Parole chiave: Rettore Monti Mario, Milano
Storia della Bocconi
1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione
Cade il muro di Berlino, l’Europa accelera, la Bocconi ha una nuova missione
Quando ripenso al momento in cui divenni rettore della Bocconi, il 1° novembre 1989, una cosa mi colpisce soprattutto: l’imprevedibilità. L’imprevedibilità dei grandi eventi della Storia così come delle modeste vicende umane[1].
In sé, la mia nomina non giunse inattesa, dato che il rettore uscente Luigi Guatri, molto influente, anche perché al tempo stesso consigliere delegato, aveva annunciato il suo orientamento in tal senso qualche giorno prima. Ma del tutto imprevedibile, almeno per me, era il fatto che quella nomina – annuale, ancorché rinnovabile – avrebbe cambiato per sempre, non per qualche anno, il mio modo di lavorare per la nostra Università.
Cessavo di essere un economista molto impegnato nella didattica, nella ricerca e nella formazione di nuovi economisti, come ero stato per vent’anni. Diventavo parte della leadership della Bocconi, una mutazione che si sarebbe rivelata senza ritorno. Fui rettore per cinque anni e poi, per un lungo periodo, presidente. Perdevo alcune componenti della mia professionalità nelle quali avevo molto investito. Sentivo questo come un’amputazione.
Mi ero laureato alla Bocconi nel 1965 con Ferdinando di Fenizio, che aveva acceso in me la passione per l’Economia. Ero diventato assistente di Innocenzo Gasparini, che sarebbe stato rettore intraprendente e innovativo dal 1975 al 1984. Egli era mentore di una nuova generazione di economisti, che incoraggiava a perfezionarsi all’estero e che al rientro accoglieva nel suo Istituto, divenuto centro di fecondi dibattiti.
In quegli anni, in quel clima culturale, l’impegno che più mi stimolava era quello di far nascere, a mia volta, il gusto della ricerca economica e della politica economica nelle menti degli studenti migliori, di guidarli nella tesi di laurea, di orientarli negli studi all’estero. Tra i numerosi miei allievi entrati nella ristretta cerchia degli economisti più autorevoli in ambito internazionale, citerò Alberto Alesina, prematuramente scomparso, Guido Tabellini e Nouriel Roubini. Non menziono Francesco Giavazzi in quanto laureato al Politecnico di Milano, ma ricordo la sua acquisizione alla Bocconi – con la simultanea istituzione dell’Innocenzo Gasparini Institute for Economic Resarch (IGIER)[2], coinvolgendo il National Bureau of Economic Research e il Centre for Economic Policy Research – come una delle operazioni più laboriose, ma anche più proficue, da me compiute.
Mi dispiaceva dover dismettere almeno in parte i panni dell’economista per diventare rettore, carica di cui avvertivo tutta l’importanza ma che non posso dire mi attraesse. Per assolvere a essa, d’altra parte, avrei dovuto sviluppare rapidamente altre attitudini che non avevo: capacità in senso lato di «governo», in particolare. In retrospettiva devo riconoscere che quelle capacità – forgiatesi un po’ per volta alla Bocconi in un ambiente non semplice ma tendenzialmente improntato alla lealtà e a un forte senso di appartenenza (anche se, va detto, con altrettanto forti e ben distinti sensi di appartenenza alle rispettive aree disciplinari) – mi sarebbero poi state di grande aiuto quando, lasciata l’alma mater in due occasioni, mi sarei dovuto cimentare nel governo di realtà più complesse e conflittuali, in Italia e in Europa.
Un’Europa che – ecco l’altra imprevedibilità, quella grande, della Storia – proprio in quei giorni era protagonista di eventi che avrebbero profondamente trasformato il nostro continente, nonché l’intero quadro geo-politico mondiale. Il 9 novembre 1989 cadde il muro di Berlino. Senza che allora potessimo esserne ben consapevoli, anche la Bocconi – come l’Italia, l’Europa e il mondo intero – entrava in una fase nuova, che avrebbe in poco tempo radicalmente cambiato il contesto politico, culturale ed economico entro il quale il nostro Ateneo si era sviluppato dal secondo dopoguerra.
La riunificazione della Germania, l’accelerazione del progetto europeo, la formazione del mercato unico, in vista di una moneta unica, il cammino verso la UE dei Paesi al di là della «cortina di ferro» ormai dissoltasi, la disintegrazione dell’Unione Sovietica, l’Italia non più Paese di confine tra blocco sovietico e sistema euro-atlantico, i processi di liberalizzazione commerciale e finanziaria, la prospettiva di una più accesa competizione economica su scala globale, in un contesto di innovazione tecnologica in probabile accelerazione: tutto ciò avrebbe presto richiesto nuovi schemi interpretativi, diverse e più rapide capacità di decisione, l’attitudine a elaborare scenari a lungo termine, ma flessibili e rivedibili, nuovi modelli di relazioni sociali e industriali, modifiche profonde nelle strutture istituzionali e nei sistemi politici.
Come la scuola e come le altre università, la Bocconi era chiamata a una grande trasformazione. Ci rendemmo conto ben presto che i nostri studi, il nostro lavoro di docenti, il nostro modo di partecipare alla vita culturale e pubblica del Paese, sarebbero stati da riconsiderare, da adattare a una realtà in così rapida evoluzione.
L’università, della quale mi erano appena state affidate le redini accademiche, doveva proporsi una nuova missione. La missione di dare un contributo più incisivo, per tanti aspetti innovativo, perché l’Italia avvertisse la necessità di prendere parte da protagonista alla costruzione di un’Europa nuova; e fosse in grado di farlo, con una classe dirigente adeguatamente formata e un’opinione pubblica capace di vedere la posta in gioco, di prendere le misure di una nuova realtà, più vasta, più promettente, ma più dura.
Per me, rettore di fresca nomina – e, a 46 anni, il più giovane che la nostra istituzione avesse mai avuto – il compito era arduo. Ma la Bocconi ha nel suo sistema di governance[3] principi e disposizioni che permettono di adattare lo stile di governo alle esigenze dei tempi e alle diverse personalità chiamate nella squadra che guida l’Università. In tale leadership team, il rettore ha il compito più delicato: deve assicurare la leadership culturale e accademica, guidare l’impegno del corpo docente, far sì che l’Università sia capace di attrarre i migliori professori e gli studenti con il più alto potenziale, innalzare la sua reputazione in Italia e nel mondo.
Ma il rettore non è solo, al vertice della Bocconi. A differenza di ciò che si riscontra tipicamente nelle università statali, il vertice è composto da tre figure: accanto a lui operano il presidente e il consigliere delegato. Se il consigliere delegato e il rettore lavorano in buona armonia – ed è uno dei compiti del presidente facilitare tale armonia, garantendo coerenza e unità di indirizzo tra chi incarna l’anima culturale, scientifica e didattica dell’Università e chi sovraintende al suo funzionamento efficiente e alla gestione delle risorse – quest’ultimo può dedicarsi alla sua fondamentale missione con maggiore serenità e minore affanno.
A tale riguardo, non avrei potuto essere più fortunato. In Giovanni Spadolini, presidente della Bocconi, uomo di profonda cultura umanistica, politico sui generis – che fu tra l’altro direttore del Corriere della Sera, senatore a vita, presidente del Consiglio, presidente del Senato – tutti noi avevamo un riferimento sicuro, sapendolo garante dell’indipendenza della nostra Università. Molto saldo era il suo rapporto di stima reciproca con una personalità assai diversa e complementare a lui, Luigi Guatri, consigliere delegato, artefice del risanamento finanziario della Bocconi dopo anni difficili, nonché rettore dal 1984 al 1989.
Prendendo io la sua successione, potevo contare sulla grande esperienza dell’uomo-chiave della Bocconi, che dopo la scomparsa di Innocenzo Gasparini doveva avere identificato in me la persona adatta ad assumerne il ruolo come interlocutore privilegiato dello stesso Guatri, in grado di rappresentare la visione degli economisti e delle altre sensibilità culturali della Bocconi diverse dagli economisti aziendali.
Come membro junior della squadra di governo potevo dunque fare affidamento, in caso di necessità, su due interlocutori autorevoli, il presidente Spadolini e il consigliere delegato Guatri oltre che, voglio sottolinearlo, sulla valida collaborazione dei colleghi docenti e dello staff tecnico e amministrativo. Inoltre, se lo scenario in cui la Bocconi si trovava a operare era destinato a una rapida trasformazione per le ragioni storiche sopra tratteggiate, nel guardare avanti potevamo avvalerci dello strumento metodologico della pianificazione strategica, che proprio Luigi Guatri, come rettore, aveva introdotto per la prima volta in un’università italiana e che, da allora, sarebbe divenuto strumento chiave per orientare le scelte di lungo periodo dell’Università commerciale.
Il tempo eccezionale in cui il mio rettorato si svolse fin dall’inizio è testimoniato dal primo evento importante al quale partecipai come rettore, con l’emozione che il lettore potrà immaginare. Come ho ricordato, il 9 novembre 1989 era caduto il muro di Berlino. Il 1° dicembre il presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbachov, nella sosta a Milano durante il viaggio che lo portava a Roma per lo storico incontro con Papa Giovanni Paolo II, volle intrattenersi, al Castello Sforzesco, con una delegazione di imprenditori italiani, che gli interessavano per accrescere gli investimenti esteri nell’URSS, e con un gruppo di docenti della Bocconi, in riconoscimento dell’apporto dato dalla nostra Scuola di Direzione Aziendale alla formazione di dirigenti per l’economia sovietica riformata, attraverso la creazione a Leningrado, nel luglio 1989, in partnership con la locale università, di una business school: il Leningrad International Management Institute (LIMI).
Costruire la Bocconi del futuro: il Piano di sviluppo 1990-2000
Il mio lavoro è iniziato, nel solco del mio predecessore, seguendo due direttrici sintoniche tracciate dal Piano 1990/2000: programmare la Bocconi del futuro, migliorare la Bocconi del presente. Elaborato a fine anni Ottanta, necessitava di essere definito nella sua articolazione operativa: 14 gruppi di lavoro composti da docenti e studenti, coordinati dal Comitato di programmazione e supportati dalle strutture amministrative, avevano delineato un programma di espansione dell’offerta finalizzato a consentire alla Bocconi di soddisfare in misura maggiore la domanda di formazione universitaria e post-universitaria. Tale espansione non si limitava a un innalzamento del numero delle ammissioni ai corsi di laurea allora esistenti (Economia aziendale, Economia politica, Discipline economiche e sociali) e alla revisione di questi stessi corsi, ma implicava la progettazione, immaginando le esigenze di un futuro anche piuttosto lontano, di corsi di laurea nuovi.
Una comune linea evolutiva avrebbe dovuto caratterizzare i nuovi programmi didattici e di ricerca: il fatto di ispirarsi a una prospettiva sempre più interdisciplinare e collegare sempre più profondamente gli studi economici, cuore della tradizione bocconiana, ad altre aree del sapere quali le scienze politiche, la giurisprudenza, le scienze statistiche e informatiche e l’ingegneria o, più in generale, la tecnologia. A qualche decennio di distanza posso affermare che in buona parte questa visione è stata realizzata, seppur talvolta con tempi più lunghi di quanto ipotizzato originariamente. Nel corso del mio rettorato – dal 1990/91 al 1994/95 – sono stati lanciati i corsi di laurea in Economia delle istituzioni e dei mercati finanziari, Economia e legislazione per l’impresa, che avrebbe fatto da matrice alla futura School of Law[4], ed Economia delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni internazionali, raddoppiando l’offerta prima concentrata su CLEA, CLEP e DES.
Accarezzammo anche l’idea di un’iniziativa didattica congiunta con il Politecnico di Milano. Vedevamo i meriti e l’originalità dell’integrazione tra due eccellenze milanesi, una statale e una privata, ciascuna leader nazionale nelle proprie aree disciplinari; aree che l’evoluzione tecnologica e gestionale avrebbe reso sempre più complementari. Si raggiunse uno stadio avanzato di progettazione, ma purtroppo non il consenso finale. In particolare, ricordo opinioni divergenti all’interno del Politecnico, tra i docenti di formazione principalmente tecnologica – favorevoli a impegnarsi con la Bocconi, così come il rettore Emilio Massa – e i docenti dell’area di ingegneria gestionale, più propensi a svilupparla ulteriormente all’interno del Politecnico che a ricercarne le sinergie con le discipline di management consolidate da tempo alla Bocconi, in particolare nella sua Scuola di Direzione Aziendale.
Le risorse. Il Piano 1990/2000 era stato corredato da una scrupolosa quantificazione delle risorse necessarie alla sua attuazione in termini di personale docente e non docente, spazi e attrezzature, mezzi finanziari.
La sua «tempestiva realizzazione» – queste sono le parole utilizzate nella relazione del 1990 – non dipendeva tuttavia solo dalle risorse che, seppur significative date le ambizioni, rientravano nel dominio pressoché esclusivo della Bocconi. Bisognava infatti tener conto di variabili in larga parte fuori dal nostro controllo: le autorizzazioni comunali necessarie per l’ampliamento del campus conservandone l’unitarietà fisica – e quelle richieste al ministero dell’Università in relazione alle modifiche necessarie per dare attuazione alla nuova offerta formativa: «allo Stato non chiediamo maggiori risorse ma l’autorizzazione a innovare». Questi temi sarebbero stati ricorrenti nel corso di tutto il mio rettorato.
Anche stimolato dal nostro presidente Spadolini, il ministro dell’Università Antonio Ruberti prese atto con interesse delle nostre riforme, in particolare per quanto riguarda i corsi di laurea e si adoperò per accelerare le necessarie autorizzazioni ministeriali. Diede così un contributo di innovazione che sarebbe andato ben al di là delle esigenze della Bocconi dato che, nel giro di pochi anni, diverse altre università avrebbero, a loro volta, introdotto nuovi corsi di laurea tra quelli autorizzati su richiesta originaria della Bocconi.
Ma in quei primi anni Novanta si verificarono altri accadimenti che, pur non dipendendo da noi, ebbero un impatto non trascurabile sul sistema universitario milanese: da Mani pulite – che ebbe il suo epicentro nella nostra città e che determinò contraccolpi pesanti nella vita istituzionale, economica e civile di Milano – alla crisi economica internazionale. Le implicazioni erano evidenti: faticava il placement, le imprese contraevano i budget destinati alla formazione manageriale, le famiglie stentavano a sostenere i costi dell’istruzione universitaria, i governi riducevano gli stanziamenti per gli atenei e la ricerca.
Sebbene questo quadro inducesse a una cauta «fase di riflessione», durante la quale metabolizzare le molte innovazioni introdotte negli anni precedenti, decidemmo di andare avanti con convinzione, rispettando – e in qualche caso anticipando – i tempi previsti dal Piano; anche come segnale di fiducia e contributo concreto alla capacità di ripresa di Milano e dell’Italia.
Gli effetti del Piano. Ripercorrendo i miei cinque anni di rettorato, riconosco, a ritroso, gli elementi che hanno caratterizzato il lavoro della squadra che mi ha affiancato: la tensione quotidiana di pensiero e progettualità, il coraggio necessario per affrontare scelte e avviare sperimentazioni, l’umiltà di confrontarci, all’interno e all’esterno, e di rimetterci in discussione, in funzione di tre chiari obiettivi: una Bocconi per la società e per il paese; una Bocconi per tutti; una Bocconi per il futuro.
Una Bocconi per la società e il paese. La vocazione di civil servant viene da lontano, connaturata alla sua nascita e alla volontà dei fondatori ma, in contesti diversi e particolari, come quello dei primi anni Novanta, doveva tradursi in capacità di lettura flessibile dei problemi e delle esigenze collettive, mettendo a disposizione le proprie competenze e i propri privilegi (sostanzialmente l’autonomia da ogni potere politico ed economico) per migliorare e migliorare gli altri.
In questa logica rientrano gli importanti investimenti di risorse intellettuali e finanziarie per mettere a punto un articolato progetto educativo e formativo, funzionale alla trasmissione di quei valori, culturali e non ideologici, che permettono il pieno esplicarsi di un'economia sociale di mercato e la crescita di un sistema pubblico e amministrativo più rigoroso, più efficiente, più europeo. Formare la classe dirigente esige la trasmissione di conoscenze ma anche di valori, e i valori etici devono avere un riconoscimento esplicito.
Il nuovo progetto educativo e formativo prevedeva, da un lato, la revisione e l’arricchimento dell’offerta esistente e, dall’altro, il miglioramento della qualità della didattica e della ricerca: due obiettivi resi espliciti nella formulazione di un organico «Progetto qualità», esteso anche alle strutture amministrative e operative dell’Ateneo, progetto applicato con determinazione .
Per quanto riguarda la didattica, vennero introdotti tre tipi di interventi interagenti tra di loro: la valutazione della didattica dei singoli docenti, formulata dagli studenti su nostra richiesta; programmi specifici per lo sviluppo delle capacità didattiche dei docenti, anche utilizzando le indicazioni emerse dalla valutazione e, infine, iniziative specifiche proprio per gli studenti finalizzate a migliorarne le modalità di apprendimento e la capacità di vivere in modo più completo la propria esperienza universitaria. A capofila di questo progetto venne posto il CESDIA (Centro per lo sviluppo delle capacità didattiche e di apprendimento), il primo di questo genere in università italiane: un modo coraggioso di aprirsi all’autocritica in una logica di miglioramento continuo
Con la didattica si è evoluta anche la ricerca che, sia a livello individuale che di gruppo, era tradizionalmente svolta in Dipartimenti, Istituti e Centri di ricerca, dediti principalmente alla ricerca applicata. Per incrementarne l’incisività, ci si mosse in due direzioni: la prima, volta al superamento della frammentarietà del modo di operare dei singoli e dei centri; la seconda orientata a dare maggior impulso alla ricerca di base, con l’attivazione di una linea di finanziamento dedicata a questo scopo.
Didattica e ricerca, dunque, per la formazione di una classe dirigente competente e consapevole, al servizio del Paese e con un forte senso di appartenenza al corpo sociale, quello piccolo dell’impresa e quello grande dello Stato: una scelta precisa e conclamata alla quale abbiamo dedicato, e dedichiamo, energia e attenzione, con iniziative mirate a coinvolgere l’opinione pubblica. Tra queste, il ciclo di seminari sul tema «Etica e vita economica», organizzato congiuntamente dai dipartimenti di Economia aziendale ed Economia politica; il convegno internazionale coordinato da SDA ed European Business Ethics Network sul tema «Business ethics and company size»; il ciclo di riflessioni su «Le responsabilità politiche della classe dirigente dell’economia» nonché gli incontri sul tema «Essere Europa», accogliendo l’invito del Presidente Scalfaro, presente alla ricorrenza dei 90 anni della Bocconi, sulla necessità di compiere i passi necessari a «presentare l’Italia all’Europa con la dovuta dignità e serietà». Iniziative che hanno coinvolto alcuni fra i più importanti protagonisti del processo decisionale italiano ed europeo registrando un'ampia partecipazione di pubblico.
Una Bocconi per tutti. La Bocconi aveva sofferto per molto tempo l’immagine di «università dei ricchi», riservata alle classi più abbienti e soprattutto milanesi. Il graduale cambio di percezione venne agevolato dalla scelta del consigliere delegato Luigi Guatri di introdurre fasce di contribuzione legate al reddito familiare, con un messaggio forte e chiaro: la nostra è un'università per chiunque abbia capacità, potenzialità e volontà, indipendentemente dalle condizioni della famiglia di origine.
È cambiato, come conseguenza, anche il modo di rapportarsi ai potenziali studenti e alle loro famiglie: il primo passo è stata la messa a punto di un sistema informativo che consentisse ai ragazzi di capire di cosa si occupassero gli studi di economia e quali fossero gli sbocchi professionali e lavorativi possibili; che indicasse cosa ci si aspettava da loro; che chiarisse gli aspetti organizzativi ed economici della vita in Bocconi e le opportunità di cui avvalersi.
Nasceva così l’Orientamento, come struttura organizzativa dedicata a rispondere a queste domande. Svolta in campus, ma anche presso le scuole superiori di molte città italiane, tale attività coinvolgeva docenti delle varie aree disciplinari e funzionari amministrativi per le technicalities delle domande di iscrizione, accettate non solo nella sede di Milano ma anche in altre città, e si rivolgeva non solo ai potenziali studenti, ma anche ai genitori, e soprattutto alle loro preoccupazioni per gli aspetti economici. Specifiche iniziative erano inoltre riservate ai docenti delle scuole superiori, con seminari sulle aree disciplinari di studio, sulle possibilità post-laurea ma, soprattutto, sul modo di supportare i ragazzi nelle loro scelte .
In parallelo vennero avviati rapporti con scuole superiori di altri Paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito) e si affrontò la specificità della forte richiesta di iscrizione da parte di studenti dell’Europa dell’Est.
L’effetto combinato del numero programmato e della domanda crescente da parte di studenti prospective ha reso in quegli anni particolarmente urgente la necessità di migliorare i servizi agli studenti e le strutture del campus, ampliandole e rendendole più efficienti, accessibili e accoglienti.
- Strutture del campus: aumento dei posti studio; significativo miglioramento del servizio nella biblioteca, con l’avvio di un «progetto pilota» mirato alla sua progressiva automazione; ristrutturazione degli insegnamenti linguistici, recependo la riforma della facoltà di Economia, con la messa a disposizione di nuovi strumenti didattici nel laboratorio linguistico e organizzando corsi per la preparazione ai principali test linguistici internazionali.
- Rapporti con gli studenti e sostegno al loro percorso universitario: corsi sulle metodologie di studio, assistenza psicologica, tutoraggio per superare le difficoltà delle diverse discipline o dell’ambiente, coinvolgimento pieno nella vita dell’Università con sostegno alle organizzazioni studentesche e ampliamento dei loro spazi di partecipazione agli organismi decisionali dell’ateneo. Per la prima volta viene infatti previsto anche l’intervento degli studenti nel Consiglio di facoltà oltre a quello, già operante, di presenza nel Consiglio di amministrazione. In questa nuova filosofia di rapporti si inserisce il programma di valutazione della didattica, intrapreso inizialmente in via sperimentale e graduale, poi sistematizzato. Un'innovazione importante, accettata non senza difficoltà dal corpo docente, che ha consentito, per la prima volta in Italia, di dar voce agli studenti in modo positivo e costruttivo.
- Supporti economici e logistici: oltre a confermare l’entità delle tasse e dei contributi studenteschi commisurata al reddito delle famiglie, viene avviato un progetto «Borse Bocconi» rivolto a studenti in possesso di particolari requisiti di reddito e di merito, finanziato in parte dall’Università e in parte da aziende, enti e privati delle varie regioni italiane. A questo si è affiancato il lento (è sempre un problema di autorizzazioni!) ma continuo ampliamento delle residenze per i fuori sede e, tramite l’ISU, le facilitazioni su libri di studio, iniziative culturali in e off campus.
- Spinta a guardare il mondo: già nel 1990 la Bocconi era un’università per molti aspetti internazionale, al punto da guardare all’internazionalità come «il modo normale di essere, non come un obiettivo straordinario». Sappiamo che su questo fronte in realtà molta strada andava ancora percorsa e il salto culturale richiesto era quasi di tipo quantico. In ogni caso, oltre al già citato Leningrad International Management Institute, all’avvio del CEMS e del MIEM, in quegli anni si ampliavano la rete PIM, il numero di scuole partner e, di conseguenza, degli scambi complessivi e dei visiting professor.
- Avvio al mondo del lavoro: il messaggio è, fin dall’inizio, che non si aspetta la laurea, ma si inizia presto a incrociare competenze, attitudini e aspirazioni grazie a un'apposita struttura creata in questi anni per l’organizzazione di stage e internship, periodi di sperimentazione e apprendimento presso le aziende. Struttura in seguito affiancata dal POL (Programma Orientamento Laureati) e dal placement per creare il contatto laureato-azienda, con testimonianze dirette on campus di aziende e professionisti. Mentre il mondo dei laureati, allora raccolto sotto il cappello ALUB (Associazione Laureati Università Bocconi), mantiene vivo il rapporto fra l’Università e le diverse generazioni di laureate/i mettendo a disposizione esperienze, competenze e relazioni.
Sono questi gli elementi che confermano la Bocconi come università per tutti, senza barriere di tipo sociale, economico, geografico o culturale.
Una Bocconi del futuro. L’attuazione del piano 1990/2000 è stato un momento di grande impegno ed entusiasmo, caratterizzato dal forte senso di responsabilità sui compiti che ci erano stati affidati (e per noi intendo la squadra che mi ha affiancato nei cinque anni di rettorato), e di consapevolezza di doverci misurare con una realtà in cambiamento: ogni decisione per l’attuazione del piano ci poneva di fronte a quesiti nuovi e complessi che, da diverse angolazioni, si proiettavano oltre la dimensione temporale del piano stesso, al quale stavamo lavorando, e sollecitavano risposte.
In primo luogo, il tema del posizionamento, con la domanda base: che tipo di università vuole essere la Bocconi nei prossimi decenni? Non esisteva allora, e non esiste oggi, un modello unico di università a cui fare riferimento, così come risulta anche dai diversi progetti di riforma alternatisi nel tempo. Da qui il confronto tra research e teaching university; l’interrogativo circa l’opportunità di focalizzazione sui corsi di base (trienni), intermedi (bienni) oppure elevati (PhD); l’investimento, culturale ed economico, su una dimensione regionale (intesa come nazionale ed europea) o internazionale; la tentazione dell’università di massa, per accogliere la crescente richiesta di iscrizioni, o l’opzione università di élite, per premiare la qualità e i talenti valorizzati proprio dalla selezione.
Ciascuna di queste vocazioni non escludeva automaticamente le altre e, proprio per questo, ci sentivamo in dovere di analizzare vantaggi e svantaggi di ciascuna ipotesi, compresa la sua coerenza con il nostro mandato istituzionale, consapevoli che non fosse necessario, né utile, farne crescere più di una contemporaneamente, se non a condizioni tutte da esplorare.
E poi la grande questione della ricerca: decidendo un maggiore sostegno a quella di base, non potevamo non chiederci quali ne fossero i costi, se avesse effetti economicamente valutabili e se esistesse una metodologia per valutarli. E quanto pesassero questi aspetti rispetto al valore sociale dei suoi risultati.
L’offerta didattica e lo spostamento sulla ricerca di base a loro volta non potevano non tenere conto degli sviluppi del sistema economico e del loro impatto sul mercato del lavoro, al quale sapevamo di poter offrire laureati di qualità e, in prospettiva, in numero crescente. E infine la domanda delle domande: quali i percorsi di formazione scelti dalle diverse classi sociali? Quale mercato del lavoro per le qualifiche universitarie più elevate (Phd, dottorato…)?
Anche i modelli internazionali di riferimento hanno rappresentato occasione di riflessione approfondita, soprattutto per quanto riguarda le differenze fra Stati Uniti ed Europa continentale, e posto il quesito su una possibile globalizzazione del sistema universitario, con la tendenza a uniformarsi al modello americano, e la conseguente esigenza di una specifica valutazione della concorrenza nei diversi segmenti di mercato.
Queste riflessioni hanno accompagnato il lavoro di tutto il quinquennio del mio rettorato, garantendo un retroterra solido di conoscenza e concretezza a ogni passo compiuto.
Sono state prese decisioni importanti, abbiamo fatto scelte che ne hanno ispirate altre e posto le premesse per ulteriori sviluppi: sul posizionamento, i contenuti, il mercato, il target, gli interlocutori.
Ai rettori che mi hanno seguito ritengo di aver lasciato un'università diversa da quella che avevo ricevuto, ma in linea e in attuazione delle indicazioni ricevute al momento della mia nomina, pronta a crescere e a svilupparsi ancora secondo l’antica missione di «portare armonia tra la scuola e la vita». Una Bocconi indipendente, libera e pluralista, sempre più proiettata in una dimensione europea e internazionale, ma ferma e orgogliosa del suo ruolo di civil servant.
↑ 1
Ringrazio vivamente Marzio A. Romani, Mirka Giacoletto Papas e in particolare Silvia Colombo per l’aiuto che mi hanno dato con competenza e grande pazienza.
↑ 2
Per la bella storia delle origini dell’IGIER, vedi, «Le origini di una research university», p. 432.
↑ 3
Sul tema vedi, «La governance della Bocconi dalla fondazione a oggi», p. 763.
↑ 4
Vedi, «Una school of Law per la Bocconi», p. 473.
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Dalla contestazione al crollo del muro di Berlino
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Verso il 2000 e oltre
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Verso la teaching and research university
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SDA, la formazione post-esperienza
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Un universo complesso e sempre in divenire