioni di aree a parco, in linea con quanto stabilito dal nuovo PGT della città. Le superfici a verde fanno anche da segnalazione degli edifici in cui si svolgono le funzioni e le attività didattiche e scientifiche, con un buffer di verde a prato, arbusti e alberature isolate, che le scherma e al contempo le indica agli utenti. Rispetto al progetto originale è stato rivisto il sistema degli accessi, eliminando l’ingresso da ovest su via Castelbarco, perché meno funzionale rispetto ai flussi attuali e potenziali, ma confermando gli altri tre ingressi pubblici: da nord (via Sarfatti e campus Bocconi pre-esistente), da sud (viale Toscana) e da ovest (verso il Parco Ravizza).

Naturalmente questa importante reinvenzione paesaggistica dal­l’area è funzionale anche a creare un dialogo tra il verde pubblico e gli edifici del campus. Questi «parlano» un originale linguaggio architettonico che esprime grande leggerezza e trasparenza. I corpi sono tutti progettati con una conformazione ad anello, così che da un lato il loro perimetro esterno si affaccia verso la città e il parco, mentre verso l’interno le corti formano un ambiente anch’esso naturale e trattato a verde. Camminando lungo i corridoi degli edifici sarà così possibile volgere lo sguardo sia sul lato esterno che su quello interno, in un’ideale continuità tra lo spazio della città storica e quello della corte. Come pure chi cammina lungo le vie che circondano il campus, oppure attraversando lo stesso parco, potrà intravedere la successione delle diverse «quinte scenografiche»: edifici, corte e poi ancora edifici e parco. Il progetto è impostato su corpi di fabbrica ridotti, che garantiscono agli interni l’esposizione alla luce e offrono ampie aperture sulle corti del parco. Si ottimizza così anche la ventilazione naturale e si riduce significativamente l’impiego di illuminazione e aerazione artificiale. I diversi nuclei sono in alcuni punti tangenti tra loro, così da creare agevoli passaggi tra gli edifici. Una volta all’interno, sarà possibile intravedere l’intero complesso architettonico: gli edifici che si ergono su portici permeabili, la poetica sequenza di leggere colonne portanti, stanze trasparenti, alberi e prati.

Oltre a questa elegante ricucitura del territorio urbano con edifici di grande qualità formale, la risoluzione dell’urgenza ambientale è l’altro grande obiettivo che l’Università ha raggiunto con il completamento del nuovo campus attraverso l’autosufficienza energetica, l’abbattimento a zero delle emissioni nocive, un sistema integrato di condizionamento misto naturale/artificiale, la scrupolosa riduzione della grey energy (quella che si nasconde nei processi di produzione e trasporto di materiali attraverso distanze eccessive) e un water management attento al recupero della falda della zona.

Su questa linea, il progetto mirava anche al recupero del paesaggio milanese caratterizzato dalle vie d’acqua, con la riapertura parziale del canale Vettabbia che ancora oggi scorre sotto via Castelbarco e che sarebbe tornato a lambire il campus proprio nel fronte sulla stessa via. Purtroppo lungaggini burocratiche e una sostanziale incomprensione delle amministrazioni pubbliche verso questo gentile omaggio al paesaggio milanese alla fine non hanno reso possibile la creazione di questa piccola «via d’acqua».

D’altra parte va detto che, da parte dell’Università, vi è stata tutta la disponibilità a riorientare il progetto di Sejima e Nishizawa sia secondo i suggerimenti dati a suo tempo dalla giuria (a margine del giudizio ampiamente positivo sul progetto) sia per ovviare alle preoccupazioni espresse dal Comune riguardo all’utilizzo pubblico dell’area e della sua accessibilità. Così – oltre al segnale più visibile come il già citato abbassamento della torre dei dorms – sono state ristudiate le distanze tra gli edifici e quelle dal perimetro dell’area, e tutto il sistema di attraversamento dell’area da parte della popolazione residente, non solo di quella studentesca. Anche con queste giuste variazioni al progetto originale, la complessità e la bellezza del cantiere prima e degli edifici che sono nati in seguito, il grande impegno con cui la Bocconi, le imprese costruttrici e le maestranze si sono dedicate al suo completamento sono una conferma della bontà delle idee di partenza dell’Università, che i progettisti hanno saputo così bene interpretare.

Al successo del progetto contribuisce la natura innovativa di molte delle soluzioni costruttive e impiantistiche adottate. Tra le prime, risalta l’uso per tutte le facciate della citata mesh, che è stata ingegnerizzata e prodotta ad hoc, anche che per seguire le complesse curve e controcurve degli edifici. Altrettanto importante, dal punto di vista impiantistico, è l’adozione di soluzioni per il microclima interno degli edifici. Questi sono condizionati più confortevolmente e con il massimo risparmio energetico con un sistema di pompe di calore e anello di collegamento tra essi e gli edifici di via Sarfatti e via Gobbi, e dalla realizzazione di una nuova centrale a pompe di calore con prelievo di acqua dal pozzo già a suo tempo utilizzato della Centrale del latte. A questo si aggiunge un determinante impiego di energia rinnovabile per la produzione di elettricità, con l’installazione sulle coperture di pannelli fotovoltaici di ultima generazione. Tutto il complesso di edifici del nuovo campus ha dunque la certificazione LEED.

Last but not least, fondamentale per il successo di questa operazione di progettazione e riprogettazione dell’intero campus è stata la collaborazione con gli architetti Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, con cui si è mantenuto un rapporto ravvicinato, anche con ricorrenti visite al loro studio di Tokyo: vera fucina di idee e visioni progettuali, confrontate sempre però rigorosamente con le esigenze dell’Università Bocconi e della città di Milano.


1

D. Sudjic, «Costruire la didattica. Movimento moderno e campus universitario», in S. Casciani (a cura di), Un cuore di cristallo per Milano. La nuova Università Bocconi, Milano, Editoriale Domus, 2008, p. 73.

2

Vedi S. Casciani, «Progetto e destino. Giuseppe Pagano e l’Università Bocconi», in Un cuore di cristallo per Milano. La nuova Università Bocconi, op. cit., pp. 33-54. Vedi anche Aldo Castellano, M.A. Romani (a cura di), Architetture Bocconiane, Milano, Università Bocconi Editore, 2016.

3

Maurizio Vitta, «La SDA della Bocconi», L’Arca, n. 13, 1988, p. 59.

4

Eppure negli incontri preliminari al progetto per la comunicazione del brief, abbiamo trovato sempre attento ascolto in lui, che a 86 anni conservava l’energia e la maestria che lo ha portato a realizzare edifici importanti fino all’ultimo: dal Teatro Carlo Felice di Genova (1984) alla Stazione Ferroviaria di Milano Lambrate (1995).

5

Per la realizzazione delle strutture è stato utilizzato calcestruzzo ad alte prestazioni (SCC, Self Compacting Concrete), nelle travi-parete e nei relativi setti d’appoggio, nelle travi della copertura e nel solaio di copertura dell’aula magna. La qualità del prodotto impiegato è stata ottenuta con la definizione di una miscela realizzata appositamente per il tipo di strutture gettate, sia in fase di betonaggio sia in cantiere.

6

Emilio Pereira, «Il progetto delle strutture», in Un cuore di cristallo per Milano. La nuova Università Bocconi, op. cit., p. 135.

7

Il premio Building of the Year che nel 2008 viene assegnato dal World Architecture Festival alla Nuova Bocconi e il Leone d’Argento con cui la Biennale di Architettura di Venezia premia Grafton Architects nel 2012 sono solo due delle tante conferme dell’importanza dell’intervento nel paesaggio dell’architettura contemporanea. Dalla loro inaugurazione, gli edifici tra viale Bligny e via Roentgen sono visitati da numerosi architetti e progettisti che ne ammirano la qualità estetica e la perfezione tecnica.

8

Vedi S. Casciani, «Ultimo monumento a Milano/Last monument for Milan. Progetto Grafton Architects. Nuova Università Bocconi», Domus, n. 909, dicembre, 2007, pp. 22-33.

9

Francesco Cellini, «Sull’ampliamento dell’Università Bocconi», in Vincenzo Pavan (a cura di), Litico etico estetico, Milano, Motta Editore, 2009, p. 78.

10

Ivi, p. 79.

11

Bonuccelli, incaricato del progetto, aveva già lavorato con Grafton Architects, occupandosi principalmente della definizione degli interni e sviluppando per queste soluzioni di prodotto ad hoc.

12

La distribuzione verticale avviene mediante due nuclei distinti e contrapposti. A ogni piano residenziale, un pianerottolo di sbarco distribuisce gli appartamenti composti, da un lato, da zona ingresso, soggiorno con ampia loggia, angolo cottura e, dall’altro, la zona notte composta da 4 camere singole disimpegnate da un corridoio. Le logge su più piani e con amplissima vetratura caratterizzano la torre come un edificio rigorosamente funzionalista. Per soddisfare le esigenze crescenti di spazi per i nuovi studenti Bocconi, i tempi di progettazione ed esecuzione sono velocizzati, grazie anche all’esperienza e capacità dell’architetto Zanibelli, che ha a sua volta alle spalle una lunga collaborazione con lo studio Gardella.

13

Nonis concepisce due corpi laterali che stabiliscono un rapporto con i volumi adiacenti e segnano l’attacco a terra dell’edificio, e un corpo centrale che si stacca da terra e sporge rispetto al filo edilizio per segnare l’ingresso al campus.

14

Come nelle regole delle certificazioni LEED, Leadership in Energy and Environmental Design.

15

Gli elaborati vengono prima sottoposti, nel giugno 2012, alle valutazioni di una commissione tecnica istituita dall’Università (formata tra gli altri da S. Casciani, D. Di Martino, M. Ferrario, M. Nastri, R. Panichi, E. Pereira), espresse in base a una lunga serie di criteri: tra i principali, il controllo dell’elaborazione ambientale, della progettazione sostenibile dei sistemi di involucro, dell’impiantistica, delle procedure per la certificazione LEED. Le valutazioni della commissione vengono poi fornite ai giurati insieme alle relazioni dei progettisti concorrenti.

16

Vedi «Concorso internazionale nuovo campus Bocconi area ex Centrale del Latte di Milano. Motivazioni della giuria internazionale per la designazione del progetto vincitore», 9 luglio 2012, ora in Stefano Casciani, «Da Pagano al campus che verrà», in Architetture bocconiane, op. cit., p. 217.

17

Motivazioni della Giuria Internazionale per la designazione del progetto vincitore, op. cit.

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