Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

La nascita e lo sviluppo della Scuola


Parole chiave: Dematté Claudio, Master

Il contesto

La nascita e lo sviluppo della Scuola di Direzione Aziendale si inscrivono nello straordinario processo di cambiamento intrapreso dalla Bocconi a partire dal 1967, quando il consiglio di amministrazione dell’Università, allora presieduto da Furio Cicogna, nominò come rettore la persona più idonea per gestire un periodo di straordinaria amministrazione, Giordano Dell’Amore.

Il tema che si poneva all’ordine del giorno del nuovo rettore era quello del rinnovamento dell’Università. Le sollecitazioni a innovare riguardavano anzitutto la laurea in Economia e commercio, di cui la Bocconi era stata l’artefice agli inizi del Novecento. Il piano di studi richiedeva un ripensamento radicale per fare posto a nuovi insegnamenti e indirizzi di specializzazione. Particolarmente vistoso era il vuoto, fra le materie economico-aziendali, degli insegnamenti necessari per delineare degli indirizzi di specializzazione in finanza, marketing, produzione, organizzazione, amministrazione e controllo. Il piano di studi della Bocconi, infatti, risentiva di un retaggio culturale, comune a tutte le facoltà di Economia d’Italia, che privilegiava gli insegnamenti settoriali e trascurava quelli funzionali, che invece negli Stati Uniti avevano avuto sviluppi notevoli all’interno delle business school e che già si erano diffusi in Inghilterra, Francia e altri Paesi d’Europa.

La mancanza di attenzione per le discipline manageriali aveva tagliato fuori le università italiane, e con esse la Bocconi, dagli sviluppi del settore della formazione manageriale, nel quale invece il mondo delle imprese si era mosso autonomamente dando vita a diverse iniziative, in nessuna delle quali vi era stato un coinvolgimento della Bocconi, a riprova del fatto che non era riconosciuta dalla business community nazionale come un interlocutore per la formazione manageriale.

L’Ateneo milanese, per altro, non era rimasto del tutto assente dalla formazione di dirigenti di azienda. Nel 1954 infatti – per iniziativa dell’Istituto di Economia Aziendale che allora raggruppava tutti gli insegnamenti economico-aziendali della Bocconi ed era diretto da Dell’Amore – la Bocconi fondava la Scuola di perfezionamento in Economia aziendale. Questa, a partire dall’a.a. 1954/55, diventava attiva offrendo ai laureati in Economia, Giurisprudenza, Ingegneria, Chimica, un corso biennale serale di perfezionamento in Economia aziendale (CBS) che, al termine dei due anni di studio, rilasciava un diploma avente valore legale.

Tale corso, tuttavia, pur avendo funzionato regolarmente sino alla fine degli anni Sessanta, non aveva contribuito ad accreditare l’immagine di un’università in grado di rispondere ai crescenti fabbisogni di formazione manageriale. E questo sia perché non si rivolgeva al mondo delle imprese, ma a quello dei laureati che desideravano acquisire o rafforzare la loro formazione economico-aziendale, sia perché la faculty era costituita da accademici che facevano lezioni ed esami ignorando qualsiasi forma di didattica attiva volta a rendere i frequentanti protagonisti del proprio apprendimento. Si imponeva dunque la scelta o di chiudere il CBS o di rinnovarlo radicalmente e riposizionarlo. Comunque, a prescindere dalle sorti dello stesso, era chiaro che la Bocconi, se voleva diventare un attore significativo nella formazione manageriale, doveva operare scelte ben differenti da quelle sino a quel momento messe in atto.

Il rilancio del corso di laurea in Economia con molteplici indirizzi di studio e la creazione di una business school, lungi dall’essere iniziative a costo zero o quasi, richiedevano investimenti ingenti per lo sviluppo del corpo docente e delle strutture didattiche, di ricerca e amministrative – investimenti che erano al di fuori delle possibilità di bilancio della Bocconi di quegli anni. D’altro canto anche il corso di laurea in Lingue e letterature straniere, per essere all’altezza dei tempi, avrebbe richiesto ulteriori, ingenti risorse. Il tutto in presenza di un quadro economico e sociale che rendeva improponibile, almeno nell’immediato, il ricorso all’aumento delle tasse o ad altre fonti di finanziamento. Gli anni della ricostruzione e del boom economico erano ormai lontani: le crisi d’impresa si diffondevano in vari settori produttivi sia per gli aumenti del costo del lavoro sia per l’incremento delle pressioni competitive. Il disagio sociale era crescente e aveva contagiato anche il mondo dell’università, che in Italia era entrato in una fase di dura contestazione con l’occupazione pressoché simultanea, nel novembre 1967, delle facoltà di Sociologia a Trento e di Architettura ed Economia a Venezia.

Di lì a qualche mese la contestazione studentesca sarebbe arrivata anche in Bocconi, interessando soprattutto il corso di laurea in Lingue e portando all’occupazione dell’Ateneo, durata dagli inizi di maggio sino alla metà del 1968[1].

Questo dunque il contesto nel quale il nuovo rettore si trovava a operare: un contesto fatto di opportunità e sollecitazioni a innovare, ma anche di stringenti vincoli di bilancio e di forti turbolenze. Il tutto convergeva nel far emergere una strategia di focalizzazione su Economia e di abbandono di Lingue: per essere leader innovativa nell’area delle origini, la Bocconi doveva rinunciare al corso di laurea in Lingue e letterature straniere.

L’avvio del processo di rinnovamento e la nascita della SDA

Il nuovo assetto dei corsi di laurea. Nella seduta del 23 luglio 1968 il consiglio di amministrazione deliberò di non accogliere più immatricolazioni a Lingue a partire dall’a.a. 1968/69 per modo di arrivare alla definitiva soppressione del corso di laurea al termine dell’a.a. 1971/72.

Quanto a economia, la Bocconi si orientò subito verso la suddivisione del corso di laurea nei due indirizzi di economia politica ed economia aziendale, innestati su tre quadrimestri comuni e articolati in numerosi insegnamenti specialistici, per giungere poi, con l’a.a. 1970/71, alla soppressione della laurea in Economia e commercio e alla istituzione dei corsi di laurea in Economia politica (CLEP) e in Economia aziendale (CLEA).

L’esempio della Bocconi non venne inizialmente seguito dalle altre facoltà di economia italiane. L’innovazione rappresentata dal CLEA, con i suoi numerosi insegnamenti specialistici, non sarebbe però sfuggita a Pasquale Saraceno, che allora era l’autorevole decano dei docenti di materie aziendali a Ca’ Foscari e annoverava tra i suoi allievi alcuni tra i più brillanti giovani già leader del movimento studentesco. Saraceno, che ben percepiva l’enorme gap di competenze manageriali nel mondo produttivo, si adoperò subito per istituire il CLEA a Venezia e, grazie al generoso sostegno della Cassa di Risparmio di Venezia, ottenne di dedicare un bel palazzo, Ca’ Bembo, esclusivamente agli studi economico-aziendali e agli studenti del CLEA.

 

Il CBS rinnovato. Nel medesimo anno accademico in cui si inauguravano il CLEA e il CLEP, prese avvio la Scuola di Direzione Aziendale (SDA) nell’alveo – e nei locali – dell’Istituto di Economia Aziendale (IEA)[2]. Il segnale di partenza furono la presa d’atto che il vecchio CBS era ormai obsoleto e la decisione di sospendere per un anno la sua erogazione al fine di consentirne la riprogettazione nei contenuti, nei metodi didattici, nella faculty, nel posizionamento. Dell’Amore e Masini, rispettivamente direttore e vicedirettore dell’IEA, in un giorno dell’estate 1970, convocarono Vittorio Coda e Roberto Ruozi comunicando che si voltava pagina e dando loro carta bianca per la riprogettazione del corso, fatto salvo il vincolo inderogabile del pareggio di bilancio: la Bocconi metteva a disposizione gli spazi mentre per ogni altro costo (docenti, materiali didattici, pubblicità ecc.) il CBS doveva autofinanziarsi. Di fatto, ci si doveva confrontare con il mercato.

Coda e Ruozi si misero subito al lavoro così da offrire per l’a.a. 1971/72 un CBS completamente rinnovato ed economicamente autosufficiente. Il nuovo CBS era, in buona sostanza, un corso di basic management che spaziava nelle aree di general management e relazioni impresa-ambiente, finanza e credito, organizzazione, determinazioni quantitative (contabilità e bilanci, costi, programmazione e controllo); faceva largo utilizzo di metodi di insegnamento attivi e di testimonianze di manager con esperienza d’aula; ai partecipanti veniva dato, per ogni insegnamento, il syllabus indicante, per ciascuna sessione didattica, il tema e i materiali teorici ed empirici su cui dovevano prepararsi per una partecipazione attiva; i docenti venivano valutati dai partecipanti attraverso appositi questionari di cui si teneva gran conto; l’equilibrio economico si giocava nel confronto con il mercato, puntando all’obiettivo di avere un consistente numero di domande di iscrizione di persone fortemente motivate a innestare nella loro formazione competenze di management.

 

Il decollo della SDA. Poco prima dell’avvio della prima edizione del nuovo CBS, nel 1972, un giovane, brillante allievo di Dell’Amore, Claudio Demattè, rientrò in Italia dagli Stati Uniti, dove presso la Harvard Business School aveva frequentato un programma residenziale di management della durata di parecchi mesi, l’Individual Study Program. Ruozi lo catturò e lui si mise subito all’opera.

Demattè aveva idee chiarissime sulle linee guida da seguire per il lancio della business school della Bocconi, che venne ben presto denominata SDA-Scuola di Direzione Aziendale (a significare che doveva instillare cultura e pratiche di buon management in qualsiasi tipo di organizzazione produttiva, e non soltanto nelle imprese in senso stretto).

Anzitutto la selezione dei «compagni di viaggio» (così Claudio amava chiamare i colleghi via via cooptati nell’avventura di dotare la Bocconi di una grande scuola di management che rispondesse ai bisogni del Paese). Essi dovevano condividere con entusiasmo il suo sogno, imparare a insegnare con metodi didattici attivi (a cominciare da quello della discussione di casi) e avere passione per la loro disciplina e per le aziende. Far diventare migliori le aziende: questo il senso del loro impegno, bene espresso dal titolo di un piccolo libro di Philippe de Woot, professore all’Università di Louvain La Neuve, Pour une meilleure entreprise, che Claudio fece distribuire a tutti i docenti della Scuola.

I partecipanti ai corsi, poi, se paganti di tasca propria, dovevano essere di qualità, così da capitalizzare sul brand del corso; se inviati dalle aziende, dovevano essere messi nelle condizioni di praticare quanto appreso, così da dare un tangibile ritorno alle stesse. A ciò almeno si doveva tendere per poter dire di aver fatto un buon lavoro.

Quanto ai prodotti, infine, la Scuola non poteva fermarsi ai corsi serali (al CBS era stato successivamente affiancato il corso annuale serale di gestione bancaria – CSB), ma doveva da subito entrare nel mercato della formazione per executive con corsi a tempo pieno della durata di alcune settimane, che avrebbero fatto la differenza rispetto ai seminari e corsi brevi che allora inflazionavano il mercato e avrebbero altresì contributo a sostenere gli investimenti per lo sviluppo della Scuola nel rispetto del vincolo di bilancio. Nasceva così, nell’estate 1972, il Corso Intensivo di Gestione d’Azienda-CIGA (poi ribattezzato Corso Intensivo di Sviluppo Direzionale-CISD), di quattro settimane suddivise in moduli di una settimana, che dava un consistente valore aggiunto ai partecipanti impegnandoli, tra un modulo e l’altro, a svolgere un progetto consistente nell’applicare nelle rispettive aziende ciò che avevano appreso in aula. A esso fecero poi seguito: il corso intensivo di gestione bancaria (CIB), della durata di quattro settimane modulari, che rendeva fruibili i contenuti del CSB anche a persone che non lavoravano a Milano o nell’hinterland milanese e, con formula analoga a quella del CISD, il corso di pubblicità e marketing. Tali corsi, come anche quelli serali, furono sistematicamente rinnovati per tenere conto dell’esperienza maturata e dell’evoluzione dei fabbisogni formativi e sarebbero rimasti a catalogo anno dopo anno acquistando sempre più notorietà e prestigio.

Il grande balzo

Nella primavera del 1974 le cose andavano a gonfie vele in un clima di generale entusiasmo: la domanda era sostenuta, perché forte e diffuso in tutti i tipi di imprese era il fabbisogno di competenze di basic management; i partecipanti ai corsi erano numerosi e di qualità e i loro giudizi complessivamente molto positivi; i docenti – sia di estrazione accademica che di provenienza aziendale – erano orgogliosi di collaborare con la Scuola e non c’erano difficoltà ad attrarne di nuovi; i margini consentivano di autofinanziare gli investimenti di sviluppo (principalmente nel personale docente e amministrativo); l’immagine di accademismo legata al vecchio CBS diventava via via più sbiadita e l’azione della concorrenza sempre più debole.

Ma Claudio Demattè era ormai proiettato a vincere la sfida del lancio di un Master in Direzione Aziendale (MDA), ossia di un corso di management plurifunzionale, a tempo pieno, di lunga durata (12 mesi fu la durata prescelta, poi elevata a 18 mesi), rivolto di preferenza a giovani che avessero già maturato qualche esperienza di lavoro.

 

Il master, fatto innovativo dirompente. Su questo obiettivo Claudio Demattè aveva avuto via libera da Dell’Amore, ottenendo una sovvenzione una tantum di 500 milioni di lire per finanziare la costituzione di una faculty dedicata alla progettazione e realizzazione del master.

Con la decisione di lanciare un programma master, di fatto, veniva a saldarsi un’alleanza forte fra i due istituti aziendalisti della Bocconi, l’Istituto di Economia Aziendale (IEA) e l’Istituto di Economia delle Aziende Industriali e Commerciali (IEAIC). A partire da allora, infatti, la SDA cessò di essere creatura esclusiva dell’IEA e passò sotto la guida di un consiglio direttivo espressione dei due istituti[3].

Ma, al di là di questo importante cambiamento nella governance, va segnalata l’innovazione radicale che con il MDA veniva a introdursi nella vita dell’Università: quella rappresentata da un nucleo di dodici docenti – sei responsabili di area e sei assistenti di area (Tab. 1) – che, per la prima volta nella storia della Bocconi, anziché essere ingaggiati con un modesto compenso per andare in aula 50 o 60 ore (e far fronte ai connessi impegni di esami, tesi di laurea e ricevimento studenti), venivano impegnati a tempo pieno nell’Università con una retribuzione di mercato (o quasi), avendo come compito principale quello di lavorare insieme alla realizzazione di uno sfidante progetto inserito nell’ambizioso disegno di creare una grande business school universitaria al servizio del Paese.

La definizione delle aree poi – che segnava il superamento della soluzione di compromesso alla base del CLEA (in cui si erano mantenuti in vita gli insegnamenti settoriali) – imponeva ai docenti la scelta di privilegiare, nelle attività di studio e di insegnamento, la prospettiva funzionale rispetto a quella settoriale, che sino ad allora aveva premiato le carriere accademiche di molti studiosi. La SDA veniva così ad allinearsi con uno dei tratti caratteristici delle business school di stampo anglosassone con l’obiettivo di formare il management delle imprese.

La rottura del modello di ingaggio tradizionale dei docenti, unitamente agli sviluppi dei corsi per dirigenti e imprenditori, aveva ovvie implicazioni sugli spazi, per cui venne deciso di riservare esclusivamente alla SDA il piano terreno e il primo piano del corpo di fabbricato situato sulla sinistra rispetto all’atrio dell’Università: il piano terreno per le aule e il primo per gli uffici.

Così la SDA aveva conquistato un suo ben definito habitat all’interno dell’edificio principale della Bocconi. E chi veniva a visitarla aveva la percezione di una realtà inusuale in un’università: all’ingresso si imbatteva in un cartellone recante la missione della Scuola e i corsi in cui essa si esplicava[4]; poi si affacciava ad aule a emiciclo come quelle della Harvard Business School, concepite per favorire il reciproco ascolto dei partecipanti[5]; salendo quindi al primo piano, respirava l’atmosfera di uffici abitati da mattino a sera da una comunità di persone indaffarate e contente di quello che stavano facendo: le porte, ai lati del largo e lungo corridoio, erano sempre aperte e le persone delle diverse aree disciplinari vi si incrociavano, scambiavano idee, facevano il break insieme, dando vita a quella che, in antitesi alla cultura dei comparti stagni, venne chiamata la «cultura del corridoio».

 

Lo sviluppo e la commercializzazione del prodotto. Il lavoro da svolgere era molto: si trattava di progettare, partendo quasi da zero, 200 giornate d’aula, ovvero 600 sessioni della durata di due ore ciascuna, sapendo che si sarebbe dovuto affrontare il giudizio impietoso – su contenuti, metodi e materiali didattici – di un’aula molto esigente. Dunque occorreva definire con cura le tematiche da trattare, gli obiettivi formativi, il mix di lezioni-discussione di casi, le slide di inquadramento concettuale, i casi e gli articoli di supporto da tradurre, i casi originali di aziende italiane da produrre, le teaching notes da scrivere e... mettersi al lavoro sette giorni su sette.

Ancor più impegnativo e sfidante era poi il lavoro di commercializzazione dell’MDA. Nessuno in Italia sapeva bene che cosa fosse un master. I capi del personale lo guardavano con diffidenza se non con ostilità, considerandolo tempo perso agli effetti della carriera e fonte di aspettative che rendevano problematico l’inserimento in azienda di quanti l’avrebbero positivamente concluso. In effetti, opinione comune di imprenditori e manager – di cui si era fatto portatore un illustre capo azienda con un articolo di fondo sul Corriere della Sera – era che l’università era il luogo della formazione di base, l’azienda il luogo della formazione applicata e che pertanto le capacità e le competenze manageriali si acquisivano solo sul posto di lavoro. In un simile contesto si andava a raccontare alle persone rientranti nel target del master che dovevano licenziarsi, ritornare a studiare in università, investire un anno della loro vita e un sacco di quattrini (già allora il master costava molto), sottoporsi a ritmi di studio stressanti, e il tutto per fare una cosa che il mercato del lavoro non capiva e non apprezzava.

La sfida dunque era di dissodare il terreno su entrambi i versanti: quello delle application, per raccogliere e selezionare domande di giovani di valore, e quello del placement, per il reinserimento in azienda dei diplomati.

Una campagna stampa aggressiva consentì di ricevere un certo numero di domande da cui si selezionò una ventina di coraggiosi partecipanti pienamente in target, che diedero fiducia alla Scuola e che la Scuola si prese in carico confidando di riuscire a piazzarli in posizioni che valorizzassero le competenze acquisite. Cosa che fece poi egregiamente.

Il master era un prodotto complesso, molto differente dagli altri prodotti formativi. Esso costrinse a sviluppare capacità gestionali nuove, che si tradussero in una progressiva messa a punto di sistemi di gestione ad hoc: per la raccolta delle domande, per la valutazione e la selezione dei candidati, per la gestione dei docenti e degli studenti in corso d’anno, per il placement.

 

La squadra e il suo leader. Chi erano i docenti che, rinunciando ad allettanti opportunità esterne alla Bocconi, si lasciarono catturare da Demattè nella sfida dell’MDA? Erano docenti giovani o giovanissimi, di età compresa fra i 23 e i 35 anni, mediamente inferiore a quella dei discenti, accomunati da grande entusiasmo e volontà di portare a successo l’impresa. Nessuno aveva fatto un master; un buon numero però era stato «spedito» da Claudio a frequentare l’International Teachers Program (ITP) di Harvard; esperienza che, pur nella sua brevità (era un corso intensivo della durata di nove settimane con tre casi al giorno da studiare e discutere in aula), aveva spalancato loro gli occhi sul mondo della formazione manageriale, sia come contenuti che come metodi didattici. Pur essendo docenti a tempo pieno focalizzati sull’MDA, formavano una faculty unitaria con i docenti dei corsi per executive, in forza del loro inquadramento nella specifica area disciplinare prescelta e di una preparazione di carattere generale nelle restanti aree del management, maturata anche – nel caso degli assistenti di area – attraverso la frequenza del CISD. Da ultimo erano docenti impegnati in qualche misura anche nei corsi del CLEA, ai quali trasferivano metodi e materiali didattici sviluppati in ambito SDA.

Lo spirito di squadra era fortissimo: l’identificazione con la Scuola e i suoi obiettivi era tale da rendere irrilevante o quasi l’appartenenza a questo o quell’istituto[6]. Del resto Claudio non faceva distinzione di persone, focalizzava tutti sui problemi della Scuola e si prendeva carico di ciascuno per il bene comune. Aveva a cuore la crescita delle persone. A tal fine, ne incoraggiava l’esposizione a contatti stimolanti (con aziende, scuole di management, istituti di ricerca e formazione come l’EIASM-European Institute for Advanced Studies in Management); coltivava le relazioni con docenti di management che dessero una mano a sviluppare la faculty[7]; gestiva la Scuola come una palestra di management, convinto che le buone pratiche manageriali dovessero essere applicate anzitutto in casa propria[8]. Claudio curava che la faculty fosse coesa e non si formassero barriere di alcun tipo fra i docenti delle diverse aree e delle diverse età. E ciò sia attraverso una gestione delle riunioni che favoriva l’apporto di ciascuno e spingeva a fondo il confronto delle idee («mai mettere il coperchio sopra i conflitti», diceva), sia con accorgimenti come quello di mettere gli assistenti di area in un ufficio diverso da quello del capo area o quello di invitare anche gli assistenti di area alle riunioni del venerdì pomeriggio in cui si faceva il punto sull’MDA[9].

 

I rapporti con l’Università. Scontri con l’Università non vi furono. Vero è però che Claudio usava i suoi poteri di segretario generale della Scuola nell’interesse della stessa, senza timore alcuno degli eventuali contraccolpi che le sue decisioni e azioni potessero avere ai livelli alti della Bocconi. Come quando, per esempio, diede il via libera alla campagna pubblicitaria per il master e alla sua promozione in giro per l’Italia nelle sedi universitarie (suscitando dal mondo accademico reazioni del tipo «la cultura non è merce») o decise di inaugurare la stagione delle cerimonie per la consegna dei diplomi (ed Enrico Resti si vide arrivare sulla scrivania una fattura per l’acquisto di 100 toghe!).

Né, allorché doveva passare attraverso l’amministrazione, era timido nell’avanzare le richieste che riteneva nell’interesse della Scuola, come quando si trattò di ottenere l’assunzione, nello staff del master, di una collaboratrice di madre lingua inglese o quando si batté perché la biblioteca rimanesse aperta sino alle 23.

Nonostante le richieste audaci e i comportamenti trasgressivi, l’atteggiamento dell’amministrazione è stato sempre benevolo e collaborativo nei confronti della SDA e del master. Critici nei riguardi di quest’ultimo erano invece il mondo dell’impresa, il mondo accademico (quello esterno e in parte anche quello interno) e gli studenti, segnatamente quelli bocconiani, che vedevano nel master un’iniziativa in concorrenza sul piano delle risorse che rischiava di ridurre il riconoscimento della loro laurea.

Claudio aveva messo in conto che la realizzazione di un MDA sarebbe stato un fatto innovativo dirompente, sia all’interno che all’esterno della Bocconi, e che si sarebbero dovute superare resistenze di vario tipo. Perciò, di fronte alle difficoltà, non si scoraggiava e procedeva con il suo stile, pacato e determinato allo stesso tempo, sempre aperto all’ascolto e a riconoscere e correggere eventuali errori («quando si gestisce si può anche sbagliare», diceva).

Sapeva inoltre di poter contare sul pieno appoggio di Dell’Amore, che lo sosteneva da par suo davanti al consiglio di amministrazione dell’Università[10]. Come pure sapeva, venuto a mancare Dell’Amore[11], di poter contare su Luigi Guatri, suo grande estimatore.

Lo sviluppo nella seconda metà degli anni Settanta e inizi anni Ottanta

La crescita della SDA. I partecipanti al master crebbero ogni anno: dagli iniziali 25 nel 1975 a 51 nel 1978 e a 54 nel 1980. Lo sviluppo sarebbe poi proseguito ininterrotto e, nel 1986, raggiunti i 108 partecipanti, si sarebbe deliberato il raddoppio dell’aula.

Di pari passo con il master, la Scuola nel suo insieme cresceva alla grande. In effetti, l’esigenza di dare risposta alla domanda proveniente dalle aziende e dalle istituzioni, unita alla necessità di sostenere gli investimenti – non ultimi quelli nel MDA, per molti anni in perdita – nel rispetto del vincolo di bilancio, diede avvio alla progettazione di un numero crescente di corsi (oggi definiti executive) di taglio funzionale e interfunzionale.

Nel 1979 il «catalogo» annoverava, oltre ai programmi già citati: il COPAS (corso di analisi e pianificazione strategica), rivolto a responsabili di line e di staff di alto grado nelle gerarchie aziendali; il progetto Multi-seminar, concepito per accogliere seminari di taglio funzionale tra loro coordinati e utilizzabili in percorsi formativi su misura dei partecipanti inviati dalle aziende; i corsi base per non specialisti destinati a colmare un vuoto di conoscenze tecniche, nonché seminari e corsi brevi bancari.

L’anno successivo si intensificarono le iniziative progettate e promosse dalle aree, quali il corso R&D Management, i programmi di formazione per la pubblica amministrazione, i seminari del progetto Multi-seminar. Presero avvio inoltre iniziative su commessa con committenti importanti come Italimpianti, Finmeccanica e, nel 1982, Montedison con il progetto Alti Potenziali. Questo filone, per altro non nuovo per la SDA[12], negli anni seguenti avrebbe consentito alla Scuola di rafforzare la partnership con molte realtà produttive.

Un’idea della crescita nella seconda metà degli anni Settanta e inizi anni Ottanta si ha dai dati riportati dalla Tabella 2.

All’assetto originario delle aree, definito in sede di costituzione del master, si apportò una modifica nel 1977 con la creazione dell’area Credito (Roberto Ruozi) e con la nomina di Armando Mario Brandolese, docente del Politecnico di Milano, alla guida dell’area Produzione, in sostituzione di Gualtiero Brugger, che assunse la responsabilità di Finanza. Successivamente vennero create tre nuove aree: Pubblica amministrazione (Elio Borgonovi) nel 1979[13]; Sistemi informativi (Pierfranco Camussone) nel 1982; Metodi quantitativi (Luigi Tava) nel 1985.

In una situazione di estrema scarsità di studiosi e docenti di management in Italia, le aree della SDA divennero una fucina per far fronte alle esigenze della Scuola e un vivaio di aziendalisti a cui attinsero i corsi di laurea della Bocconi e, successivamente, anche quelli di altre università. Lo sviluppo della faculty fu il frutto di investimenti lungimiranti, continuativi, sempre autofinanziati dalla Scuola e anticipatori rispetto ai fabbisogni generati dalla crescita della sua offerta formativa. Il modello di ingaggio e formazione dei giovani ricalcava in buona sostanza quello già sperimentato per gli assistenti di area del master, che tra l’altro si era dimostrato efficace nel renderli autonomi nel giro di tre, quattro anni. La proposta era di dedicarsi interamente (o quasi) all’università con la prospettiva di diventare studiosi dalle solide radici in un’area funzionale, con una certa conoscenza nelle altre aree del management e con un pacchetto retributivo dignitoso a fronte di un impegno di studio e formazione individuali e di obblighi didattici, di ricerca e, in misura crescente nel tempo, anche gestionali.

Gli sviluppi dell’offerta formativa della Scuola, di cui si dice in seguito, sono riconducibili al dinamismo imprenditoriale delle aree e dei docenti in esse incardinati. Precisamente, gli sviluppi dell’offerta indirizzata alle imprese scaturirono dall’insieme delle sei aree originarie del MDA nonché dalle aree Sistemi informativi e Metodi quantitativi, mentre gli sviluppi dell’offerta formativa rivolta agli intermediari finanziari e alla pubblica amministrazione sono riconducibili rispettivamente alle aree Credito e Pubblica amministrazione.

Nonostante la relativa separatezza dei tre «mondi» (imprese, intermediari finanziari e pubblica amministrazione), la crescita della Scuola si dispiegò in modo unitario grazie a una pluralità di elementi coesivi: lo spirito di servizio al Paese; la master strategy, elaborata per tutta la Scuola nelle sue diverse articolazioni in apposite riunioni strategiche della durata di una giornata[14]; le riunioni settimanali o quindicinali del comitato direttivo[15]; i momenti celebrativi[16]; la fitta rete di relazioni informali tra i colleghi delle diverse aree; la guida di un leader dalle non comuni capacità di fare squadra come Claudio Demattè.

 

Gli sviluppi dell’offerta formativa indirizzata alle imprese. Gli sviluppi in parola sono quelli che presentarono le maggiori connessioni con il master. E ciò sia perché consentirono il sostegno finanziario del MDA, una volta esauritosi il finanziamento a fondo perso una tantum dell’Università, sia per la rilevanza che corsi come il CISD e il COPAS ebbero nella formazione della faculty.

Relativamente al primo aspetto, va detto che in tutte le business school del mondo i master operavano in perdita. Ma, a differenza di esse, la SDA non poteva fare conto sulle elargizioni di donor; per cui, per finanziare gli investimenti di sviluppo (in ricerche, materiali didattici e docenti) doveva puntare sull’offerta di prodotti (a catalogo e su commessa) rivolti alle imprese.

Quanto al secondo aspetto, si è già accennato alla frequentazione del CISD da parte degli assistenti di area. Il corso, per i contenuti e la audience cui si rivolgeva, offriva la possibilità di accrescere le conoscenze nelle diverse aree del management, nonché di valutare la rilevanza pratica dei concetti e degli strumenti che i partecipanti ai corsi, tra un modulo e l’altro, erano chiamati ad applicare nelle loro aziende.

Ancor più importante fu il ruolo del COPAS, che costituì per le aree della SDA un momento di grande iniezione di contenuti e di amalgama culturale. L’idea di un corso di formazione manageriale di elevato standing per lo staff dirigenziale delle grandi aziende venne a Claudio Demattè e a Sandro Sinatra nel 1973[17]. Precisamente, dalla constatazione di una certa superficialità dei consulenti di allora nel ruolo di diffusori di cultura e pratiche di buon management d’oltreoceano, venne l’idea di un corso suddiviso in moduli settimanali con una faculty indipendente, internazionale, che lasciasse il segno sui partecipanti. Furono così chiamati a collaborare, unitamente a qualche docente senior della Scuola, studiosi e consulenti di management come Eric Rhenman, Richard Normann, Igor Ansoff, Denis Boyle, Renato Tagiuri, nonché, in veste di testimoni, capi azienda e manager di valore, fra cui Tomaso Quattrin di IBM, Bruno Pavesi di Honeywell – che anni dopo sarebbe diventato consigliere delegato dell’Università Bocconi –, Renato Ugo di Montedison.

Il corso fu importante, oltre che per l’area Strategia, per molti giovani docenti della core faculty, i quali, assistendo alle giornate COPAS, ebbero l’opportunità di esporsi a contatti stimolanti, a nuove teorie e pratiche di general management, a una varietà di stili di conduzione dell’aula. Una particolare menzione merita poi il progetto Multi-seminar. L’idea di un progetto che coinvolgesse tutte le aree nello sviluppo di un’offerta formativa componibile dalle aziende – specialmente le PMI – in relazione ai loro specifici fabbisogni formativi venne a un docente senior dell’area Marketing in un momento delicato in cui si prospettava il rischio di non riuscire a rispettare il vincolo del pareggio di bilancio. Prima di allora la Scuola aveva preferito lanciare corsi di una certa durata ed era stata riluttante a offrire seminari brevi, che invece costituivano l’offerta prevalente, se non esclusiva, di diversi enti e associazioni. Ma la configurazione che i seminari avrebbero acquistato all’interno dell’offerta formativa del progetto Multi-seminar convinse Claudio a dare il via libera all’iniziativa. Dal progetto scaturì un flusso di idee e proposte che segnò l’avvio di un «modello di imprenditorialità diffusa» fra le aree della Scuola che andò via via affinandosi.

 

Gli sviluppi dell’offerta formativa indirizzata al settore degli intermediari finanziari. La SDA fin dagli inizi dedicò grande attenzione ai fabbisogni formativi in materia di banche e mercati finanziari, utilizzando docenti che già operavano nei corsi universitari e che si erano impegnati in un modo diverso di «fare aula», con l’utilizzo di casi e di testimoni[18].

Nel 1971, in sede di progettazione del nuovo CBS, tali fabbisogni erano ben presenti, come dimostra il robusto pacchetto di «insegnamenti bancari»[19]. Nel 1972, prima ancora che partissero il CBS e il CISD, si svolse la prima edizione del corso fidi, della durata di cinque giorni che, debitamente rinnovato e aggiornato, venne erogato per oltre quattro decenni. Esso proponeva strumenti allora assai innovativi da impiegare nelle istruttorie di fido. Nel 1973 partì la prima edizione del CSB, progettato e lanciato per fare fronte alle specifiche esigenze formative dei funzionari delle banche. Ebbe un grande successo. Nel 1975, per superare i vincoli logistici tipici dei corsi serali, si lanciò il CIB, un corso che è tuttora (2018) nel catalogo della SDA e concorre a innalzare il ranking della Scuola grazie alle elevate valutazioni dei partecipanti. Nel frattempo, erano partite le prime attività su misura rivolte agli alti dirigenti di banche come Banca Sella, Carige, Banco di Roma.

Negli anni Ottanta l’area Credito conobbe un grande sviluppo delle attività su commessa per quadri intermedi, al quale non fu estranea la geniale idea di dedicarsi a formare i formatori bancari e di costituire un’associazione che si prendesse cura di questa ristretta ma importante «famiglia professionale». Parallelamente agli sviluppi dell’offerta formativa cresceva il corpo docente. Poiché i corsi da cui prese avvio lo sviluppo dell’area erano multifunzionali, la stessa inizialmente attinse alle altre aree della Scuola per avere le competenze di cui non disponeva, in particolare alle aree organizzazione e personale, marketing, amministrazione e controllo. Ben presto però, per l’effetto combinato della difficoltà di tali aree a rispondere alle crescenti richieste dei corsi bancari e della crescita numerica e professionale dei docenti dell’area Credito, questa andò articolandosi al proprio interno in sotto-aree funzionali in grado di fare fronte alle proprie necessità.

 

Gli sviluppi dell’offerta formativa indirizzata al settore della pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione e la sanità non hanno mai trovato cultori tra gli aziendalisti della Bocconi finché Carlo Masini, nella seconda metà degli anni Sessanta, non cominciò a chiedere ai suoi studenti di occuparsi di ospedali e di pubblica amministrazione. Uno di questi studenti era Elio Borgonovi, che nel 1970 divenne suo assistente con una borsa di studio Assolombarda. Ebbero così inizio, all’interno dello IEA, gli studi sulla pubblica amministrazione, che acquisirono una certa visibilità all’interno della Bocconi a partire dal 1972 con l’istituzione di un insegnamento fondamentale del CLEA dedicato all’economia delle aziende pubbliche e nel 1978 con la costituzione del Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria (CERGAS)[20].

Borgonovi da tempo intratteneva con Claudio Demattè una relazione amichevole, che approdò a un rapporto di collaborazione nella Scuola con la costituzione nel 1979 dell’area Pubblica amministrazione. Questa mosse i primi passi con due iniziative seminariali[21] e un’indagine sul campo finanziata dalla SDA, volta a capire se c’era domanda negli enti locali e comunque come si sarebbe potuta accostare la formazione manageriale negli stessi[22]. Per le iniziative in campo sanitario invece l’area si sarebbe avvalsa delle ricerche del CERGAS.

Nel 1982, quando l’area poteva ormai contare su un primo nucleo di docenti formatisi anche grazie al CERGAS, partì la prima edizione del corso di gestione e organizzazione in sanità (CORGESAN), un corso serale che si svolgeva da ottobre a marzo. Al termine il feedback dei partecipanti (direttori sanitari, direttori amministrativi, capo sala) fu: «molto interessante, ma 22 matti come noi non li troverete più». Borgonovi scommise che sarebbe andato avanti e vinse: il CORGESAN segnò il primo grande salto dimensionale-qualitativo dell’area Pubblica amministrazione. L’anno successivo i contenuti del corso serale vennero compattati in un corso diurno di 10 giornate a tempo pieno – il corso Ippocrate – che, con le sue 150 edizioni, creò una diffusa e alta notorietà della SDA fra i primari e gli aiuti ospedalieri.

Sul versante degli enti locali, lo sviluppo dell’offerta formativa procedette in parallelo con le leggi di riorganizzazione degli enti medesimi. In particolare, il decreto Stammati del 1977 – «Consolidamento delle esposizioni bancarie a breve termine di comuni e province» – pose come condizione che, entro un termine piuttosto contenuto, gli enti facessero dei piani di riorganizzazione. Su questo fabbisogno si inserì la SDA con attività di formazione/intervento su misura in alcuni enti locali e con il lancio di un corso breve che venne ripetuto tre volte in un mese.

Il secondo grande salto dell’area si ebbe quando, nel 1988, iniziò il percorso di trasformazione delle Ferrovie dello Stato (FS) da «azienda autonoma» del ministero dei Trasporti a ente pubblico economico e, successivamente, in società per azioni. In quell’occasione le FS si rivolsero alla SDA per un corso di formazione dei loro dirigenti, 660 persone, da svolgere entro l’anno. Le richieste del capo del personale erano esplicite soltanto per quanto si riferiva al nuovo assetto di governance delle FS e ai profili di diritto del lavoro, mentre per i profili gestionali e organizzativi lasciava alla SDA il compito di fare una proposta. L’impegno richiesto era davvero grande, ma alla fine si decise di accettare la sfida e si progettò un corso di 10 giornate a tempo pieno, suddivise in due moduli, da tenere a 22 gruppi di 30 persone ciascuno, per un totale dunque di 220 giornate. Con questo progetto l’area tagliò il traguardo di un miliardo di fatturato.

 

L’apertura internazionale della Scuola e il processo di internazionalizzazione del MDA. La SDA nacque per diventare una scuola di management capace di misurarsi con le migliori business school d’Europa e del mondo. L’apertura internazionale entrò già ab initio a far parte del suo DNA con il suo imprinting harvardiano e con i successivi apporti delle scuole europee e delle altre università statunitensi, con cui le diverse aree instaurarono relazioni per formare i loro docenti[23].

Ma il processo di internazionalizzazione vero e proprio non poteva partire se non dopo avere posto radici sufficientemente solide nel tessuto economico nazionale e avere irrobustito il MDA, portandolo dai 20-30 partecipanti delle prime edizioni a 50.

L’avvio del processo avvenne agli inizi degli anni Ottanta allorché si decise di puntare al raddoppio della classe del master e di raccogliere domande di partecipazione provenienti anche dall’estero.

Il primo passo in questa direzione fu unirsi alle migliori business school europee e formare un consorzio (la cosiddetta Lega delle business school in Europa)[24] avente lo scopo di far entrare nella cultura scolastica del vecchio continente il concetto, allora assente, della formazione post-laurea e post-esperienza. Ci si impegnò a far conoscere il consorzio, in ciascuno dei Paesi rappresentati, attraverso due quotidiani leader (per l’Italia la scelta cadde su Il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera) e si organizzarono incontri a Bruxelles e poi a Francoforte, in cui ogni business school presentava i suoi programmi. Tutte le scuole avevano programmi in inglese, tranne quelle francesi e la SDA. Il problema linguistico era un ostacolo che, per la SDA, si aggiungeva a quello rappresentato dall’opinione che in Italia, in fatto di management, ci fosse ben poco da imparare, stanti l’inefficienza della pubblica amministrazione e la debolezza dei governi. Ma questo elemento di svantaggio veniva volto in positivo facendo presente che proprio le difficoltà di fare impresa in Italia avevano consentito di sviluppare singolari capacità di problem solving.

Quello della SDA poi era l’unico programma master che prevedeva un’immersione nella realtà viva di un’azienda grazie a un progetto sul campo – Diagnosi del Sistema Aziendale (DISA) – che le aziende compravano e valutavano fornendo alla Scuola e ai suoi allievi un feedback non autoreferenziale di quanto avevano appreso. Da ultimo, il master della SDA era attrattivo per chi amava la cultura del nostro Paese e possedeva una conoscenza della lingua[25]. Successivamente, visto l’esi­to positivo di queste presentazioni, l’attività promozionale dei master europei, su impulso della SDA, puntò anche al mercato statunitense con la decisione di andare a New York[26]. L’attività promozionale del consorzio delle migliori business school europee, singolare esperienza di coopetizione, si sarebbe conclusa entro gli anni Ottanta.

A questi primi, coraggiosi, passi di internazionalizzazione della classe del master seguirono i primi, timidi passi di internazionalizzazione della faculty, con l’invito rivolto a docenti stranieri di tenere dei minicorsi in inglese. Ma il grande passo sulla via dell’internazionalizzazione si sarebbe compiuto quando, nel 1986, raggiunto il traguardo delle due classi, si sarebbe presa la decisione di lanciarne una in inglese. Una scelta da far tremare le ginocchia. Ma questa decisione, sostenuta da Demattè con il coraggio che lo distingueva, si sarebbe rivelata una mossa fondamentale per l’apertura e la visibilità internazionale della Scuola in termini di formazione della faculty, di alumni in giro per il mondo e di spinta a scalare i ranking internazionali.


1

Della vicenda è stato dato ampio conto nella prima parte del libro, «Dalla contestazione al crollo del Muro di Berlino».

2

L’IEA, allora, a seguito della creazione dell’Istituto di Economia delle Imprese Industriali e Commerciali, comprendeva i soli insegnamenti economico-aziendali e bancari facenti capo rispettiva-mente a Carlo Masini e a Giordano Dell’Amore.

3

Il consiglio direttivo della SDA era composto da Giordano Dell’Amore (presidente), Vittorio Coda, Claudio Demattè (segretario generale), Luigi Guatri, Carlo Masini, Giorgio Pivato, Roberto Ruozi.

4

Molti, tra i meno giovani, ricordano ancora che nel corridoio che portava alla SDA – ove oggi si trova l’opera del maestro Emilio Isgrò, «La cancellazione del debito» – era collocato il Manifesto della Scuola: «Una scuola di management serve la collettività quando opera nella costante tensione fra l’esigenza di preparare all’esercizio di una professione e la necessità di produrre una critica costruttiva per la ricerca di strutture economiche ed organizzative più giuste».

5

Si trattava di aule fortemente volute da Claudio Demattè, che ne aveva ben chiara la rilevanza pratica ma anche simbolica, tant’è che, quando nel 1981 venne depositato il marchio della SDA Bocconi, vi pose al centro l’emiciclo, evocativo delle aule della Scuola e della didattica interattiva che in esse si svolgeva.

6

Gli istituti aziendalistici, con il distacco dei «bancari» dallo IEA, erano diventati tre: IEMIF, IEAIC e IEA.

7

Renato Tagiuri, Philippe de Woot, Igor Ansoff, Richard Norman, Jan MacMillan sono alcuni dei nomi che vengono alla mente.

8

Esemplari al riguardo il sistema di controllo di gestione, che rendeva trasparenti costi, ricavi e risultati delle varie iniziative, e l’impegno via via posto nel mettere in piedi e affinare ogni altro meccanismo operativo occorrente per la gestione della faculty e del portafoglio prodotti.

9

Ecco come il suo stile è ricordato dalle segretarie del master di allora: «C’era un coinvolgimento di tutti per far procedere le cose per uno scopo comune. Demattè dava entusiasmo a chiunque, dal fattorino al portiere, a tutte le persone che collaboravano con lui; dava del tu a tutti, però c’era un grande rispetto per lui. Era un creativo, era una persona che aveva voglia di fare e non aveva paura di scontrarsi con l’Università che allora era più conservatrice. Trasferiva il suo entusiasmo perché l’aveva dentro di sé, perché lui era fatto così. Era il capo, però non aveva bisogno di fare il capo. Lo era, ed era riconosciuto».

10

Vedi Luigi Guatri, Grandi personaggi della Bocconi d’altri tempi, Milano, Egea, 2013, p. 66.

11

Giordano Dell’Amore lasciò la presidenza della Scuola alla fine degli anni Settanta. Dopo di lui, nella carica di presidente della SDA furono nominati: Tancredi Bianchi (1980), Vittorio Coda (1981/96), Claudio Demattè (1996/2002), Severino Salvemini (2003/06), Franco Amigoni (per soli 6 mesi, in quanto, con il nuovo ordinamento dell’Università, il ruolo di presidente e quello di diretto-re generale vennero unificati nella carica di dean della Scuola). Claudio Demattè fu a capo della SDA ininterrottamente per 19 anni in qualità di segretario generale (1971/1973) e poi di direttore ge-nerale (1973/90). A lui subentrarono Franco Amigoni (1991/96), Elio Borgonovi (1997/2002), Maurizio Dallocchio (2003/06), e, con la qualifica formale di dean della Scuola, Alberto Grando (2006/12), Bruno Busacca (2012/16), Giuseppe Soda (in carica dal 2016).

12

In precedenza la SDA aveva svolto, tra l’altro, un impegnativo intervento formativo dell’intero staff dirigenziale (prima linea e high fliers) del Banco di Roma.

13

Il campo di lavoro che l’area Pubblica amministrazione era chiamata a presidiare includeva, sin dagli inizi, la Sanità. In un tempo successivo il raggio di azione dell’area si estese sino a comprendere le aziende del cosiddetto terzo settore (o aziende non profit).

14

Tali riunioni avevano luogo per un’intera giornata in ambienti quali la Val Cervo nel Biellese, l’abbazia di Mirasole, il palazzo dell’Istituto Javotte Bocconi – Associazione Amici della Bocconi in corso Venezia, Stresa, villa La Motta.

15

Del comitato direttivo facevano parte tutti i direttori di area e di divisione.

16

Tali erano per esempio la festa di Natale (in cui la Scuola ringraziava i docenti con un regalo scelto personalmente da Demattè) e le premiazioni (per i migliori articoli pubblicati sulla rivista della Scuola – che all’epoca era Sviluppo & Organizzazione – o i migliori casi aziendali entrati nei circuiti della formazione manageriale).

17

Allora Sinatra aveva un ruolo dirigenziale di rilievo nella Dalmine.

18

La Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, di cui allora era presidente Giordano Dell’Amore, aveva messo a disposizione tutti i dirigenti di primo livello per testimonianze nei corsi della SDA.

19

Il piano di studi del CBS, sotto il titolo «Problemi finanziari e creditizi», raggruppava i seguenti insegnamenti: Il sistema bancario e La gestione delle aziende di credito, al primo anno; Il mercato finanziario, La gestione finanziaria delle imprese industriali e commerciali e I regolamenti interna-zionali, al secondo anno.

20

Il via libera alla costituzione del CERGAS venne dato a condizione che si autofinanziasse.

21

L’una sui bilanci preventivi e consuntivi negli enti locali, l’altra su efficacia ed efficienza negli enti ospedalieri.

22

Demattè disse a Borgonovi che la Scuola non poteva investire, però stanziò un budget di 30 giornate (pari a 1.200.000 lire) per un’indagine su province e comuni di Varese, Lecco e altri.

23

Nel 1981 la SDA si associò all’European Foundation for Management Development (EFMD); nel contempo, con l’obiettivo di formare i propri docenti a una didattica allineata ai miglior standard internazionali, la Scuola deliberò di entrare nel consorzio, che organizzava l’ITP – International Teachers Program, a cui ogni anno inviò – come abbiamo visto – un nutrito gruppo di giovani docenti, sostenendo un investimento non indifferente. 

24

L’Inghilterra era presente con la London Business School e la Manchester Business School; la Francia con l’INSEAD-Institut Européen d’Administration des Affaires e l’ISA-Institut Supérieur des Affaires; la Spagna con lo IESE-Instituto de Estudios Superiores de la Empresa; l’Olanda con la Rotterdam School of Management, la Svizzera con l’IMEDE-Institut pour l’Etude des Methodes de Direction de l’Entreprise; l’Italia con la SDA. La Germania allora non aveva business school.

25

In particolare vi erano alcuni, tedeschi, che addirittura si dilettavano di leggere Dante e i classici della letteratura italiana nella lingua madre. Uno di questi era Joerg Asmussen, master 1992, che sarebbe diventato membro del comitato esecutivo della BCE e nel 2013 avrebbe avuto il riconoscimento di bocconiano dell’anno.

26

La decisione non fu senza contrasti. Ma ecco come andarono le cose. La proposta di andare a New York venne avanzata dalla SDA per bocca di Enrico Valdani, allora coordinatore del MDA. Al rifiuto della Lega – per l’opposizione della London Business School e dell’IMEDE, che già pescavano nel mercato nordamericano – la SDA e lo IESE manifestarono la volontà di andarci da sole e così trascinarono anche gli altri.

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