Storia della Bocconi

1968-2022. Dalla contestazione all'internazionalizzazione

Da teaching college a teaching and research university


Parole chiave: Rapporto Borges

Il Rapporto Borges

Tra le caratteristiche della Bocconi fin dall’inizio c’è un costante guardare avanti e, se opportuno, innovare. Nella Storia, come anche in quella della nostra Università, il rilievo del tempo è stato cruciale.

Siamo a inizio degli anni Duemila. Nel primo anno del nuovo millennio. Per buon senso e aritmetica il nuovo millennio sarebbe cominciato il 1° gennaio 2001, ma l’entusiasmo prevalse e si fecero i botti un anno prima. Il consiglio di amministrazione chiese a un comitato internazionale di valutatori di rispondere a due domande:

  • Com’è la Bocconi adesso?
  • Qual è il futuro della Bocconi?

I componenti del comitato furono Antonio Borges (già dean, per nove anni di INSEAD, che seppe portare a posizioni di prima grandezza nei ranking internazionali), Lars Tyge Nielsen, professore di International banking and finance e director of the PhD program a INSEAD nonché chairman of the Faculty Evaluation Committee, e John Shoven, già Trione Director dello Stanford Institute for Economic Policy Research.

La diagnosi dei valutatori, il cosiddetto Rapporto Borges (BR), molto documentata e circostanziata, chiudeva la Bocconi in una sorta di vicolo cieco: «You’re the best in Italy, but this doesn’t matter!». Le ragioni dell’asserzione, decisamente chiara, si basavano sul fatto che il mondo dell’educazione universitaria (higher education) aveva registrato una chiara evoluzione in senso internazionale: per molti, e sempre più, era divenuto quasi normale fare il liceo in un Paese e l’università in un altro. Tenuto conto di ciò alla Bocconi fu suggerito di allinearsi.

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Un’idea semplice e frequentemente sbandierata era: «La Bocconi si deve trasformare da teaching university in research university». Normale quando si discute di vision, meno quando si definisce una mission e si passa alla realizzazione. Nel complesso, il progetto di cambiamento, che l’Università Bocconi sarebbe riuscita ad avviare e a compiere, fu aiutato, «un po’ sottotraccia», dal BR. Un adagio comune racconta che «le idee sono una cosa, la realtà un’altra» (sarebbe solo BSA = buon senso applicato). Ma la storia di UB è differente: idee come BR sono idee, ma ne fu tratta una realtà nuova.

Vista la struttura economica della Bocconi, la trasformazione non poteva essere in research university. La ben nota rilevanza delle tasse scolastiche nel suo parco risorse la forzò a mantenere, anzi, ad ampliare, l’offerta formativa, non solo per il valore in sé, ma anche per consentire il decollo verso un futuro in parte nuovo[1]. La sola trasformazione di cui aveva senso parlare era da teaching university a teaching and research university. Infatti, normalmente, le research university possono permettersi di esserlo (con poca e qualificata didattica) a fronte di dotazioni ingenti e fruttifere ed eventualmente di donazioni costanti e importanti. O, magari, di finanziamenti esterni di consistenza adeguata. Non era affatto il caso della Bocconi.

In cammino verso standard internazionali

La reputazione internazionale della Bocconi era indiscussa come teaching university. Sotto il profilo della ricerca vi era invece un serio problema. Semplicemente, scontava un disallineamento scientifico, comune a tutto il Paese. E, ai tempi, era un problema che non riguardava solo l’Italia, ma anche altri Paesi europei (segnatamente Francia e Germania).

Vi era anche un evidente e micidiale disallineamento salariale. La Bocconi non poteva risultare attraente per top scholar europei e si imponeva una differente politica salariale: non facile perché portava allo scontro le valutazioni accademiche, coscienti dei prezzi di mercato, e un’amministrazione lontana dagli standard internazionali del settore. Vi fu, a mio parere un attrito tra due atteggiamenti, tra CEO (chief executive officer) e REC (rector):

  • voglio professori bravi (CEO)
  • voglio professori top (REC)

Per molto tempo fu 0 a 0, palla al centro. Poi le prime acquisizioni mi fecero pensare a 0-2 almeno.

Il mercato internazionale tratta persone che possono andare nelle migliori università del continente, mentre per il CEO di una qualsiasi impresa manifatturiera, un ingegnere vale un po’ l’altro. Vi erano aree disciplinari ove la ricerca era condotta in una chiara prospettiva internazionale; altre in cui la prospettiva era primariamente nazionale. In queste ultime il vaglio era nazionale, le pubblicazioni non erano necessariamente «pubbliche» e comparivano soltanto in occasione di un concorso.

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Anche nei settori più visibili a livello internazionale, i contributi non erano corali, ma di eccellenti minoranze. Tento una schematizzazione.

  • Economia: settore strutturalmente messo meglio, grazie anche a una tradizione di area che conduceva gli economisti in erba a specializzarsi all’estero (prevalentemente in Paesi anglo-sassoni). Gran parte degli economisti in forza aveva solida, se non grande, reputazione internazionale.
  • Statistica e matematica: già da un paio di decenni, moltissimi docenti dell’area avevano buona reputazione internazionale. Per esempio, la statistica bayesiana non parametrica è nata in via Gobbi 5, grazie ai contributi fondanti di Michele Cifarelli ed Eugenio Regazzini, pubblicati però su un’ottima rivista, nata nazionale seppur con vocazione internazionale, che ancora oggi ha difficoltà nell’affermarsi. Si chiama ora Decisions in Economics and Finance e – non stranamente – ha sede in Bocconi.
  • Organizzazione: alcuni docenti dell’area erano già ben visibili nella comunità scientifica internazionale.
  • Storia: parziale apertura internazionale; sì per Business History, un po’ meno per Economic History.
  • Accounting, management, marketing: la gran parte dei docenti aveva, come dichiarata comunità di riferimento quella nazionale. Le conseguenze erano: pubblicazioni solo in italiano, più libri che articoli su rivista, eccessivo ossequio a una pretesa «scuola italiana di management», con conseguente privilegio di processi deduttivi qualitativi, rispetto ad analisi empiricamente validate. Un fatto che personalmente giudico di estrema importanza è che, nonostante la chiusura del settore verso la pubblicazione a livello internazionale, la conoscenza della letteratura risultava assolutamente adeguata – e ciò costituì un importante vantaggio per l’attività formativa della SDA Bocconi. Per Accounting è importante segnalare che un illustre giurista affermò che nel settore non si poteva svolgere ricerca scientifica. Colleghi internazionali del settore obiettarono sull’uso delle riviste, come strumento di valutazione, perché contavano le scuole. Cominciò a emergere il problema del benchmark. Per management fu ben più facile, grazie ad appropriate acquisizioni (Alfonso Gambardella fu il primo big catch) e al fatto che gli aziendalisti, pur nazionali per necessità, da tempo respiravano un’aria diversa. Un reputato professore di discipline aziendali dichiarò che Gambardella non era un aziendalista, soprattutto perché non usava strumenti consueti, perché si spingeva oltre il già citato deduttivismo qualitativo. Incidentalmente, le stesse persone giunsero a sostenere che la ricerca scientifica (non meglio qualificata) si doveva occupare di casi speciali, di analizzare, utilmente, ma senza obiettivi di generalizzazione – che sarebbe un po’ quanto si dice scienza.
  • Finanza: i due grossi blocchi di finanza aziendale ed economia degli intermediari finanziari racchiudevano ottime competenze, ma del tutto incomplete in un panorama internazionale. In tutto il mondo la finanza è una «costola d’oro» dell’economia, perché più facile da modellare con efficacia (ne è un esempio la «nuova finanza»). La finanza aziendale di allora era ancora troppo prossima all’analisi di bilancio avanzata, mentre l’economia degli intermediari finanziari era ancora molto ancorata all’approccio tradizionale di tipo descrittivo-istituzionale, preclaro ma insufficiente. Va aggiunto che studi di finanza erano coltivati in vari istituti (Economia aziendale, Metodi quantitativi, Economia, Economia delle istituzioni e dei mercati finanziari). Quando, più tardi, con l’introduzione dei dipartimenti, fu costituito quello di Finanza, che radunò le competenze sparse e divenne ed è ancora oggi, nel 2019, l’unico dipartimento di Finanza nel nostro Paese. La fusione non fu facile e ancora vi sono ostacoli. Essi non dipendono se non dalla «scatola dei ferri» che le persone usano.
  • Diritto: tema delicato. Una parte degli studi giuridici è fatalmente nazionale e tanto fa. La realtà delle professioni legali stava già mutando significativamente, con nuove aperture sia a livello internazionale sia con l’uso di strumenti non consueti nella tradizione. La strada non era facile perché un po’ di persone si occupavano di temi trasversali. In realtà, il mondo delle professioni legali si stava sdoppiando in due segmenti (di mercato): professione tradizionale, ove l’offerta di servizi supera la domanda, e professione non tradizionale, ove il rapporto offerta/domanda si ribalta. E qui pesantemente entrò la Bocconi a fine anni Novanta del secolo scorso: le imitazioni che seguirono confermano il valore di quella pietra gettata nello stagno.

Un’università, visibile appieno sul piano internazionale, deve esserlo sia come teaching che come research university. Da qui la necessità di allineare la Bocconi nell’attività di ricerca agli standard internazionali (almeno europei).

Al rettorato di Carlo Secchi (con Francesco Giavazzi, prorettore alla ricerca e risorse umane, e Giancarlo Forestieri, prorettore alla didattica) fu chiesto di avviare il processo[2]. Furono fatte riflessioni sugli incentivi alla ricerca e sulle modalità di reclutamento, sostanzialmente perché i produttori dei risultati di ricerca non erano altro che i docenti in forza e, in aggiunta, gli assunti e/o promossi.

Francesco Giavazzi progettò un sistema di incentivazione, in Bocconi noto come «sistema a punti», che si proponeva di valutare il contributo dei docenti alle varie dimensioni dell’attività accademica, consentendo implicitamente un parziale scambio tra attività didattica (in meno) e attività di ricerca (di particolare pregio); obiettivo cui si sarebbe giunti soltanto dopo molto tempo. Propose altresì nuove regole per il reclutamento e la promozione dei docenti. Mentre nella Bocconi precedente tali decisioni erano suggerite dagli istituti e (quasi) automaticamente approvate dal consiglio di facoltà, si avviò un livello superiore di valutazione in cui avevano voce in capitolo non solo gli istituti proponenti ma anche gli altri. Principio-chiave per l’evoluzione della Bocconi, ma ancora marginalmente irrisolto (per i giuristi). Un’iniziativa di benchmarking sul tema è in corso[3].

La fase di cambiamento

Le proposte non furono accolte favorevolmente da una parte rilevante della Bocconi, nonostante la necessità vitale di realizzare il processo di cambiamento. Pare vi fossero due ostacoli, di natura differente. Il primo di carattere culturale, il secondo di carattere nazionale:

  • nasci in Italia, ivi studi, magari hai anche un Maestro, che ti definisce l’orizzonte: sii bravo a livello nazionale, che è ciò che conta per la tua carriera (dall’esterno prendi, ma non ti preoccupi di contribuire);
  • in Italia, per far carriera devi scrivere una o due monografie; anche se in tutto il mondo ti chiedono essenzialmente di scrivere articoli.

Molti colleghi picchiarono il naso contro un fermo no a tali principi consacrati. Alcuni principi non sono trascurabili. Ma la realtà accademica internazionale è schiacciante. Serve fare qualche passo indietro e convergere sull’idea di culture differenti:

  • la scienza, che si propone di generalizzare nei casi diversi che la realtà propone;
  • le culture, che si propongono di approfondire specifiche realtà: tipico delle scienze giuridiche, che, giustamente, fanno riferimento a uno o più sistemi legali e che su di essi debbono indagare. La parte «scientifica» di tali discipline è ragionevolmente confinata nella «filosofia del diritto» e nella prospettiva comparatista. Resta poi la grande prateria di Law and Economics, tradizionalmente etichettata come «analisi economica del diritto», disciplina non standard nella tradizione, ma di importanza enormemente crescente.

Ad alcuni giuristi (civilisti) la Bocconi può chiedere di coltivare la dimensione internazionale, a un processualista meno. Qui probabilmente il processo di cambiamento fu abbastanza grezzo, soprattutto perché ispirato a discipline naturalmente internazionali (economia maxime).

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In generale, non fu tenuto in debito conto il fatto che, per cambiare un’organizzazione complessa, come la nostra, era necessario un lavoro preliminare di creazione di consenso collettivo verso il processo di cambiamento. È evidente che una trasformazione del genere può spostare al ribasso molte aspettative individuali e di gruppo, che possono divenire accettabili soltanto in una chiara prospettiva di bene comune: essere professore (associato) in un’università con un’elevata reputazione internazionale dovrebbe essere apprezzato da chiunque; ma se ciò comporta, per esempio, rinunciare a progressioni di carriera, ben precise e attese, non sorprendono diffuse posizioni contrarie.

Con estrema lucidità e con un certo dispetto, Francesco Giavazzi rilevò in consiglio di facoltà l’evidente non volontà di moltissimi colleghi di realizzare financo i primi passi del processo da lui delineato e si dimise. Dopo qualche mese, mi fu proposto di raccogliere la sua eredità, di fatto esercitata poi, almeno per la faculty, per tredici anni. Non fu necessario disegnare un vero progetto, perché, nella sostanza, esso già esisteva.

Un primo importante problema riguardò il patrimonio culturale delle aree nascoste. Dovevano crescere e – soprattutto – divenire visibili internazionalmente, proprio perché tale visibilità dipende pesantemente dalla ricerca a essa riferita, internazionalmente nota, riconosciuta e apprezzata.

Un bell’esempio è costituito dall’evoluzione della partecipazione dei docenti di discipline aziendali alla kermesse dell’Academy of Management, un evento storicamente ignorato da gran parte degli aziendalisti bocconiani. Dopo qualche partecipazione numericamente significativa, seguirono sviluppi impensabili: alcuni docenti divennero addirittura responsabili di aree della manifestazione.

Una volta accettato, almeno dalla maggioranza, il piano di cambiamento, l’Università dovette mettere in campo una serie di strumenti. Doverosamente si iniziò, per esempio, a indagare sulla situazione percepita dai singoli docenti, dopo la loro assunzione, sia in Bocconi sia in Milano.

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Le domande furono principalmente due:

  • Come ti trovi?
  • Che cosa trovi di diverso rispetto al tuo passato?

Alla prima domanda, la risposta raccolta fu «bene», perché la macchina accademica ormai soddisfaceva le aspettative dei nuovi. La risposta alla seconda domanda rivelò il peso di motivi di natura familiare, quali inadeguate opportunità per il coniuge e il resto della famiglia a Milano e via discorrendo. Nel caso di persone poi rimaste in Bocconi, le risposte alla seconda domanda, soprattutto da parte di docenti provenienti da altre università italiane, furono unanimi: «Qui progetti una cosa e poi la fai», a differenza di numerosi altri inani tentativi nelle loro esperienze precedenti. E ciò è un po’ da sempre nello spirito dell’Ateneo milanese.

La considerazione dei casi di abbandono volontario della Bocconi – peraltro pochi – è di estremo interesse. Le ragioni non furono tanto di natura accademica, ma piuttosto di sistema:

  • coniuge che non trova un’adeguata posizione lavorativa a Milano;
  • figli che non trovano un ambiente comparabile a quello lasciato;
  • Paese non banale per chi viene dall’estero.

 

Gli strumenti utilizzati

Entro ora nel dettaglio organizzativo: «Come raggiungere adeguata visibilità internazionale nell’attività di ricerca?». Essa fu raggiunta attraverso l’uso combinato di strumenti sia diretti, mirati all’attività di ricerca di chi già c’era, sia indiretti, che agirono sulla task force di ricerca potenziale.

Gli strumenti diretti, che la Bocconi mise in campo, furono:

  • erogazione di fondi interni di ricerca, necessari vista la scarsità crescente di quelli assegnati dal ministero e dal CNR e la severità degli accessi a fondi comunitari con varia qualificazione. Due strade furono saggiate: in prima battuta, guardando avanti, su singoli progetti; poi sui risultati recenti, guardando indietro. Si rilevò la difficoltà di valutare, efficientemente e internamente, i singoli progetti onde i finanziamenti furono basati sull’attività di ricerca recente rilevante;
  • archiviazione sistematica delle pubblicazioni di tutti i docenti, cosicché fosse chiaro come la visibilità scientifica dell’Ateneo risultasse distribuita tra persone e singole unità organizzative;
  • offerta, a chi avesse conseguito risultati scientifici di valore, di una riduzione significativa e modulata del carico didattico;
  • introduzione, nel 2008, di un nuovo sistema retributivo, che, finalmente, ignorò l’anzianità e si basò sul merito, precipuamente nella ricerca scientifica.

L’alleggerimento del carico didattico per i docenti altamente produttivi dal punto di vista scientifico risultò sostenibile anche grazie all’introduzione della posizione di lecturer: docenti dedicati all’insegnamento, che potessero coprire parti rilevanti della domanda di didattica (soprattutto di base). La figura fu sperimentata nell’istituto di Metodi quantitativi e poi adottata sistematicamente in tutti. Quanto sopra illustrato per il sostegno diretto alla ricerca è significativo e, se visto nella situazione del sistema universitario nazionale al 2019, potrebbe apparire quasi avveniristico. Nonostante ciò, ritengo che il rafforzamento dell’attività di ricerca in Bocconi abbia registrato la spinta più forte in maniera indiretta.

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In soldoni: per migliorare la ricerca si può incentivare/aiutare chi già c’è e fa ricerca, ma più efficace è forse l’alimentazione della parte della faculty, che potrebbe fare ricerca, ma non la fa o la fa solo entro limiti. Dare fondi e incentivi a chi fa ricerca di valore è un vantaggio per chi la fa, ed è un lieve svantaggio per chi non la fa. E il principio può essere accettato dai più. Far dipendere chiamate, promozioni e salario in maniera significativa dall’attività di ricerca svolta è molto meno banalmente accettabile e può creare anche significative opposizioni. Ma la Bocconi ebbe la meglio anche in questa direzione.

Il corpo docente

Nel grande libro del cambiamento, si apre qui il delicatissimo capitolo della gestione del corpo docente. È un capitolo articolato e quasi ognuno dei tre punti è rilevante:

  • reclutamento degli assistant professor (AP);
  • promozione degli AP a professori associati;
  • promozione dei professori associati a professori ordinari.

Nella tradizione bocconiana ante 2001, tali processi, nella sostanza, erano basati su decisioni di istituto, nel rispetto dei vincoli amministrativi sulle risorse. E ogni istituto perseguiva una propria politica. Uno degli effetti più evidenti di quella situazione era visibile nella carriera di molti docenti, che stavano in Bocconi «dalla culla alla tomba». Ci si laureava in Bocconi, si iniziava la carriera universitaria come borsista, poi si diveniva ricercatore, poi associato, poi ordinario, si figliava (in senso accademico) e poi si andava in pensione. La razionalità della regola era piuttosto evidente e giustificata in molti casi: la Bocconi è in Italia ed è il meglio, allora facciamo tutto in Bocconi, salvo, al più, qualche (breve) periodo fuori.

Tale politica era standard negli ultimi decenni del secolo scorso. La Bocconi non bandiva concorsi e chiamava in prima fascia persone chiaramente affermate, talora non bocconiani, ma spesso tali. La scelta frequente di bocconiani non fu gratuita: fu pagata in termini di autoreferenzialità e inesperienza nella gestione di rapporti, che chiaramente emergeva nelle interazioni accademiche con il mondo esterno. Ma, a mio giudizio, in passato, il giuoco poteva valere la candela.

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Quanto una parte di docenti ebbe difficoltà a capire è che divenire un’università internazionale minava l’ottimalità di quest’abitudine. Ne conseguirono discussioni vivaci e qualche presa di posizione non del tutto in stile bocconiano. Nessuna meraviglia che ciò capitasse: in una parte importante del corpo docente erano maturate speranze ed erano state alimentate aspettative, destinate a non essere concretizzate.

Per uscire dalla situazione fu, tra l’altro, necessario esplicitare un sistema di regole, uguale per tutti, costruito, accresciuto e aggiornato sotto vari nomi (Manuale di tenure, Manuale faculty, Libro bianco faculty), che divenne strumento cruciale nella gestione del personale docente. Quest’uniformità di regole, insieme con un’appropriata struttura organizzativa, furono gli strumenti chiave del cambiamento.

Con le regole fu introdotto un «salto» di livello: mentre nella «vecchia» Bocconi le scelte relative ai docenti erano sostanzialmente fatte a livello di istituto, nella «nuova» Bocconi sono a livello dell’intero corpo docente. Si è trattato di un allineamento agli standard internazionali che ha portato a definire alcune basilari regole del giuoco. Vediamole.

Reclutamento degli assistant professor (AP). Il primo provvedimento consistette nel vietare la possibilità di accesso immediato a giovani che avessero conseguito il PhD in Bocconi. Le principali ragioni a favore furono di:

  • allineamento con le best practice;
  • sostegno ai programmi PhD attraverso risorse adeguate e divieto, in linea di massima, di assumere subito i nostri PhD, destinati a portare nome e valore della Bocconi altrove. Senza il divieto, il mercato avrebbe potuto ritenere che i PhD Bocconi messi sul mercato fossero di seconda scelta;
  • sostegno alla circolazione di conoscenze e idee;
  • contenimento dell’autoreferenzialità;
  • allentamento dei potenziali legami Maestro-allievo;
  • internazionalizzazione del corpo docente, visto che, ai tempi, gli studenti nei programmi PhD erano generalmente bocconiani italiani.

La principale ragione contro riguardò il pericolo che ottimi laureati della Bocconi, poi PhD Bocconi, andassero persi. L’argomento era serio, ma per chi avesse voluto rientrare era stato disegnato un percorso appropriato, che talora funzionò. Dal punto di vista dell’Università andava valutata la questione nel complesso: i pro e i contro del chiedere a ciascun dipartimento di cercarsi i giovani possibilmente nel mercato internazionale (più o meno organizzato).

I pro sono normalmente accettati nelle hard science (medicina inclusa): la circolazione delle persone è probabilmente il più potente strumento di circolazione delle idee. Le riviste fanno ben girare idee consolidate, le persone fanno meglio girare idee che potranno consolidarsi.

Il rapporto Maestro-allievo ha permeato gran parte delle università nazionali, con successo particolare. Ha consentito a buoni Maestri di costruire scuole eccellenti e, al contempo, ha permesso la realizzazione delle peggiori nefandezze, di cui, ancora oggi, il sistema universitario finisce per soffrire. Tale rapporto si spezza esattamente come la Bocconi fece.

I metodi di ricerca negli ambiti evolvono nel tempo e nello spazio. Un esempio che mi è caro riguarda le discipline aziendali, anche perché sono stato coinvolto personalmente dall’AIDEA (Accademia Italiana di Economia Aziendale).

All’inizio del cambiamento, una parte importante dei docenti di management si riferiva alla già citata «scuola italiana di management» ed era culturalmente legata a una disciplina deduttiva, qualitativa e ispirata dal pensiero innovatore di un Maestro (per esempio, il bocconiano Gino Zappa).

Il tipico significativo «prodotto di ricerca» era una monografia, con due cruciali ingredienti: il riferimento alla produzione dei Maestri e il contributo aggiunto dell’autore. Il «prodotto di ricerca» tipico nel resto del mondo (con le eccezioni francese e tedesca) era l’articolo su rivista, un po’ come nelle altre discipline.

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La monografia, con le caratteristiche rammentate, era forte strumento di omogeneizzazione della comunità nazionale del settore. Quando la Bocconi suggerì fermamente di reclutare sul mercato internazionale, con conseguente incontro sistematico con candidati (generalmente) stranieri, il gruppo degli aziendalisti bocconiani fu costretto a constatare:

  • la debolezza della distinzione tra economia aziendale ed economia e gestione delle imprese, foriera di significative duplicazioni nell’offerta formativa;
  • la modesta differenza tra gli strumenti di indagine empirico-quantitativa, affatto standard nel resto del mondo nelle aree aziendali, e gli strumenti consueti di indagine nelle discipline economico-politiche.

Il contro (uno solo):

  • il rischio di perdere ottimi docenti. D’accordo, ma se sono bravi e non tornano essendo «targati» Bocconi contribuiscono alla sempre più rilevante reputazione internazionale. Poi, magari, tornano.

Guardando a oggi, il «ritorno a casa» non necessariamente avviene poco dopo il PhD. Ci sono, per contro, molti esempi di ritorno in maturità.

Nel Rapporto Borges sono dedicate righe a ciò: l’importanza di arricchire il corpo docente con persone «da fuori» è cruciale sia per lo sviluppo dell’Ateneo sia per essere attraenti nei confronti dei giovani. Molte testimonianze sulla cosiddetta «fuga dei cervelli» non sono incentrate su «Non voglio stare in Italia!» ma, semplicemente, sul fatto che «Altrove mi offrono di più, perché investono su di me!». Il «di più» non sono solo soldi ma anche prospettive. Pochi conoscono una vecchia sentenza del TAR Lazio che una volta chiaramente definì quale fosse lo scopo delle pubblicazioni scientifiche: mettere in ordine i candidati nei concorsi pubblici.

Promozione degli assistant professor a professori associati. È probabilmente il passo di carriera accademica più importante, perché il docente passa da un rapporto di lavoro a tempo determinato a uno a tempo indeterminato. In passato, la possibilità di divenire professori associati era legata alla disponibilità di posizioni di tal genere all’interno dell’istituto. Un grande risultato, ottenuto dal rettore Carlo Secchi, durante il suo mandato, fu l’accettazione da parte del consiglio di amministrazione dell’idea che, in caso di promozione di un AP, fosse creato, se necessario, un posto da professore associato.

La decisione di promozione, formalmente in capo al consiglio di facoltà/collegio dei docenti fu strutturata attraverso un passaggio preliminare sotto un collegio (che ebbe varie denominazioni) costruito con competenze diversificate: prorettori, un dean, professori vicini e lontani, un membro esterno con competenze vicine. Il dossier includeva (e include) il curriculum, un campione di pubblicazioni, dati bibliometrici (6/7), lettere di valutazione richieste a docenti di alto livello in giro per il mondo, in parte suggeriti da istituto/dipartimento e in parte scelti in autonomia dalla Bocconi.

Il parere del comitato, non vincolante nella forma, lo è nella sostanza, anche perché l’ultima parola spetta al consiglio di amministrazione, che generalmente non mette in discussione le scelte del comitato.

Promozione dei professori associati a professori ordinari. Il tema non merita particolare spazio perché il metodo adottato dalla Bocconi fu lo stesso della promozione a professore associato. Naturalmente i requisiti richiesti si alzarono.

In conclusione

Una domanda legittima da parte di chi legge è: «Ma tutto ciò ha prodotto qualcosa concretamente?»[4]. Mi limito a riportare la tabella, relativa al numero di articoli di autori della Bocconi dal 2006 al 2017, classificati nelle tradizionali categorie A+, A, B, C. È una buona traccia del cambiamento e merita qualche commento:

  • le classificazioni sono mutate nel tempo e sono divenute sempre più severe. Ne consegue che quanto la tabella rivela al lettore è una sottovalutazione;
  • prima del 2006 la rilevazione delle pubblicazioni della Bocconi era episodica e i relativi dati rilevati poco significativi;
  • l’incentivazione sistematica all’attività di ricerca è partita nel 2004;
  • la gestazione di un articolo in una rivista di assoluta eccellenza può richiedere un paio d’anni, quindi la tabella registra le «nascite» con ragionevole ritardo;
  • il numero di articoli nella fascia più elevata si è triplicato; il numero degli articoli nella fascia A si è quasi quintuplicato. È molto interessante la tendenziale riduzione delle pubblicazioni in terza fascia.

 

Tabella 1 Articoli pubblicati da autori della Bocconi

A+

A

B

C

2006

11

26

34

92

2007

9

40

62

81

2008

14

46

63

107

2009

13

47

76

87

2010

16

68

59

89

2011

10

83

66

77

2012

16

78

65

73

2013

28

89

57

69

2014

21

107

79

85

2015

31

94

94

56

2016

28

114

92

75

2017

28

149

86

63

2018

32

136

101

63

2019

39

159

104

55

2020

60

173

128

72


1

Il Rapporto Borges lo segnalò più volte, in particolare alle pp. 14-15.

2

Vedi anche il fil rouge 2000/2004 da p. 217.

3

Nel 2018, il dipartimento di Studi giuridici chiede e ottiene che la Bocconi faccia uno studio di benchmark sui dipartimenti giuridici internazionali di massimo rilievo circa le modalità di reclutamento.

4

Riferisco in queste pagine sul periodo 2002-14, quello della mia attività prorettorale in Bocconi. Del «dopo» parlerà Tito Boeri («La ricerca in Bocconi», p. 440). All’evoluzione della Bocconi è tra l’altro dedicato Case Study: Università Bocconi: Transformation in the new Millennium (Harvard Business School, 2008) di Giovanni Gavetti (ex allievo) e Anna Canato. È molto interessante perché mostra la riorganizzazione bocconiana in vista del cambiamento, un po’ aneddotico sul tema dell’incisione sulla «carne viva» del corpo docente.

5

Vedi anche «La ricerca».

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